La ragazza resiliente
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Anteprima del libro
La ragazza resiliente - Lucia Maitino
Lucia Maitino
LA RAGAZZA RESILIENTE
Elison Publishing
© 2021 – Elison Publishing
www.elisonpublishing.com
Tutti i diritti sono riservati
1.
Mi chiamo Bea Lucillini e ci sono due cose della mia giovinezza che ricordo bene, il desiderio che mia madre si accorgesse di me e la speranza un giorno di conquistare quel minimo di istruzione che mi evitasse la firma con la lettera x sui documenti, com’era stato per tutta la mia famiglia e suppongo per tutti i miei antenati.
Ero l’ultima di sei e allo stesso tempo figlia unica, almeno così mi sentivo, insieme a due sorelle diverse, Vittoria e Antonietta, e ad altri tre fratelli, Tommaso, Nicola e Mauro che avevano acquisito di diritto da mio padre il potere di controllarmi le giornate. Lui, il capo famiglia, era un uomo umile e senza istruzione, caratteristiche che sembravano amalgamarsi perfettamente con la sua austerità, la bellezza e il suo temibile silenzio. Apriva la bocca solo per impartire a me e ai miei fratelli insegnamenti che lui considerava importanti ma che calati nelle nostre giovani realtà non lo erano poi così tanto. Non aveva ambizioni ma una sola ossessione, avere qualcosa in tavola tutti i giorni. Aveva vissuto la Seconda Guerra Mondiale quando noi eravamo ancora piccoli e questo aveva accentuato ancora di più i numerosi lati oscuri del suo carattere. Ripeteva sempre le stesse frasi, non si pronunciava su nulla e la sua presenza rifletteva la sua solitudine. Quando, insieme ai miei fratelli, partiva all’alba per lavorare i campi, restavo con la mamma a sbrigare le faccende di casa. Tanti panni da strofinare sulla pietra in giardino e da sciacquare nella botte. Sognavo di chiacchierare con lei tra una saponata e l’altra, di abbracciarla, ma lei, di una bellezza disarmante, era solita osservare il mondo con lo sguardo di una tigre a caccia di prede. Io non ero esonerata dai suoi occhi cattivi … Non ho mai capito perché fosse così invece di mostrarsi accogliente e amorevole ma era quella la mia normalità, quella che giorno dopo giorno avevo imparato ad accettare. Non sapevo potesse esistere un mondo diverso ma ricordo bene quando, non molti anni dopo, cominciai ad accorgermi che quanto mi circondava poteva essere cambiato.
Nel frattempo, prima di essere abbastanza grande per pensare di mettere in pratica il cambiamento, inghiottivo il dolore della solitudine, in religioso silenzio, senza interruzioni, né domande, con la sicurezza che nessuno si sarebbe accordo del mio malessere. Non mi lamentavo quasi mai, facevo sempre tutto ciò che mi veniva richiesto. A dieci anni ero in grado di provvedere da sola alla famiglia: cucinare, ricamare, cucire, pulire, lavare, mungere le vacche. Non sapevo allora né leggere né scrivere ma questo non aveva importanza nel posto in cui mi era dato di vivere. Imparai successivamente, con gli anni e con la resilienza che mi ha sempre contraddistinta.
2.
Sono nata il 19 aprile del 1936 e ho vissuto una parte della mia esistenza a Lavello, piccolo paesino in provincia di Potenza. Allora era solo un centro agricolo e non contava molti abitanti. Tutti conoscevano tutti, come in una grande famiglia, con la particolarità di elargire e diffondere anziché il calore del casolare, il disprezzo, l’invidia e il pettegolezzo. Allontanandosi però dai suoi abitanti, quel luogo aveva per me qualcosa di magico. Dalla mia casetta a qualche chilometro di distanza dal paese, v’erano alcuni luoghi dove mi piaceva trascorrere il tempo. Quando avevo la possibilità di staccarmi dalle faccende domestiche e da tutti i compiti che dovevo assolvere per non prendere mazzate, sempre accuratamente di nascosto, mi recavo alla Chiesa di Sant’Anna, piena di tele sacre che raffiguravano l’annunciazione. Amavo pregare, mi regalava un grande senso di libertà e di sicurezza e trascorrevo moltissimo tempo fissandole con l’intento di memorizzarne ogni singolo particolare. Non mi era permesso andare a scuola dai miei genitori, che ogni anno cercavano di aggirare i controlli dei preposti per evitarmi l’istruzione obbligatoria che mi spettava di diritto e che era mio dovere perseguire. Al posto dei maestri c’era per me, in totale esclusiva, il parroco Alfonsino, uomo goffo con difficoltà deambulatorie che ogni tanto mi dava informazioni su una data cosa e poi ancora su di un’altra trasformando ogni incontro in una mini-lezione, una fusione di grammatica e di storia. Adoravo parlare con lui, memorizzare le sue parole e scrutare il suo viso, esattamente come facevo con mio padre ma ricevendo in cambio molte risposte, in un aperto dialogo verbale e no. Sentivo che mi voleva bene come una figlia, forse perché andavo a trovarlo così spesso, forse perché portavo lui notizie della mia bisnonna Nena, forse perché, grazie alla mia presenza, quelle giornate interminabili diventavano per lui ore e poi minuti.
Non lontano dalla chiesa c’era il Castello di Lavello. Era vietato entrarvi ma finalmente, abbastanza lontana da casa al punto da non vederne l’alto camino, mi permettevo di disobbedire alle regole. Del resto, chi lo avrebbe mai scoperto? Avevano tutti di meglio da fare e a nessuno allettava l’idea di fissare mura, graffiti, stemmi e abbeveratoi dando libero sfogo all’immaginazione. Vedevo passeggiare nobili avanti e indietro per il giardino, principesse spazzolarsi i capelli affacciate alla finestra rivolta ad occidente, stallieri entrare nelle stalle per provvedere alla cura dei cavalli, precettori intenti dare lezioni ai figlioletti del Signore.
Poi, sporca di fango con il vestito consumato e stracciato sulle gambe, mi svegliavo e rientravo a casa per preparare insieme alla mia adorabile
mamma la cena.
I pomodori appena colti, rossi come il fuoco, ad ogni passata di lama osservavo la polpa fuoriuscire, una polpa rossa come la rabbia e l’insoddisfazione che provavo costretta a casa. Quanti pomodori avrei ancora dovuto dividere? Se le lacrime avessero dato un gusto ai cibi, che gusto avrebbe avuto il sugo che per tutti i giorni della mia giovinezza ho preparato …
La cena, al rientro di mio padre e dei miei fratelli, si consumava in silenzio dopo la preghiera di ringraziamento. Difficilmente si alzavano gli occhi dal piatto fino a quando l’ultimo chicco di pasta non fosse esaurito, i polsi stavano rigidamente poggiati sulla parte più esterna del tavolo, situazione non differente da quella che si presentava nella mia mente estraniata dal contesto, dislocata nel castello, lo stesso delle favole.
I piedi uniti sotto il tavolo, composti e allo stesso tempo lievemente traballanti di insicurezza e malumore.
3.
Due volte a settimana i miei genitori mi concedevano la possibilità di andare a trovare la bisnonna. Era bellissimo vederla e non passava giorno senza che fremessi all’idea di trascorrere il pomeriggio con lei. Passava il suo tempo seduta davanti alla finestra, curva, con le spalle quasi deformate ma lo sguardo sognante, nonostante l’età. Si chiamava Lucia ed in quegli anni in cui univo il cambiamento fisico ad un gran tumulto emotivo, era la mia grande salvezza. Aveva centodue anni e viveva in cima al paese, in una casa in pietra molto piccola ma tenuta dignitosamente. Era sola, i suoi figli non sono riusciti a vivere così a lungo da seppellirla e i suoi nipoti vivevano la loro vita senza preoccuparsi troppo. Ad occuparsi di lei c’ero io, ad occuparsi di me solo lei. In sua compagnia sentivo forte la sensazione di essere importante per qualcuno. Quando mi parlava non lo faceva per darmi dei compiti, né per rimproverarmi, ma per conoscermi, per sapere di me e dei pensieri di una piccola donna. Riuscivamo a trascorrere ore davanti a quella finestra, con il chiarore del giorno, dialogando. Non si cucinava, non si mangiava, non si ricamava, nulla di tutto ciò che facevano le comari quando erano solite incontrarsi. Ci si teneva le mani a vicenda e dalla sua voce compassionevole arrivavano, una correndo dietro l’altra, parole. Non ne sentivo molte a casa mia, dovevo riuscire a prenderle fuori per non sentire così forte il silenzio che dovevo sopportare dentro.
Quando la chiamavo non lo facevo mai usando il suo vero nome, aveva un nomignolo che le aveva dato la gente del paese: Nena. Al contrario di quello che stava per capitare a me, Nena era rispettata da tutti, aveva vissuto come bisognava vivere, seguendo i codici del comportamento femminile di un paese come quello e sacrificando spesso sé stessa per il bene della famiglia, ma nonostante la conoscessero tutti, nessuno andava mai a trovarla; forse per la lunga strada tra le erbacce che bisognava percorrere, per l’odore dei suoi infusi e delle sue erbe, non sempre all’olfatto gradevoli, oppure per la paura di essere toccati da un sortilegio. A quei tempi la superstizione poteva vincere su tutto. In ogni caso, a parte me, non vedeva persona alcuna della famiglia; solo donne, in missione nascosta, da paesi limitrofi in cerca di benedizioni, medicamenti e piccoli miracoli.
In occasione della messa domenicale, le persone spesso chiedevano di lei, anche il parroco Alfonsino si mostrava sempre interessato al suo stato di salute visti i suoi numerosi anni. La bisnonna Nena era una donna giusta e possedeva due capacità: la comprensione e l’ascolto. Ero la sua ultima nipotina, sosteneva che tra noi ci fosse una certa somiglianza e forse rappresentavo nella sua mente il cambiamento, la diversità, la possibilità di liberarmi dalla schiavitù di un’esistenza costretta e legata alle mura di una casa e ad una famiglia che mi chiedeva di vivere aspettando: si aspettava il ritorno a casa dei mariti, si aspettava il rientro dei figli, si aspettava la domenica per la messa, si aspettava il pane caldo dal forno, si aspettava la notte, si aspettava che il tempo passasse.
Quel giorno avevo portato un decotto di quercia preparato proprio prima di uscire che serviva alle sue mani screpolate e un infuso di liquirizia, camomilla, melissa e verbena contro la gastrite. Ricambiavo così la sua gentilezza, facendo la cosa che più di tutte mi riusciva bene grazie ai suoi preziosissimi insegnamenti.
Quando il sole faceva il giro spostando la sua luce altrove, era ora di salutare e tornare verso casa.
Il ritorno era in discesa, non occorreva più procedere con il fiatone, ed il panorama con un’altra luce sembrava diverso. Era la stessa strada che percorrevo all’andata ma ero convinta che la notte cambiasse tutto. L’erba era più alta, se la mattina sfiorava le mie gambe delicatamente, la notte diventava prepotente, pungente e fastidiosa tanto da spingermi a correre anche se non ce n’era alcun bisogno. Gli alberi da lontano sembravano delle creature aliene gigantesche che prendevano vita man mano che la luce della luna si faceva più evidente. Di sottofondo, a fare compagnia al panorama tetro ma affascinante,