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L’amore di Daniela
L’amore di Daniela
L’amore di Daniela
E-book170 pagine2 ore

L’amore di Daniela

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Info su questo ebook

Augusta Usai torna a dar voce alla sua Daniela, la protagonista del precedente romanzo Deflorazione e incognita, con un nuovo intimo romanzo in cui si dà ampio spazio alla rinascita, alla possibilità – dopo tanta sofferenza fisica e morale soprattutto – di avere un futuro diverso, fatto di felicità, gioia, emozioni e soprattutto tanto vero amore totalmente appagante. Il percorso di evoluzione della protagonista raggiunge così il suo culmine, tra momenti di profonda introspezione, fede e condivisione con il prossimo.
LinguaItaliano
Data di uscita5 lug 2017
ISBN9788856783919
L’amore di Daniela

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    L’amore di Daniela - Augusta Usai

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8391-9

    I edizione elettronica giugno 2017

    Giovanni se ne era andato, trapassato ad altra vita.

    Mi ero separata da lui perché vedevo che la mia condizione di donna ne rimaneva distrutta, umiliata e piena di atroci colpe, che mi avevano resa fragile e infelice, accompagnata da un’insanabile depressione nervosa che mi faceva apparire – oltre ad essere nervosa e a tratti disperata – quasi spersonalizzata.

    Mi aspettava una rassegnazione difficile, dura come la pietra di quelle montagne del paese che avevano destato in me, sin dalla mia tenera età, sensazioni di paura, di timore che crollassero giù da un momento all’altro.

    Era una paura mai confessata a qualcuno, l’ho riservata per me come tante altre cose che mi rendevano la vita un inferno. Amavo reagire, però, e superare la condizione che la malattia mi imponeva.

    Ogni anno mi recavo in Sardegna, al mare e in montagna.

    Al mare, dove erano i poderi dei genitori di Giovanni, che mio figlio Massimo aveva ereditato, mi sentivo bene e piena di gioia di vivere. Scoprivo giorno dopo giorno nuove cose, nuove emozioni. La svolta alle mie sensazioni di paura era dovuta alla vicinanza delle mie sorelle che continuamente mi inducevano alla rassegnazione e alla misericordia della vita umana: «Devi vivere perché hai generato due creature incantevoli e sono desiderosi di starti accanto».

    Lo vedevo pure io che si erano affezionati con anima e corpo e ogni giorno che passava si accingevano a rendermi le cose più facili. Abitavamo ancora insieme Massimo ed io; Lucia se ne era andata da casa per vivere con il suo compagno, ma non faceva sentire la sua mancanza perché tutti i giorni era là di nuovo, pure a cena o a pranzo.

    I genitori di Giovanni, a due anni dalla sua morte, ci avevano lasciati senza un saluto, ma con la mano tesa ad accoglierci con tanta gratitudine.

    Massimo mi aveva allestito a nuovo una camera nella casa dei genitori di Giovanni e così vi potevo trascorre due settimane con il conforto della mia amica Costanza.

    Poi andavo in paese, dove mi aspettava mia zia, sempre prodiga ad aiutarmi, a mettermi a mio agio. Sapeva della mia depressione e mi reggeva come poche sanno fare.

    Avevo iniziato ad amare la vita e facevo nuovi progetti assieme ai miei due figli, Lucia e Massimo.

    Lucia si era laureata da poco e contava di lavorare col marito nell’impresa che avevano formato; Massimo si era diplomato Ragioniere e faceva il collaudatore di gomme presso una ditta di Milano. Entrambi avevano raggiunto la maturità e l’inclinazione al lavoro. E li amavo più di ogni altra cosa al mondo. Sapevo che sarebbero venuti in mio aiuto in qualsiasi momento e così, pure io, mi prodigavo ad aiutarli.

    Facevo l’infermiera professionale all’ospedale e tutti i giorni mi preparavo con un po’ di anticipo prima di uscire di casa e avevo il tempo di organizzarmi la giornata con tutta calma.

    Dalla morte di Giovanni erano scorsi anni di grande impegno organizzativo per far crescere i figli in piena autonomia e si poteva dire di essere riusciti a creare un futuro in pieno agio e concretezza di intenti e obiettivi comuni per rivendicarci i nostri diritti, volitivi e pieni di nuovi intenti, e grati su tutto ciò che si riusciva a realizzare nella concretezza di cose comuni alle nostre necessità.

    Tanto tempo per dedicarmi alla cura della casa e riposare per tutto il tempo che necessitava.

    Mi sentivo più rilassata, pronta ad affrontare le giornate che si susseguivano e s’inseguivano inesorabilmente le une alle altre, vivendole una per una, grata di poterle vivere.

    Anche al mio paese trascorrevo due settimane di vacanze in compagnia di qualcuno, che mi rendeva le giornate piene di ricordi felici, dimenticando quelli infelici, facendo lunghe passeggiate nei vicoli del paese e ricordando tutto il mio peregrinare della gioventù nei negozi per reperire cibo e altre cose utili alla famiglia di origine. Parlo di quando ero piccola, quando mia madre mi comandava d’andare a reperire del cibo, a fare la spesa. E soffrivo in silenzio perché le scarpe erano già logorate, come i vestiti che indossavo. Non mi lamentavo, sapevo che mia madre, prima o poi, avrebbe provveduto e mi avrebbe comprato scarpe e vestiti, era questione di tempo.

    Mi ricordo le sere in cui mia sorella si accingeva a cucire i miei vestitini di bambina un po’ cresciuta. Era lei che si occupava di vestirmi, cucendo in armonia le tele che acquistava in negozio. Sapeva conquistarmi con grazia, serenità e affabilità. La sua grazia mi convinceva anche quando si decideva per la lunghezza delle gonnelline dei vestiti, perché tendeva a farle molto sotto il ginocchio.

    Era più grande di me di otto anni e faceva di me quel che voleva. Mi impediva di uscire fuori a giocare con gli altri bambini e mi induceva a prendere l’ago e il filo per fare gli orli.

    Lei invece si sentiva protettiva nei miei confronti, aveva mille ragioni per esserlo, visto che i pericoli erano sempre alle porte di casa. Mi voleva in casa per provarmi i vestitini e mi vestiva sempre uguale, sempre gli stessi vestiti logori. Li sapeva fare solo in un modo, tranne gli ultimi per cui aveva seguito abilmente la scuola di taglio e cucito della sarta del paese. E lei si lasciava guidare con umiltà e dedizione totale.

    Giulia e Chiara erano le due sorelle che crebbero insieme, una seguita dall’altra. Le vedevo sempre indaffarate con l’orto, con la legna da ardere nel caminetto e nel forno a legna, perché si faceva il pane in casa, fragrante e appetitoso.

    La casa era grande e accogliente, ma allora non erano del tutto ultimati i lavori al piano superiore, si aspettavano un po’ di soldi, che arrivarono subito dopo il mio trasferimento a Milano. La completarono in quegli anni; mio padre, da solo, con l’aiuto di mia madre hanno fatto tutto quel che c’era da fare per accogliere dignitosamente tutti i figli ad agosto per le vacanze, visto che stavamo a Milano per vivere e lavorare con saggezza e dedizione.

    Sapevo di essere importante per le mie sorelle che non avevano altra istruzione se non quella di lavorare manualmente, perché sin da piccole si erano rifiutate di continuare gli studi.

    Erano gli anni di gloria e di passione per la conoscenza di Giovanni e per lo studio assiduo, per assicurarmi un buon lavoro. Avevo programmato di lasciare la Sardegna per ultimare gli studi. Mia madre non ne era a conoscenza, ma mi lasciava fare con molta rassegnazione da quando avevo tagliato i capelli e li tenevo corti. Le sfuriate di mia madre non le temevo più, la sapevo tacitare. Le riconoscevo tutta la sua buona fede nel criticare, ma non era sua peculiarità farlo, non era del tutto coerente con la sua personalità, limitata della conoscenza di cose e limiti nel suo modo di vedere i problemi delle nuove generazioni. La capivo ma non la approvavo.

    Vigilavo su di lei perché ormai anziana e le prodigavo le cure necessarie alla sua condizione. Mi svegliavo al mattino presto per starle accanto. Questo è durato fino a che l’ho tenuta a casa mia. Dopo di che, rientrata a casa sua, in breve si è ammalata gravemente ed è morta di diabete.

    Fu una grave perdita affettiva, che mi lacerò l’anima. Ogni giorno della mia vita era dedicato al suo ricordo. Per me si era rivelata una preziosa alleata per proseguire gli studi e rendermi indipendente con un buon lavoro, come in effetti è accaduto. Rimane solo il ricordo dei suoi ultimi giorni trascorsi in preghiera, perché pregava molto e si ricordava di tutti i suoi cinque figli. Mi aveva protetta e accudita quando ero molto piccola, le sono stata grata per tutto quel che è riuscita a fare durante gli anni della fanciullezza. Poi mi ero affidata a Giulia e a Chiara, che seppero infondermi gioia e amore fraterno, nonché la loro totale comprensione nella storia tra me e Giovanni, finita con tanto rincrescimento.

    Le vedevo tutte le settimane e mi interessavo a loro anche quando non potevo recarmi a casa loro. Non dimenticavo l’aiuto che le sorelle mi avevano prestato durante la fanciullezza e tuttora dura quel senso di protezione e di complicità lieve e interessante.

    Ero orgogliosa di loro, perché si sapevano rapportare a me con molta cautela. Mai mi avevano delusa o contrariata, lo sapevano che tra loro e me esisteva la cultura scolastica che mi aiutava a rendermi autonoma, ne erano consapevoli. Mi facevano sentire ben voluta e amata e anche per loro due dovevo reagire alla malattia depressiva, che non mi dava tregua. Ne avevo paura perché mi prendeva la mente e non riuscivo a padroneggiare le situazioni. Come quando mi affacciai dalla finestra senza capire quel che stava accadendo, misi i piedi sul davanzale e mi gettati nel vuoto. Ora sono viva per miracolo. Non lo volevo, eppure è accaduto. Allora non lo volevo, dico che è così per mille ragioni che mi tenevano legata alla vita, agli affetti più cari, anche agli altri fratelli, Carlo e Guido, che mi stringevo forte. I figli di tutti noi son cresciuti assieme perché non tardavamo a vederci il più possibile con viva gioia e con allegria.

    Dopo il lancio nel vuoto, crudele realtà, mi trovai in una sorta di rapimento, di vaga realtà delle cose che mi circondavano, ero piena di fobie, di strane paure. Avevo paura della gente, degli uomini. Sentivo che la mia vita era fievole, debole come una fiammella di candela che si spegne al debole alitare del vento. Soffrivo per quel che non riuscivo ad essere. Immaginavo un futuro, però, che mi destasse e reggesse il peso della vita futura.

    Avevo rigettato su Giovanni alcune colpe, che non erano di nessuno, solo del tempo che scorre e volge al termine inesorabilmente senza che noi ne possiamo prenderne parte. Soffrivo per questo e non mi davo tregua. Restavo dei giorni, lunghi giorni, appesa ad un filo di speranza.

    Desideravo cambiare e alla fine c’ero riuscita a soffocare quei giorni bui e pieni di tormento.

    Dalla morte di Giovanni restavo sola, ma sentivo vicini i miei due figli e con coraggio prendevo in mano la mia vita e cercavo di andare avanti come prima e più di prima.

    Speravo di riordinare i miei sentimenti, controllare le emozioni e riuscire a vivere senza paure e sconforto.

    Continuo a credere nell’amore, quello vero, che mi desse tutto il bene di cui avevo bisogno. Non mi lamentavo, ma non dovevo soffrire ancora a causa del matrimonio, che è valso comunque la pena di vivere perché sono nate due creature meravigliose e sinceramente amorevoli. Avevo fatto bene nonostante tutto il tormento che ne era derivato.

    Ero in paese da un po’ di giorni e uscivo spesso a fare visita alle poche persone che conoscevo. Mi rallegrava tutto e sentivo meno il peso dei miei giorni e proprio in quei giorni avevo incontrato tutti i paesani vicini di casa. Tra di loro Mario e Antonio, i due muratori che avevano ultimato i lavori al piano superiore. C’è dello stoico in queste due persone morigerate per il tipo di lavoro che facevano. Erano persone sane e un po’ robuste, anche se piccolette di statura.

    C’è una storia da raccontare perché la loro sorella è stata la mia madrina di cresima e spesso ci si vedeva in quanto stavano di casa sul lato opposto della strada, dritto al nostro ingresso, e ci si fermava spesso a parlare delle cose più disparate.

    La mia madrina mi aveva seguita fino a Milano per lavorare, poi si era sposata con un sardo, che amava parecchio. Ha avuto da lui tre figli maschi e una femmina.

    Si era separata da me perché mi voleva far sposare con Antonio il muratore. Mia madre si era addirittura risentita perché la risposta era negativa: «Non può – disse lei – sta studiando!». Non esistevano ragioni, vedevano l’unione già fatta. Quando mia madre li convinse che esistevano le ragioni per cui la richiesta non poteva essere esaudita, rientrò in casa e me lo raccontò. Anche a me parve che la risposta di mia madre fosse esaustiva e subito la ignorai. Mia madre mi aveva tolto da una situazione imbarazzante. Io a modo mio gli volevo bene, ma non mi passava per la testa di prenderlo come marito. Volevo di più, anche se di lui mi mancava la musica: si andava a ballare, per le feste, in piazza, e mi divertivo moltissimo. Mi pagava da bere e rispettava l’ora del rientro a casa nel tardo pomeriggio. Mi faceva sentire felice e piena di gioia di vivere; lo incontravo volentieri e ci salutavamo con grande affetto. Ma non poteva esserci qualcosa di più, anche perché si confidava con sua sorella e mi facevo riferire tutto quello che progettava. Diceva per esempio: «I quaderni che hai tu sono troppi! Ne basta uno» oppure «Ce l’hai il letto? Perché io non lo compro». Era un po’ stupido e non lo prendevo sul serio, anche perché lui non era nei miei progetti per il futuro. Non lo vedevo come marito, come amico sì, e glielo dicevo, ma travisava. Pensieri e parole di troppo, perché non ero disposta ad investire niente su di lui. Era povero, molto povero, sia di mezzi che di cultura. Faceva finta di leggere, ma in realtà non capiva niente di ciò che leggeva.

    Mi faceva tenerezza, ma gli sfuggivo come si sfugge alla peste.

    Viveva in una taverna mal messa, con i suoi genitori, il fratello e la sorella; un buco di capanno con soletta di cemento, buio e tetro come nessuno sa di avere; se ne stavano lì, ebri del vino della loro stessa vigna e si crogiolavano al caldo del loro caminetto e del forno a legna perché tutti si faceva il pane buono

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