Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

A spasso nei mondi
A spasso nei mondi
A spasso nei mondi
E-book243 pagine3 ore

A spasso nei mondi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Gli accadimenti terreni e animici si intrecciano in storie a spasso nei tempi e nei mondi.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ago 2018
ISBN9788827840900
A spasso nei mondi

Leggi altro di Rita Salvini

Correlato a A spasso nei mondi

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su A spasso nei mondi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    A spasso nei mondi - Rita Salvini

    famiglia

    Una vita interiore

    Essendo nata il 30 Ottobre 1946, all’inizio dell’estate del 1948 avevo poco meno di due anni.

    È da qui che inizia il mio primo ricordo.

    A Milano c’erano ancora tante macerie, case bombardate durante la guerra e non ancora rimosse, anche in fondo alla via dove abitavo.

    Il marciapiedi prospiciente la mia casa era particolarmente ampio. Una prima parte asfaltata ed una seconda di terra libera, pronta ad ospitare qualche albero.

    Infatti poi, un decina d’anni dopo, o forse anche più, il comune ha piantato degli alberi che, ancora oggi, non sono divenuti particolarmente alti, con foglie piccole, simili a quelle della robinia e con penzolanti una specie di carrube.

    Non ho mai saputo di quale tipo di pianta si trattasse.

    Ma allora, in quell’inizio di estate del 1948, sulla parte scoperta, sulla terra, erano appoggiati tanti blocchi di granito, uno sull’altro, uno di fianco all’altro.

    Servivano a contornare il marciapiede, nuovo di zecca.

    Il granito era grigio e brillava, brillava al sole, come se avesse avuto tanti diamanti incastonati.

    Strano, vero, come certi particolari restino impressi nella memoria, anche se vissuti da una piccolissima bambina.

    Io ero seduta su uno di questi blocchi e, davanti a me, su un altro pezzo di granito, stava mia nonna Giovanna con in mano un piatto mentre, il cucchiaio teso verso di me, tentava di imboccarmi.

    Avevo evidentemente fatto i capricci e la nonna pensava che il cambiare scenario, portandomi in strada, avrebbe sviato la mia attenzione e sarebbe così riuscita a farmi mangiare.

    Rarissime automobili e qualche bicicletta passavano per la strada e l’ambiente era tranquillo, quasi ci si trovasse in un parco o in un giardino.

    Questa era la cornice della situazione.

    Ma io ricordo i miei pensieri di quel momento.

    Si crede comunemente che certe facoltà vengano sviluppate più avanti negli anni, ma gli adulti lo pensano probabilmente perché, in realtà, quando crescono ne perdono il ricordo.

    Io sono stata dotata, sicuramente, del dono di una memoria fuori del comune.

    Anche se ora, passati i sessanta, è di molto scemata, ritengo di averne sempre in abbondanza.

    E dunque, mentre mia nonna mi imboccava, ricordo di avere pensato: - Ma cosa ci faccio qui? Con questa gente? Perché sono qui? Io sono una principessa.

    Premetto che la mia famiglia si poteva forse definire nella media della maggioranza delle famiglie alla fine della guerra.

    Un piccolo appartamento in affitto, dove vivevamo in cinque.

    Un lavoro sicuro del capofamiglia. Anzi, la sicurezza del lavoro era qualcosa in più di quello che aveva la maggior parte della gente. Poteva forse essere considerato un privilegio.

    Ma lo stipendio era comunque basso, anche se sicuro, e i soldi troppo pochi.

    Mia madre stava a casa e vivevamo tutti insieme con i nonni, i suoi genitori, che percepivano due misere pensioni. La nonna ci consegnava la maggior parte della sua, mentre il nonno faceva ogni mese mille conti e poi dava una piccolissima somma per cibo ed affitto. Ma quando dico piccolissima, intendo proprio quello.

    I miei genitori erano entrambi estremamente dotati di manualità, pur non svolgendo nessun lavoro di quel genere.

    In questa mia casa dell’infanzia non ricordo sia praticamente mai entrato un operaio a sistemare qualcosa.

    Mio padre era un piccolo genio dell’elettricità ed era competente anche di idraulica e di meccanica.

    Aveva una fantasia creativa molto spiccata nello scrivere, sapeva ben tinteggiare una parete e dipingeva quadri ad olio.

    E’ stato inoltre capace di fare così, senza nessuna preparazione specifica, una cassettiera con otto cassetti, perfettamente funzionanti, cosa che io ritenevo e ritengo di non facile fattura, per qualcuno che non sia un artigiano del settore.

    Mia madre leggeva molto, era precisa e pignola, ma non possedeva la fonte creativa di mio padre. Alla sua morte, avvenuta quando gli altri se ne erano ormai già tutti andati da anni, e vivendo lei sola in questa casa, abbiamo poi  trovato tutto in un ordine maniacale, e in una scatola aveva messo degli elastici  accuratamente piegati e questo io ho ritenuto essere un po’ la  firma sotto la rappresentazione della sua vita.

    Sapeva inoltre cucire, quasi fosse una sarta, e confezionava  cuscini, lavori all’uncinetto, maglia ai ferri, tende e tendoni.

    Sia lei che la nonna cucinavano con passione e, quando era festa, lo faceva anche mio padre, con arie di grande superiorità, sentendosi uno chef di grido.

    In casa regnava armonia e non ricordo mi mancasse nulla.

    Ero sempre ben vestita perché, da poca stoffa comperata al mercato o da qualche avanzo regalatoci dalla nostra vicina di casa (che faceva la sarta di professione) mia madre riusciva a farmi delle belle cose.

    Era una donna di gusti raffinati e credo che un po’ soffrisse e si sentisse inadeguata nella situazione, poi negli anni a venire mi raccontava che a volte non aveva avuto  i soldi per comperarsi le calze e questo  le era parso  tremendamente ingiusto.

    Mi rendo solo ora conto di avere dipinto un quadretto idilliaco, e forse lo era confronto a tante altre situazioni familiari, posto in quel dato momento storico.

    Ritornando alla nonna che mi imboccava sul marciapiedi, ecco ……. io non ero certo conscia di quello che era la mia situazione familiare ed economica, ero troppo piccola e non ravvisavo mancanze di sorta.

    Ma  dentro di me risuonava qualcosa, come se mi trovassi lì per sbaglio.

    L’ombra di un ricordo, una sensazione lontana che mi portava a meravigliarmi del fatto che la mia corte fosse carente e sparuta, di come le mie stanze fossero tanto poche, piccole e modeste.

    Sapevo di essere una principessa.

    Ma dove erano i servitori?

    Dov’era il mio castello?

    Pensavo a un’altra vita?

    Poi mia madre mi disse che non mi aveva mai insegnato a tenere le posate. Non avevo mai afferrato il cucchiaio e la forchetta come fanno solitamente i bambini, ma le avevo subito imbracciate nel modo giusto.

    Beh …. certamente una principessa conosce come si tengono le posate.

    Poi, negli anni a venire, il pensiero della principessa svanì.

    Ma rimase dentro una sensazione legata apparentemente a un nulla, sensazione che affiorò nuovamente il primo giorno di scuola, la sensazione di trovarmi in un ambiente che non mi appartenesse.

    Nel frattempo, a tre anni, conobbi il mare. Si era di gennaio. Non ricordo nessun tipo di particolare impressione al riguardo perché, sin da allora, tutto era rivolto e vissuto molto più dentro me stessa che non all’esterno. Avevo creato un posticino nel mio cuore dove nascondermi, sognare ad occhi aperti, avvolta nel mio mondo di bambina, profondamente sola, ma bastante a me stessa.

    Dopo qualche mese ci fu un annuncio molto importante: un nuovo componente della famiglia era in arrivo.

    Io ne fui molto felice. Volli a tutti i costi imporre la mia volontà sulla scelta del nome. Solo al femminile, non volendo nemmeno lontanamente valutare il fatto che potesse nascere un maschietto. Il nome da me proposto fu accettato dai miei genitori in opposizione a quello che aveva scelto mia nonna e che era Simonetta, da tutti noi ritenuto troppo brutto, anche se adesso non mi pare sia proprio così.

    Nel Gennaio del 1951, sotto il segno dell’acquario, nacque mia sorella Carla. Fummo tutti molto felici.

    Nell’Ottobre del 1952, credo proprio il 1° Ottobre 1952, iniziò per me la scuola elementare.

    C’era stato un tentativo di mandarmi all’asilo verso i quattro anni, ma dopo qualche giorno le maestre avevano consigliato a mia madre di tenermi a casa, soprattutto per il loro bene, in quanto mi vedevano sì letteralmente terrorizzata alla vista degli altri bambini, ma soprattutto eternamente abbarbicata all’orlo del loro camice bianco, dal quale riuscivano a malapena a staccarmi per andare in bagno. Inoltre non mangiavo più, né all’asilo né a casa.

    Ricordo che mi sentivo come in una gabbia di belve a dover fronteggiare una razza a me totalmente sconosciuta e sicuramente pericolosa.

    Gridavano, giocavano, si muovevano scompostamente, mi venivano addosso.

    Erano bambini.

    E io ero una vecchia, composta  principessa.

    Oh ….. il terrore cieco.

    Esisteva dunque qualcosa da cui dovermi difendere, al di fuori del mio tranquillo contesto familiare, ed io non ero preparata a questo.

    Certo conoscevo ed interagivo con dei bambini, i nostri vicini di casa, maschi e femmine  più o meno della mia età, che avevano  però un comportamento più calmo.

    Mia madre, che mi aveva mandato all’asilo solo su insistenza degli altri familiari, fu ben felice di avere una scusa per tenermi a casa.

    Ma il 1° Ottobre 1952 dovevo per forza affrontare il mondo.

    In casa non mi avevano mai insegnato nulla, non conoscevo nessuna lettera dell’alfabeto, nemmeno in stampatello. Mia madre riteneva che insegnarmi qualcosa avrebbe in qualche modo inquinato l’insegnamento scolastico ed aveva timore che io potessi poi faticare maggiormente.

    Ricordo …  quel primo giorno di scuola nel quale, subito dopo l’appello e la formazione delle classi, ci rimandarono subito a casa perché la maestra era malata e le lezioni sarebbero cominciate per davvero solamente il giorno successivo.

    Dentro di me c’erano mille sensazioni.

    Sapevo che da qui non potevo scampare e non avevo la minima idea di quello a cui sarei andata incontro.

    Mentre percorrevo il viale interno del giardino della scuola per ritornare a casa,  ricordo che pensai alle  altre bambine non come mie pari, con le quali sarei stata costretta a dividere un’esperienza tanto temuta,  ma a come dei vassalli che avrebbero dovuto essere collocati in altro luogo più consono, e comunque divisi da me.

    Non pensate male.

    Queste non erano costruzioni mentali di superbia, erano sensazioni interiori incontrollate.

    Non ricordi, perché non facevano parte della memoria di questa vita, ma qualcosa che affiorava, incomprensibilmente.

    I primi giorni di scuola furono naturalmente di ambientamento. Ma dato che qui bisognava stare tranquilli, non avevo così tanta paura degli altri bambini. Un po’ di timore lo provavo per la maestra, peraltro persona eccezionalmente preparata e comprensiva, con la quale sono stata in contatto epistolare sino alla nascita di mio figlio, partecipazione alla quale non rispose più,  probabilmente era morta, essendo ormai piuttosto vecchia.

    Dopo un paio di mesi durante i quali potevamo usare solo la matita, cominciammo a scrivere con la penna ed il pennino da intingere nel calamaio.

    Inizialmente qualche foglio di quaderno era macchiato di inchiostro, con grande disappunto di mia madre e nonostante i miei sforzi perché ciò non accadesse.

    Poi ci fu una svolta epocale della mia vita.

    Perlomeno, io così la vissi.

    Quasi senza rendermene  conto avevo imparato a leggere ed a scrivere.

    Il 25 Dicembre 1952, giorno di Natale, tra i giocattoli regalatimi da genitori, amici e parenti (avevamo tanti parenti, fratelli, cugini, zii, dei quali ora io e mia sorella abbiamo perduto traccia) scoprii un regalo di mia madre: un libro, intitolato Quo Vadis? di Henryk Sienkiewicz, edizione per ragazzi.

    La copertina esterna di cartone rigido, bianco, con le figure colorate in primo piano di Ursus, Licia e Vinicio.

    E’ un libro famoso, da cui è poi stato tratto anche un film. Alcuni ricorderanno questi nomi.

    Sino ad allora avevo solo letto qualcosa sul sillabario di scuola e nulla mi aveva particolarmente colpito.

    Ma questo libro ….

    Iniziai subito a leggerlo, velocemente, leggevo già come ora.

    Terminai il libro estasiata e disperata. Era terminato ed io ero sola. Non avevo altri libri, ma questa storia non me la stavano raccontando, la stavo leggendo, potevo riviverla ogni volta che volevo.

    E subito lo rilessi da capo, dalla prima parola.

    E lo finivo, e lo rileggevo e lo finivo e lo rileggevo ….

    Senza smettere mai.

    Intanto la scuola proseguiva, io andavo bene, ma appena potevo scappavo nel libro, il mio rifugio segreto.

    All’inizio mia madre stentava a credere che io lo rileggessi veramente da capo ogni volta e un giorno mi interrogò, con il libro in mano. Le ripetei parola per parola le prime due pagine. Lei capì.

    Non mi comperò altri libri, al momento. Erano un lusso che non poteva permettersi.

    Con la famiglia ulteriormente allargata non si arrivava mai alla fine del mese.

    Arrivò il Natale del 1953.

    La mattina del 25 Dicembre in mezzo a vari regali …… c’erano ben cinque libri, tutti per me.

    Mia madre aveva detto a parenti ed amici quanto ci tenessi ad averne.

    Ricordo Pattini d’argento e le fiabe dei Fratelli Grimm e di Andersen.

    La fiumana inarrestabile della lettura nella mia vita era iniziata e non si sarebbe più fermata.

    Pur avendone poi sempre a disposizione anche tramite biblioteche, altri libri subirono la sorte di Quo Vadis, cioè li rilessi e rilessi e rilessi ancora, sempre prima dell’adolescenza. Mi ricordo tra questi il Conte di Montecristo, I Miserabili, I Buddenbrook.

    Da allora ho letto centinaia di libri, alcuni bellissimi ed avvincenti, altri noiosi.

    Ma ringrazio tutti quelli che li hanno scritti, perché ognuno di loro mi ha dato qualcosa, chi più, chi meno.

    I libri mi hanno salvato la vita.

    Sono stati la mia maggior risorsa nei momenti difficili e infelici, cioè quasi sempre.

    Pensavo al mio futuro, che vedevo proiettato in un’unica direzione: la scrittura. A dieci anni il mio sogno era di vincere il nobel per la letteratura.

    D’altronde i sogni si chiamano così proprio perché non hanno limiti.

    Frequentai scuole  non consone ai miei desideri, poi  arrivò il momento del lavoro.

    Dentro di me tutto si ribellava al fatto di dover sottostare ad una vita che non c’entrava nulla con quello che io ero. Ci furono anni e anni di grande infelicità, in cui non sono stata capace di far uscire le risorse interiori per ribellarmi, per aver coraggio.

    I libri erano sempre l’unico aiuto, il rifugio segreto.

    Lavoravo, avevo una vita, un matrimonio.

    Ma vivevo la vita di un’altra, sentivo la meschinità di una quotidianità che non mi apparteneva, una vita in cui in parte mi ci ero trovata e in parte ci ero entrata, chissà poi perché, e mi avvolgeva nelle sue spire, imprigionava la mia anima.

    Una vita fatta di sopravvivenza, come tante vite, immagino.

    C’è stata malattia, dolore, come tanti, forse come tutti.

    In qualche modo adesso mi sono perdonata la mia vigliaccheria, era effettivamente difficile uscire dal gorgo. Non impossibile, ma difficile.

    Nel 1973 mi accorsi di aspettare un bambino.

    Ne fui certa nell’istante in cui accadde, anche se speravo che così non fosse.

    Io non volevo figli.

    Non volevo dare la vita ad una creatura che potesse essere infelice come lo ero io. Non volevo assumermi questo onere, non volevo essere colpevole nei suoi confronti.

    Speravo non fosse vero.

    Feci l’esame per verificare.

    In casa, da sola.

    Era un sabato mattina. Ci voleva tempo per ottenere il risultato. Tre ore.

    Misi tutto l’ambaradan in anticamera, raccomandavano di sistemarlo in un posto non colpito dalla luce esterna. Continuavo a passarci davanti con la scopa, lo straccio della polvere e  lo spazzolone.

    Il tempo pareva non passasse mai.

    Poi adagio adagio si formò un cerchio scuro, dapprima leggero e poi più deciso.

    Mi fermai con la scopa in mano.

    Dunque era questo.

    Era questo che si provava.

    Mi pareva di averlo già fra le braccia.

    Mio figlio.

    In quel momento morii come donna e rinacqui come tigre, un belva.

    Avevo un cucciolo da difendere.

    Mio figlio avrebbe avuto da me tutta la protezione e la libertà.

    Non mi sarebbe mai importato nulla dei soldi, lui avrebbe fatto ciò che voleva.

    Qualsiasi cosa.

    Anche qualcosa che a me sarebbe potuto dispiacere.

    Ma la vita, la sua vita, sarebbe stata solo sua.

    Lui sarebbe vissuto senza ostacoli.

    Certo non li avrebbe avuti da me.

    E se la vita li avesse posti, li avrebbe rimossi o li avremmo rimossi insieme.

    Come diceva Voltaire: posso non essere d’accordo con la tue idee, ma farò di tutto perché tu le possa esprimere.

    Erano le

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1