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L'eretico che ho amato
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E-book182 pagine2 ore

L'eretico che ho amato

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Info su questo ebook

Cinquecento anni fa, nel XVI secolo, L’Europa cristiana si spaccò in due. L’Europa centrosettentrionale, guidata da Riformatori protestanti come Lutero e Calvino, si staccò dal mondo mediterraneo guidato dalla Chiesa di Roma. Ci furono guerre feroci, alimentate da fanatismi e da interessi economici, e i morti furono decine di migliaia. Gli eretici che finirono sul rogo furono tantissimi. Ma il rogo in cui bruciò lo spagnolo Michele Serveto è stato fuori dal comune. Condannato ad essere bruciato vivo dall’inquisizione spagnola riuscì a scappare la notte prima dell’esecuzione. Cambiò identità e divenne medico a Parigi. In questa veste scoprì la doppia circolazione del sangue. Ma anche in questo caso riuscì a cadere sotto l’inquisizione cattolica francese. Di nuovo condannato al rogo, ma ancora una volta riuscì a fuggire la notte prima di essere bruciato. Alla fine si presentò a Ginevra dove Calvino aveva un potere personale assoluto sulla città. Forse pensava di trovare protezione da lui e invece fu arrestato, processato e condannato al rogo. E questa volta non riuscì a scappare e fu bruciato in piazza. Doppiamente eretico, dunque, per l’inquisizione cattolica e per Calvino. In fondo lui sosteneva la vecchia eresia ariana: Cristo era figlio di Dio ma non Dio. Quel tragico rogo spinse gli spiriti liberi ad avviare il moderno dibattito sulla tolleranza e sul liberalismo. Si cominciò a capire che bruciare un uomo per difendere un’idea è in realtà solo un assassinio.
La narrazione di Carlo Monaco esplora tutti i dettagli di questo racconto storico. Ma ad essa si affianca un consistente filo conduttore romanzato. A raccontare i fatti è una donna innamorata di lui che scopre a poco a poco la sua vera identità. Un matrimonio d’amore che doveva coronare la loro storia salta a seguito della vita difficile di questo eretico costretto continuamente a fuggire e a nascondersi. Ma anche questa parte romanzata non è inverosimile.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2018
ISBN9788861557208
L'eretico che ho amato

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    L'eretico che ho amato - Carlo Monaco

    Carlo Monaco

    L’ERETICO

    CHE HO AMATO

    Collana I Saperi n.7

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

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    ISBN 978-88-6155-720-8

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2018

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    Questo libro è dedicato alla memoria di tutti coloro che,

    in società ed epoche diverse, sono morti per testimoniare

    il valore assoluto della libertà di pensiero e di espressione.

    PREAMBOLO

    O Eterno, porgi l’orecchio alle mie parole, sii attento ai miei sospiri. Ascolta la voce del mio grido, o mio Re e mio Dio, perché a te rivolgo la mia preghiera. O Eterno, al mattino tu ascolterai la mia voce. Al mattino ti offrirò la mia preghiera e aspetterò.

    Da quando vivo in questo convento prego il mio Signore con i versi del Salmo. Ogni mattina, al levarsi del sole. E ogni sera, prima di addormentarmi. Il tempo che mi rimane da vivere, la cui durata è ignota a tutti tranne che al Signore, lo trascorrerò in questo luogo di preghiera, assieme a poche e care consorelle.

    Prego Dio e affido la mia anima alla sua sovrana e misericordiosa volontà. Spero che un giorno possa chiamarmi a sé nei cieli della beatitudine!

    E tuttavia neppure la preghiera riesce pienamente ad allontanare dalla mia memoria le tracce intense di amore e di dolore che la vita vi ha stampato in modo indelebile. Resto qui sola, con l’anima gonfia di ricordi. Il pensiero vi indugia spesso con nostalgia e tremore. E qualche volta anche con un acuto senso del peccato.

    È con questo spirito che ho pensato di raccontare in questa memoria scritta alcuni momenti della mia vita e della mia ricerca interiore. In modo del tutto sincero e disinteressato.

    Non ho più parenti né amici dei quali accattivarmi la benevolenza. Sento invece il dovere di dare testimonianza, a coloro che vivranno dopo di me, del valore di alcune persone che ho avuto occasione di incontrare nel mio cammino di vita e di amore.

    E sono sicura che proprio a uno di essi spetti un posto importante non solo nella vicenda che qui racconto ma persino nella storia.

    1

    Mi chiamo Marianne.

    Sono passati tanti anni da quando, bambina, correvo davanti a casa. La mamma mi chiamava spesso: Marianne, stai attenta, non allontanarti troppo! Marianne, fai attenzione a non cadere! Abitavamo a Charlieu e là io sono nata, nella primavera del 1512. Quel piccolo pezzo di mondo lo sento ancora tutto vivo nel magazzino della mia memoria.

    A volte mi appare così nitido come è adesso l’immagine della mia mano che scrive. Charlieu, a poco a poco, era diventata parte di me stessa. Non era solo lo spazio circostante che si era impadronito di me, ma il panorama tutto intero. La terra degli affetti e dei sogni, della cura e della speranza.

    Potrei chiamarlo piccolo paese, ma forse è preferibile considerarlo città, principalmente per la presenza di una antica abbazia, dedicata a San Fortunato, tra le più belle della valle della Loira, non lontana dal convento cistercense di Cluny.

    La mia casa natale non era molto distante dall’abbazia, con la quale era collegata da una strada bianca, ondulata, protetta da una staccionata e in alcuni punti da un semplice muretto. Salendovi sopra mi fermavo spesso a guardare i colori della natura, ad assaporare i penetranti profumi delle primavere, ad ammirare il biancore dei paesaggi invernali innevati.

    La mia infanzia è trascorsa in quel luogo in modo del tutto sereno. Non posso lamentarmi di nulla. Sono cresciuta tra affetti familiari tenerissimi. Mia madre, mio padre e mio fratello Jacques sono sempre stati gentili con me, ultima nata, e non mi hanno mai fatto mancare né il necessario per vivere né l’affetto.

    Mio padre era un mercante di tessuti. Partiva spesso in viaggio anche per luoghi molto lontani, in Francia e all’estero. La sua attività dava buoni frutti e garantiva alla mamma e a noi piccoli l’essenziale per vivere con dignità. I suoi insegnamenti erano efficaci e convincenti. Di mia madre non posso che parlar bene. Non solo era una donna gentile e garbata, ma anche una instancabile lavoratrice. Tutta l’attività della casa era di fatto garantita dalla sua presenza attiva e premurosa.

    La condizione della mia famiglia era abbastanza fortunata, ma non poteva dirsi lo stesso dei tanti poveri che risiedevano a Charlieu. Una parte della popolazione, per cercare di assicurarsi la sopravvivenza quotidiana con ogni mezzo, era costretta a vivere in abitazioni spesso simili a tuguri. Il lavoro della terra, faticoso e scarsamente produttivo, generava un reddito assai magro, gravato per di più da pesanti decime a favore dell’abbazia. Non erano soddisfatti della propria condizione la maggior parte dei contadini e il loro malcontento spesso si rivolgeva contro la Chiesa che lucrava sul lavoro dei poveri e cercava per sé persino lo sfarzo, anche quando ai suoi fedeli non era garantita la stessa sopravvivenza.

    Una situazione così aspra alimentava critiche severe nei confronti della Chiesa. Talvolta erano tanto dure da spingersi fino al punto di mettere in discussione la vera natura del messaggio religioso. Circolava con qualche insistenza la parola Riforma, indicata come la strada rivoluzionaria, la sola capace di restituire alla cristianità il sano spirito apostolico delle origini.

    Ma nella mia casa di queste discussioni giungeva solo una eco lontana. Mamma ci insegnava le preghiere e le devozioni della tradizione e la sua fede nella religione dei padri sembrava incrollabile anche se sottoposta alle prove più dure.

    Frequentavo assiduamente i riti religiosi e rimanevo sedotta dal loro fascino. Conservo vive nella memoria le devozioni della Settimana Santa. Quando non suonavano più le campane e tutto il paese cadeva in un silenzio struggente. E si levavano alte le lamentazioni del profeta Geremia. Oh Gerusalemme! Gerusalemme, convertiti al Signore Dio tuo.

    Metteva molta tristezza la morte di Gesù, figlio di Dio. Ma per me era quasi un gioco. Tanto si sapeva che sarebbe risorto dopo il terzo giorno! La Chiesa si addobbava di nero e la scena diventava tutta tetra anche quando i paramenti sacri erano impreziositi da riquadri dorati. Il lutto era tinto anche di color viola. Per fortuna! A me il viola piaceva tantissimo perché non pensavo al peccato degli uomini e alla morte di Gesù, ma assaporavo in anticipo il profumo delle violette fresche che ormai facevano capolino tra le erbe del bosco.

    Fui avviata, assieme ai miei fratelli, verso gli studi elementari e i risultati apparvero subito soddisfacenti, anche nelle materie verso le quali le femmine non erano ritenute particolarmente portate. Imparai a leggere e a scrivere, a recitare le preghiere e a cantare nel coro dell’ abbazia.

    Ricordo ancora le sere d’estate, quando i profumi e i colori della natura si mescolavano con gli odori della cucina. E quando prendevo le lucciole, le depositavo sotto il cuscino con la certezza che avrebbero portato fortuna. Alcune notti si sapeva che sarebbero cadute le stelle, e io le vedevo veramente, stelle filanti e luminose come se in cielo si festeggiasse il carnevale.

    Ogni anno nel periodo del tempo buono giungevano da lontano pittoresche compagnie di girovaghi, con carrozzoni, animali e case trasportate. Arrivavano, si trattenevano alcuni giorni, si esibivano in spettacoli imprevedibili, vendevano per il paese oggetti artigianali che solo loro erano in grado di produrre e poi ripartivano.

    Facevano un po’ paura queste compagnie di girovaghi, ma a me no. Rimanevo incantata e mi fermavo spesso ad ascoltare qualcuno di loro capace di parlare, parlare e raccontare, parlare e discutere di tutto. E spesso anche loro finivano per animare discussioni sulla religione e sulla riforma della Chiesa. In questo modo le cose facete si mescolavano con quelle più gravi e impegnative.

    A volte arrivavano in paese variopinte compagnie di commedianti. Ed era subito festa. In verità non avevano fama di persone dalla buona moralità. Mamma ne parlava male, tutte le mamme si preoccupavano per le figlie, ma a me piacevano, forse perché evocavano il fascino misterioso di terre lontane. Ed erano tutti stranamente belli. Riservati e tranquilli parevano sempre assorti a pensare a luoghi immaginari, a mondi che solo loro conoscevano. Erano sereni forse perché avevano girato il mondo e lo conoscevano bene e non erano come me, abituata dalla nascita a rimanere rinchiusa nelle angustie di un piccolo paese.

    Tanti ricordi, per quanto belli e struggenti, come è sempre il mondo dell’infanzia, da soli non sarebbero stati sufficienti per spingermi a scrivere questo diario. Ciò che cambiò definitivamente la mia vita non fu l’incontro con un commediante, ma quello con una persona misteriosa venuta da lontano. Di questo voglio parlarvi. Di professione quest’uomo fuori dal comune faceva il medico. Ma poi scoprii tante altre cose di lui. È soprattutto di questo incontro e del legame che stabilii con lui, con il mio medico, che voglio davvero lasciar questa testimonianza scritta.

    E spero così di vincere l’inerzia del tempo e la forza dell’oblio.

    2

    Il convento nel quale mi sono ritirata si trova a Troyes. Parigi non è troppo distante. Un po’ più lontana è la mia Charlieu. Il convento è originale e forse unico. Lo dice già il suo nome: Paraclito. Si riferisce allo Spirito di Dio, lo Spirito Santo al quale venne originariamente dedicato.

    Fu costruito circa quattrocento anni fa dal filosofo Abelardo e fin dalle origini è stato destinato al sesso femminile. Quel grande maestro, dopo lo scandalo che suscitò la sua storia d’amore con Eloisa, si ritirò dapprima nel convento di San Dionigi, ma poi, insoddisfatto della soluzione, decise di trasferirsi proprio in questo luogo. Qui, su un pezzo di terra abbandonata che gli era stata donata, ottenne il permesso, dal vescovo del luogo, di poter edificare un convento. Lo costruì con sterpi e paglia, vi si installò come un eremita e lo dedicò alla Santissima Trinità.

    Ma l’isolamento fu interrotto dall’arrivo di allievi che accorsero da ogni dove. Abbandonarono città e castelli per abitare nel deserto; al posto delle loro grandi case, si costruirono piccoli rifugi, invece che di cibi raffinati si nutrirono di erbe selvatiche e di pane comune, al posto di morbide coperte si prepararono un letto di paglia e rami, invece di tavole imbandite misero una sull’altra delle zolle di terra. Edificarono le loro casette lungo le rive dell’Ardisson, così che sembravano più eremiti che studenti. Questo racconta un cronista dell’epoca.

    Man mano che cresceva il numero degli studenti Abelardo riprese le sue lezioni, e i suoi seguaci preparavano tutto ciò di cui c’era necessità, dal cibo agli abiti. Coltivavano anche i campi e si assumevano le spese per la costruzione di edifici. Gli edifici crebbero con le pietre e con il legno. Così nacque questo convento nel quale adesso vivo.

    Fu Abelardo stesso che lo volle dedicare allo Spirito Santo Paraclito, cioè consolatore. Forse avrebbe fatto meglio a intitolarlo al Dio eterno. Che si tratti di Padre, di Figlio o di Spirito Santo è sempre all’unico Dio Eterno che ci si riferisce. Ma ora non voglio avventurarmi troppo nelle dispute trinitarie, perché di esse sarà pieno zeppo tutto il mio racconto.

    Abelardo dedicando il convento al Paraclito intendeva venerare Dio in quanto portatore di conforto nella vita di ogni persona afflitta. Conforto che non giunse troppo presto. Le polemiche scaturite dalla sua scandalosa storia d’amore con Eloisa non si placarono. Anzi, divennero così aspre da costringere il grande maestro a fuggire per nascondersi in luoghi più sicuri, anche oltrepassando i confini conosciuti della cristianità.

    Le condizioni di vita in terre lontane e ostili risultarono insopportabili e indussero Abelardo a rivolgersi all’abate di San Dionigi, che era stato il suo superiore, per cercare di dare al Paraclito una destinazione più degna. E così maturò la decisione di spostare in quel luogo tutte le suore del convento di Argenteuil tra le quali vi era anche la sua amata Eloisa.

    È troppo nota la storia di Eloisa perché io mi soffermi a lungo per narrarvela. La giovane e bella Eloisa era stata rapita da una passione totale per il suo maestro. Apparivano indivisibili l’ammirazione per il valore intellettuale dell’amante e l’attrazione sessuale fortissima. La passione fu subito ricambiata con la stessa intensità e l’amore tra i due subito apparve destinato a durare per l’eternità.

    Ma lo scandalo di quel rapporto, l’invidia delle altre donne per il letto di Eloisa, di cui lei addirittura era orgogliosa, fecero precipitare la situazione. I parenti del canonico Fulberto, tutore di Eloisa, si scatenarono nella caccia all’uomo e lo perseguitarono insistentemente e con ogni messo. Alla fine giunsero alla sua evirazione.

    Per Abelardo non si trattò solo di un dolore fisico tremendo da sopportare ma soprattutto dolorosissime furono per lui l’umiliazione e la condanna. A poco servì il matrimonio che qualche tempo dopo venne celebrato tra i due. E neppure la conseguente nascita del piccolo Astrolabio. Il figlio le venne sottratto ed Eloisa si vide costretta a ritirarsi nel convento di Argenteuil.

    Ora finalmente Abelardo riusciva a realizzare un disegno almeno in parte più rassicurante, dopo la grande bufera che li aveva colpiti. La sua Eloisa si trasferiva qui, nel convento del Paraclito, insieme a tutte le consorelle e Abelardo si apprestava a dettare proprio per esse le regole della vita conventuale. Le radunò tutte, donò l’intero convento alle suore, ed ebbe persino il consenso del vescovo del luogo e del Papa.

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