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Dagli Appennini alle onde (Storia di un calciatore professionista)
Dagli Appennini alle onde (Storia di un calciatore professionista)
Dagli Appennini alle onde (Storia di un calciatore professionista)
E-book164 pagine2 ore

Dagli Appennini alle onde (Storia di un calciatore professionista)

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Info su questo ebook

Il mondo del calcio come non lo avete mai visto. È questo il cuore del libro che avete tra le mani, perché il calcio non è solo quello patinato e scintillante della televisione, quello spettacolare e multimilionario, con grandi sponsor e investimenti da capogiro. Dal campetto polveroso di una parrocchia allo stadio di San Siro, dai quattro calci dati a un pallone nella piazza di un paese di provincia all’Olimpico di Roma, il calcio è sempre espressione giocosa e appassionata dell’uomo che ci sta dietro. È sudore, speranza, dedizione e fatica, passione allo stato puro, altrimenti molto semplicemente non esiste. È questa la ragione per la quale più altri pur nobili sport, il calcio ha la capacità di muovere le emozioni e l’impegno di milioni e milioni di persone ai quattro angoli della terra, è una lingua comune che fa incontrare interi popoli, fa stringere amicizia, condividere momenti indimenticabili. Per capire davvero cosa si agita dietro le quinte abbiamo bisogno del racconto vivo e appassionato di un protagonista, che ci spieghi alcuni meccanismi non sempre limpidi e che spesso sfruttano le passioni e le aspettative di tanti giovani. Ma questo libro è molto di più è la storia di un uomo caparbio, uno di quelli che non molla, che sa riconoscere le difficoltà nell’unica ottica possibile: quella di superarle. Un uomo che non ha mai smesso di lottare per difendere e affermare quelle passioni che viveva fin da bambino, un uomo che il calcio lo ha vissuto in tutte le sue sfaccettature, dalla squadra di provincia alla Nazionale, dal calcio professionista a quello umanitario; perché sì, il calcio è essenzialmente un veicolo di amicizia, quella vera, quella sincera. Non è un caso che il protagonista di queste pagine sia anche un viaggiatore che si muove alla scoperta del mondo, delle sue genti, delle sue sofferenze e delle sue bellezze.

Davide D’Innocenzo, è stato un calciatore professionista, ha militato in diverse squadre e categorie indossando diversi colori nonché quelli azzurri della Nazionale. Legato al suo territorio d’origine, ha messo le sue competenze a disposizione dell’imprenditoria e della politica locale con battaglie che hanno messo a nudo i meccanismi di poteri piccoli e grandi. Questo è il suo primo libro.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9791220135238
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    Dagli Appennini alle onde (Storia di un calciatore professionista) - Davide D'innocenzo

    Copertina-LQ.jpg

    Davide D’Innocenzo

    Dagli Appennini

    alle onde

    (Storia di un calciatore professionista)

    © 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-3143-8

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    Dagli Appennini alle onde

    (Storia di un calciatore professionista)

    Radici

    Un uomo senza radici semplicemente non è un uomo. Di questo ne sono assolutamente certo. La sua famiglia, gli affetti, le amicizie e i luoghi che porta dentro di sé fin dall’infanzia sono qualcosa che rimane per sempre. Almeno per me è così, ma sono convinto che, se ci pensiamo bene, la stessa cosa vale per ciascuno di noi.

    Il nostro panorama valoriale, le sensazioni che proviamo, le relazioni che instauriamo e il modo in cui lo facciamo, ma anche la capacità di percepire i nostri sensi derivano da un tempo della nostra vita che ci appare lontano, ma quando la memoria esplode dentro di noi ci catapultiamo immediatamente nei nostri primi anni, quando molto semplicemente ma in maniera sorprendente abbiamo cominciato a sentire di essere vivi. Quante volte ci è capitato, mentre magari stiamo facendo una passeggiata o siamo completamente concentrati nel nostro lavoro, di essere colpiti da un odore improvviso e inaspettato che ci proietta in un momento specifico del nostro passato, quando quell’odore lo abbiamo sentito per la prima volta e ci sembra di rivivere tutto ciò che ha riguardato quel preciso istante.

    Tutto un mondo si riapre dentro di noi, quel mondo che ci hanno insegnato a guardare i nostri genitori e le persone che ci hanno voluto bene fin dalla più tenera età, senza le quali non saremmo le persone che siamo. È lì, in quegli anni, che abbiamo imparato a essere noi stessi e a conoscere gli altri, a vagliare le nostre priorità, a prendere e a dare affetto.

    Per ciò che mi riguarda sono nato e cresciuto in una famiglia fortemente matriarcale. La nonna materna, era il centro di un po’ di tutto; era lei per esempio a gestire l’economia familiare. Una donna forte e pacata, come solo le anziane signore dell’Italia contadina sanno essere, che aveva cresciuto da sola ben sei figli negli anni terribili della guerra. Se oggi sono quello che sono, in gran parte lo devo proprio a lei. Non significa che i miei genitori non ci abbiano messo il loro zampino, ovvio che sì e non li ringrazierò mai abbastanza per tutto quello che mi hanno insegnato e donato, ma era nonna cui tutti noi guardavamo, la persona da cui cominciava una scala gerarchica estremamente rigida ma anche molto funzionale. Baricentro della famiglia, ma anche punto di riferimento per l’intero paese che, all’epoca, non contava più due o trecento anime (e pensare che negli anni Quaranta erano due o tremila abitanti), cui in estate si aggiungevano i tanti per lo più romani che venivano a prendere il fresco in alta quota. Nonna gestiva infatti un bar e, nelle piccole comunità, il bar è il luogo di ritrovo di tutti. Inizialmente, fu aperto come latteria, solo in seguito divenne un bar. Non so bene perché, ma forse era proprio questo che mi ricordava mio nonno che era un allevatore di bestiame.

    Ci si andava a fare la colazione prima di andare a lavorare, a consumare il pranzo, a prendere il caffè, a fare una partita a carte con gli amici di una vita, a leggere il giornale e commentare le notizie insieme con gli altri, era il luogo dove ci si dava appuntamento per poi andare da un’altra parte, o semplicemente per salutare o scambiare quattro chiacchiere con chi si trovava lì. Era il luogo dove ci si raccontava, a volte sfogava, dove si cercava conforto o un aiuto e molto spesso lo si trovava. Capitava che quell’aiuto fosse proprio mia nonna a darlo. Era fatta così, socievole, generosa ma sempre ferma nei suoi propositi ed estremamente determinata. Mi ha raccontato tutto del paese, tutti i suoi segreti e tutte le vicende che lo riguardavano, lei le conosceva tutte.

    Come accennavo, avere una nonna così presente nella vita famigliare non significò che i miei genitori abbiano demandato a lei la mia educazione. Mia madre era una sorta di sergente di ferro. Negli anni, per fortuna, si è un po’ ammorbidita – quando oggi la vanno a trovare le nipotine si scioglie letteralmente – ma all’epoca era un’autorità, quasi granitica, che incuteva timore e rispetto. Nei miei confronti aveva però un po’ un debole, così come d’altronde l’aveva anche la nonna. Da questo punto di vista, sono stato un bambino molto fortunato, anche perché ho potuto avere a disposizione tutti e quattro i nonni che mi riempivano di affetto e di attenzioni.

    Vivere in una famiglia matriarcale, significava avere intorno donne forti e risolute. Gli uomini erano invece per così dire dei teneroni. Mio nonno e mio padre erano dei veri pezzi di pane, uomini forti che avevano scelto di avere al loro fianco donne di carattere, ma non rinunciavano a essere sempre gentili e accoglienti con tutti. Mio padre, per esempio, era una di quelle persone fondamentalmente buone, un bravo guascone che amava passare il tempo in compagnia, sempre pronto alla risata e alla battuta. Era anche molto timido, timidezza che appunto nascondeva con una simpatia immediata. Era un grandissimo lavoratore, sempre in giro su e giù per i paesi del circondario. Conosceva tutti e tutti lo conoscevano e gli volevano un gran bene e, dopo tanti anni, sono in molti a ricordarlo con piacere.

    Fu proprio grazie al suo lavoro che poté conoscere mia madre, quando si trasferì in un paesino non molto lontano dal nostro. Il primo giorno che vi arrivò, di fronte all’ufficio dove avrebbe preso servizio, c’era lei seduta su un muretto con alcune sue amiche. Si fermò, si rivolse verso mio zio che lo stava accompagnando, e senza pensarci due volte, gli disse: «Quella diventerà mia moglie». E così è stato. Si sposarono poco dopo, il primo maggio del 1971 e il 29 gennaio dell’anno successivo, guarda caso esattamente dopo nove mesi, venni alla luce io. Quando gli ricordo questa coincidenza diventano tutti rossi-rossi, come se entrassi a gamba tesa nella loro riservatezza. Insomma, tra loro fu un vero e proprio colpo di fulmine. Per mio padre non fu facilissimo chiedere e ottenere la mano di mia madre. D’altronde erano gli anni Settanta, si era ancora ai primordi dell’emancipazione femminile, e nei piccoli centri, come si può facilmente immaginare, era tutto molto più complicato.

    Insomma, sono nato e vissuto circondato dagli affetti. Come ho detto, mia madre era un sergente nella sua piccola caserma familiare. Mi controllava sempre, anche quando non c’era. Non ho mai capito bene come facesse, ma evidentemente deve essere uno di quei poteri particolari di cui dispongono un po’ tutte le madri. Non era cattiva, non lo è mai stata, ma pretendeva molto, soprattutto per quanto riguardava lo studio. Ci teneva che avessimo a disposizione tutti gli strumenti per poter affrontare la vita e lo studio era giustamente considerato quello principale. Ricordo che ogni qual volta mi esprimevo in dialetto mi riprendeva puntualmente, non transigeva sul fatto che non ci abituassimo fin da subito a parlare un corretto italiano.

    Ovviamente ci teneva che fossi sempre ben vestito e, soprattutto pulito. Al tempo, come tanti bimbi, avevo le famose scarpe con gli occhi, chi ha vissuto in quegli anni sa perfettamente di cosa sto parlando, quelle con i buchi davanti, una sorta di sandalo. Be’, capitava che all’uscita di scuola mi fermassi con gli amici a dare due calci a un pallone prima di rientrare a casa per il pranzo e ovviamente le scarpe un po’ si impolveravano, motivo per il quale quando tornavo a casa mia madre mi rifilava qualche sonoro sculaccione. A volte, nei momenti un cui era particolarmente arrabbiata, utilizzava anche la cucchiara di legno. Io e le mie sorelle ne avevamo il terrore, quando sentivamo che apriva il cassetto della cucina, ci dileguavamo alla velocità della luce.

    Una questione sulla quale non transigeva era la corretta pronuncia del mio nome che molto spesso veniva scordato, confuso o storpiato in qualcosa d’altro. Noi, del centro Italia, come i romani, abbiamo il brutto vizio di troncare le parole, e anche i nomi il più delle volte subiscono la medesima sorte. Capitava che Davide diventasse A Da’, quindi Ada, quindi Adamo… Mia madre non lo tollerava, era proprio una cosa che non sopportava e non mancava di redarguire chi osasse cotanto affronto! Mio padre aveva un atteggiamento diverso, buono fino al midollo, sempre pronto a mediare le situazioni; credo che mi abbia sculacciato non più di due o tre volte, era così raro che lo facesse che me le ricordo tutte quante.

    L’educazione che ci hanno impartito è stata d’impronta cattolica; non erano dei bigotti, ma ci tenevano che ci formassimo intorno a dei valori morali di un certo tipo. E poi nei piccoli centri, la chiesa rappresenta un vero un punto di riferimento. Ci andavano un po’ tutti e – oltre il bar – era uno di quei luoghi dove la nostra piccola comunità si incontrava e si riconosceva.

    Quando ero piccolo infatti frequentavo spesso il prete del nostro paese e non ci volle molto perché diventassi chierichetto e poi capo chierichetto anche perché ero un ragazzino molto bravo e in generale mi facevo ben volere da tutti. Purtroppo ci ha lasciati pochi mesi fa all’età di cento anni tondi-tondi. Ricordo che ripeteva spesso quella che era una sua certezza e cioè che sarebbe vissuto più di Papa Giovanni Paolo

    ii

    che era nato nel suo stesso anno e, in effetti, ha raggiunto il suo obiettivo. Un altro pezzo di storia che se ne è andato. Era molto rigido, potrei dire cocciuto, somigliava un po’ a don Peppone per intenderci, uomo energico e a volte rude. Però è stato bravissimo nell’educazione che ci ha dato, un po’ dura se volete. Era insomma un tipico prete di campagna, un ex ortolano, che invece di darci qualche scappellotto ci prendeva direttamente a calci.

    In paese mi conoscevano tutti, anche perché avevo un’attitudine speciale. Non so bene perché, ma mi ricordavo a memoria (le ricordo tuttora!) tutte le targhe delle macchine che passavano il che poteva tornare anche molto utile. Svolgevo a mia insaputa una sorta di funzione sociale. Vi faccio un esempio. Solitamente il sabato pomeriggio con gli altri ragazzini andavamo a giocare a pallone con alcuni più grandi che avevano la macchina e tra i posti che sceglievamo per le nostre partite c’era uno spiazzale vicino a un ufficio dove si pagavano i bolli delle macchine. Uno di quei sabati mi si avvicinò un signore che con grande naturalezza mi chiese la targa della sua automobile che in quel momento non ricordava e di cui aveva bisogno per compilare un qualche documento. Io, con altrettanta naturalezza, gliela snocciolai con estrema precisione.

    Una cosa che invece non mi veniva affatto naturale era quella di espormi in pubblico. Strano per uno che poi è stato sotto i riflettori del calcio professionista, ma all’epoca la questione mi metteva in estremo disagio per via della mia timidezza che con tutta probabilità avevo ereditato da mio padre. Mi capitava in chiesa, quando facevo il chierichetto, ma anche nelle recite scolastiche. Per il fatto che ero bravino e che mi ricordavo tutte le battute e tutte le poesie, mi affidavano sempre il ruolo principale. La cosa non mi andava molto a genio, ma essendo un bravo ragazzo, molto diligentemente mi prendevo le mie responsabilità. Questa è una caratteristica che mi ha contraddistinto anche in seguito. Quando dicevo a qualche incombenza, anche se non mi piaceva granché, la portavo avanti fino in fondo. È un fatto di responsabilità, o te la prendi oppure no, e io le mie me le sono sempre prese; a scuola da ragazzino, così da adulto su un campo verde. Ma quella timidezza non mi ha mai abbandonato. Ho imparato a essere estroverso proprio per superarla, la vita d’altronde bisogna affrontarla e a volte si tratta di fare uno sforzo in più e superare se stessi.

    In realtà, il mio primo contatto con la chiesa lo ebbi con un prete cinese. Fu lui infatti a tenermi a battesimo. Ricordo benissimo che aveva una vecchia Simca 1000 marrone degli anni Cinquanta. Una sorta di caffettiera con le ruote con la quale portava in giro noi ragazzini, gettando nel panico i nostri genitori che erano preoccupatissimi, non tanto per la macchina – che ormai aveva fatto il suo tempo – ma per il fatto che il don fosse un po’ cecato. Ma alla fine tornavamo

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