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Noi così vicini
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E-book179 pagine2 ore

Noi così vicini

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Info su questo ebook

Tre storie che si intrecciano: Enrico e Thomas, prima amici inseparabili, poi divisi da qualcosa che neppure loro sono in grado di comprendere e analizzare; e poi Giovanni che, superata la soglia della maturità, deve capire se è pronto a cambiare. Tutti e tre dovranno chiarire il loro passato se vorranno vivere il presente.
di Stefano Verziaggi
A quindici anni Enrico e Thomas erano inseparabili, uniti da un legame simbiotico che escludeva il mondo circostante. Poi qualcosa è avvenuto, qualcosa che forse neppure loro hanno compreso e analizzato. Qualcosa che hanno sepolto con cura.
Si ritrovano dopo dieci anni e riscoprirsi non è certo semplice. Se Enrico crede ancora nella loro amicizia, per Thomas è difficile tornare a fidarsi.
E poi c’è Giovanni, che sembra voler diventare il terzo incomodo nella ricostruzione del loro rapporto, ma forse ha solo voglia di divertirsi e prendere dalla vita tutto ciò che può, senza badare troppo ai sentimenti altrui.
Mentre le loro storie si intrecciano, Thomas deve riconsiderare le sue decisioni di adolescente; Enrico è bloccato in un lavoro che detesta e in rapporti inconsistenti con le donne; Giovanni deve affrontare le sue responsabilità e capire se è davvero pronto a cambiare.
Il passato è il quarto protagonista di questo romanzo: ha segnato profondamente ciascuno dei tre ragazzi e va portato alla luce, perché tutti loro possano essere più consapevoli delle scelte del presente.
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2021
ISBN9791220261821
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    Anteprima del libro

    Noi così vicini - Stefano Verziaggi

    perfectum.

    1.

    Lo riconobbe grazie al piede appoggiato alla parete mentre telefonava: era una sua abitudine. Indossava scarpe verde scuro, da ginnastica, ma non era possibile riconoscerne marca e modello; il jeans appena sollevato scopriva la caviglia, non portava calzini. Incurante del traffico, stava fermo davanti alla vetrina di un vecchio negozio di giocattoli e sottolineava alcuni passaggi della conversazione con ampi gesti del braccio. All’improvviso sorrise e abbassò gli occhi, come se l’interlocutore gli avesse confessato un segreto imbarazzante. Subito dopo tornò serio, annuì e riprese la conversazione. Si portò una mano alla testa e guardò verso un loggiato restaurato di recente.

    In casi simili, cos’era più opportuno? Fingere di non averlo visto, fare un giro più largo per evitare di passargli davanti? Oppure salutarlo con un gesto garbato della mano? O ancora, andargli incontro, parlargli, raccontargli degli ultimi anni, chiedergli come stavano i suoi?

    Pensare gli costava fatica, perché si era alzato con un mal di testa che era aumentato sempre più, fino al pomeriggio, quando si era recato in farmacia per prendere delle compresse. In casa non ne aveva, forse suo padre se le era portate al lavoro nonostante gli avesse chiesto più volte di lasciarne almeno un blister nello stipetto del bagno.

    Si decise.

    Erano adulti ormai, o per lo meno, adulti a sufficienza per soprassedere alle cazzate delle superiori, a vicende insignificanti che risalivano a dieci anni prima. Dieci anni: figuriamoci se aveva senso serbare rancore per tutto quel tempo. C’erano interi periodi della sua vita che erano passati indifferenti, monotoni e perciò indistinguibili; Enrico faticava a ricordare cosa ci potesse essere di diverso tra cinque e sei anni prima. Dieci anni, certo, era un periodo più importante, ma ormai lontano, passato, sfocato nei contorni. Il tempo aveva portato con sé l’oblio e l’indistinguibilità, la consapevolezza di ciò che era accaduto dopo. Il tempo aveva ridimensionato gli slanci dell’adolescenza, aveva cambiato le prospettive e permetteva, di conseguenza, di essere indulgenti con se stessi e con gli altri rispetto alle scelte compiute.

    Gli si parò davanti proprio mentre Thomas passava il telefono da un orecchio all’altro. L’espressione sul viso era neutra, forse giusto un filo incazzosa, o preoccupata: difficile dirlo. Enrico sorrise.

    Thomas non riconobbe subito chi aveva davanti; la sorpresa balenò nei suoi occhi mentre gli zigomi si tendevano, secondo una modalità che ricordava bene. Continuò a parlare, ma più lento e distratto, con piccole pause. Enrico distinse te ne avevo parlato e ma sì, non può che essere e poco più, perché l’altro aveva abbassato il tono di voce. Infine, Thomas fece un cenno con la mano libera come per dire aspetta un attimo; terminò la conversazione e riattaccò. Ripose il cellulare in tasca in modo controllato, seguendo con lo sguardo la sua stessa mano, che si passò sui jeans. Alzò gli occhi verso Enrico e fece un sorriso forzato.

    «Ehi, ciao.»

    «Ciao, è un po’ di tempo che…»

    «Un po’ di tempo che non… hai capito, già.»

    «Beh, come stai?»

    «Bene, sì. Bene. E tu?»

    «Sì, io sto bene. Sono andato a prendere delle medicine, sai, stanotte, cioè questa mattina in realtà.»

    «Il tuo mal di testa?»

    Enrico sorrise, ma la tensione non si sciolse. «Sì, il mio mal di testa.»

    Si studiarono in modo discreto, guardandosi negli occhi. Enrico si sentì a disagio per il proprio modo di vestire, che giudicò troppo formale rispetto alla semplice polo azzurra dell’altro.

    «Piacere di averti visto», riprese Thomas.

    «Sì, piacere mio. Se ti va ci vediamo per un aperitivo, visto che sei qui in centro.»

    «Oh, ecco, io non sono sempre qui, però… un aperitivo, sì, certo, vediamoci, ma devo proprio andare ora. Ciao Enrico. Saluta a casa.»

    «Ciao.»

    Non si sfiorarono. Thomas scalciò un paio di volte per terra, si girò e se ne andò.

    Enrico pensò al proprio mal di testa, a come non avesse riposato bene, a quanto la giornata fosse stata disturbata e incostante fino a quel momento. Strinse, nella tasca, una mano attorno alla confezione di antidolorifici e ai preservativi, che aveva comprato solo per gustarsi lo sguardo imbarazzato della farmacista di fronte alle sue richieste sui formati, infine si allontanò nella direzione opposta, verso l’auto.

    2.

    Forse erano stati i capelli un po’ fuori moda, o forse per il taglio degli occhi, ma era troppo lontano per distinguerlo con precisione. Forse era stato il portamento in generale, il modo di gesticolare e il movimento quasi nervoso dei piedi sul posto: in ogni caso mi è sembrato di conoscerlo. La polo azzurra con il coccodrillo parlava di un atteggiamento casual-chic, della volontà di essere riconosciuto senza esserlo davvero, una firma non troppo vistosa, ma non riesco a ricordare dove possa averlo già visto. È una situazione che mi dà fastidio: mi irrita, per essere ancora più onesto. Mi sembra di averlo lì, nell’anticamera degli occhi, come un’immagine dai contorni indefiniti. Riesco magari a capire di aver già notato il suo volto, ma mi sfugge lo sfondo su cui si staglia. Qual è l’ambiente in cui va inserito? L’università? No, poco probabile: l’ho frequentata troppo poco e troppo saltuariamente per riuscire a memorizzare tanto bene un viso. Le uniche persone di quel periodo che ricordo davvero sono i compagni con cui facevo interminabili aperitivi al bar sotto il mio appartamento, oppure quelle due o tre pseudo-amiche che, per pietà o malcelato spirito da crocerossina, mi giravano gli appunti di tutte le lezioni che perdevo, ed erano davvero tante. Le lezioni, non le amiche. All’università ero troppo impegnato a riprendermi tutta la vita che non avevo vissuto. Studiavo a casa, in modo che i miei genitori mi vedessero sempre sui libri, e funzionava, devo dire.

    No, l’università non c’entra, era qualcos’altro. Forse un negozio: un commesso? Ho passato in rassegna gli ultimi acquisti, ma niente.

    La palestra, allora? Ecco un pensiero che mi ha strappato un sorriso sornione, pensando a quanto è accaduto nelle ultime due settimane e al casino in cui mi sto ficcando. Non mi interessa tornarci sopra. C’è un genere di persone che non ho mai capito: si fanno quintali di seghe mentali e costruiscono castelli di problemi finti. Lo trovo noioso, patetico e patologico. Solo la realtà conta, e già da sola basta a stancarci, figuriamoci se resta il tempo di pensare ad altro, di creare ciò che non c’è.

    In ogni caso, il tipo si è separato dall’altro ragazzo con cui stava parlando, che è rimasto piuttosto perplesso dalla breve conversazione intercorsa e se ne è andato per la propria strada, sicuro di sé. Lo si intuiva dalla camminata, dallo sguardo che ho immaginato dritto e quasi fiero. "Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico. 1"

    Dopo i pochi attimi di perplessità ho radunato le idee e ricapitolato i programmi del pomeriggio e della serata. Arianna non mi aveva ancora scritto per confermare la cenetta, ma tanto lei fa sempre così: avvisa all’ultimo del sì o del no. Prima dovevo per forza passare da zia Lina, altrimenti mia madre mi avrebbe ucciso. Tiene molto a questa faccenda dei doberes famigliari.

    «Almeno questo», dice, perché la mia esistenza è per lei inutile e le visite giustificano le spese che sostiene per il vitto e l’alloggio. Io però non sono mio fratello e, pensandoci bene, non sono neppure mia sorella. Dopo la visita avrei avuto il tempo giusto, quasi calcolato, di sistemarmi per la serata con Arianna: con lei, infatti, si sa sempre come si comincia ma non si sa mai come si finisce, per cui ho imparato da tempo a essere pronto a ogni evenienza, persino nell’outfit.

    La giornata era pulita. Le nuvole sui toni del grigio lasciavano intuire la presenza dell’azzurro sottostante, senza che lo si vedesse. Com’è strano, ho pensato, sapere che qualcosa esiste senza vederla davvero. Sentivo la sensazione dell’aria sulla pelle, più leggera, più fresca, più viva di quella che il cielo prometteva. Nessuno guardava verso l’alto, nessuno portava a braccetto un ombrello, segno, dunque, che nessuno pensava a ciò che stava sopra di lui come a un problema.

    Questa città mi piace, ma non riesco a vederla bella, perché associo la bellezza a ciò che non conosco. Piuttosto, la definirei austera, un po’ asburgica, o magari sabauda. È una città presa dal suo ruolo, sa di avere un’immagine e fa di tutto per rispettarla. La si potrebbe definire finta? Non so. Il fatto è che anche i brutti palazzi degli anni ‘60, con le loro vetrate velate da tende, sono ben inseriti in un’atmosfera generale in cui sono i particolari a fare la differenza. Le colonnine tortili in marmo lavorato, i portafiori liberty e il sistema dell’illuminazione contribuiscono a dare un’impressione di serietà.

    Mentre mi dirigevo verso la macchina, il cellulare ha vibrato in tasca: Arianna, mi sono detto. E infatti ho letto: Amore, scusami, ma stasera non posso. Kiss.

    Amore ‘sto cazzo, ho pensato. Tuttavia, nulla è perduto: nessuno ha mai sentito di una mia resa o di un mio abbandono. Per cui, dopo averle risposto Fa niente in modo abbastanza conciso da farle venire almeno il dubbio che me la fossi un po’ presa, ho mandato un messaggio al mio piano B. Non avevo intenzione di stare a casa a sentire mia madre e mio padre. Volevo agire. Di vita ce n’è una, e in quel momento vita significava impantanarmi per bene con quel messaggio.

    La riposta è arrivata, si intende, quasi subito.


    1 Tratto da Non chiederci la parola di Eugenio Montale.

    3.

    Un anno prima

    Consigliato da un amico del padre, Enrico passò in un’agenzia che si occupava di ricongiungimenti famigliari e pratiche legali per gli immigrati. Cercavano un insegnante di italiano per dei corsi che si tenevano solo di sabato. La ragione non era chiara, ma Enrico ipotizzò che durante la settimana gli studenti lavorassero, o chissà che altro. In fondo non gli importava, anzi, gli faceva comodo: la sua intenzione era di trovarsi un lavoretto per il weekend e la prospettiva di insegnare a un corso che si teneva di sabato invece che sgobbare in pizzeria era allettante. L’edificio in cui si trovava l’agenzia era collocato appena fuori dal centro storico, in un palazzo restaurato di recente. Le ringhiere dei balconi erano in ferro battuto, con grandi fioriere vuote. Appena entrò nell’ufficio, fu colpito da un odore misto di caffè e sudore stantio. Si spiegò la provenienza del primo con la macchinetta posta a destra della porta, ma non trovò ragioni per il secondo. Qualcuno, tuttavia, se ne doveva essere accorto, perché su una mensola era appoggiato un flacone di deodorante spray. Dovette attendere il proprio turno, poiché al bancone delle informazioni una coppia dai tratti meticci stava compilando alcuni documenti con l’aiuto dell’impiegata. Alzando gli occhi, lei lo vide e sorrise con un’espressione di gratitudine. Aveva lunghi capelli biondi, tenuti raccolti in modo disordinato da un fermaglio nero dietro la nuca. A un certo punto la coppia, dopo aver ringraziato con insistenza, abbandonò il bancone, quindi Enrico si avvicinò. La ragazza sorrise, ancora.

    «Buongiorno.»

    «Buongiorno. Questo è il Punto Immigrazione, vero?»

    «Sì, certo. Come posso aiutarla?»

    «Un amico, un collega di mio padre, mi ha detto che cercate un insegnante di italiano. Ecco, sono passato a portare il curriculum. Posso lasciarlo a lei?»

    L’impiegata piegò il capo di lato e corrugò la fronte. Passando poi a toni informali, rispose: «Aspetta un secondo», e digitò tre cifre sul telefono che teneva a portata di mano. «Carla, scusa, c’è qui un ragazzo per il corso di italiano. Va bene. Sì. Lo faccio già accomodare?»

    Enrico, intanto, la osservava mentre lei si alternava tra la tastiera del telefono interno e il mouse, su cui picchiettava impaziente. Era carina, quella tipa, e consapevole di esserlo. Aveva le tette un po’ troppo piccole, ma Enrico non se ne curò.

    Lei tornò ad alzare lo sguardo

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