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Serving the servant: Ricordando Kurt Cobain
Serving the servant: Ricordando Kurt Cobain
Serving the servant: Ricordando Kurt Cobain
E-book312 pagine4 ore

Serving the servant: Ricordando Kurt Cobain

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Info su questo ebook

Il venticinquesimo anniversario della morte di Kurt Cobain. Una nuova prospettiva su una delle icone del nostro tempo. L’unico libro scritto da qualcuno che lo conosceva.
All’inizio del 1991, il famoso manager musicale Danny Goldberg accettò nella sua scuderia i Nirvana, una nuova band acclamata dalla scena musicale underground di Seattle. Non aveva idea che il leader della band, Kurt Cobain, sarebbe diventato un’icona della cultura pop e del mondo della musica, e che la sua fama avrebbe eguagliato quella di John Lennon, Michael Jackson o Elvis Presley. Danny ha lavorato con Kurt dal 1990 al 1994, il periodo più importante della vita di Cobain. Questi anni fondamentali hanno visto il successo stratosferico di Nevermind, l’album che ha trasformato i Nirvana nella rock band di maggior successo al mondo e reso noti a tutti termini come grunge; l’incontro e il matrimonio di Kurt con la brillante ma volubile Courtney Love e la nascita della loro figlia, Frances Bean; e, infine, la lotta pubblica di Kurt contro la dipendenza, che si concluse con un suicidio devastante che avrebbe cambiato per sempre la storia del rock.
Per tutto il tempo, Danny, manager e amico intimo di Kurt, si schierò dalla sua parte. Attingendo ai ricordi personali di Goldberg, a documenti mai resi pubblici e a interviste con i familiari, gli amici e gli ex compagni di Kurt, Serving the Servant Ricordando Kurt Cobain, dal titolo di uno dei pezzi più iconici e famosi, getta una luce completamente nuova su questi anni critici senza indugiare sulla comune ossessione per l’angoscia e la depressione che apparentemente guidavano Kurt. Questo libro si concentra invece sul suo genio, la sua compassione, la sua ambizione e l’eredità che ha lasciato e che dura da decenni, un tempo ben più lungo della sua stessa carriera. Danny Goldberg esplora ciò che su Kurt Cobain risuona ancora oggi, anche per una generazione che non era ancora nata al momento della sua morte. E nel farlo, ci offre il ritratto di un’icona indimenticabile.
LinguaItaliano
Data di uscita4 apr 2019
ISBN9788858997017
Serving the servant: Ricordando Kurt Cobain
Autore

Danny Goldberg

Danny Goldberg È presidente e proprietario dell’agenzia di management artistico Gold Village Entertainment, ex CEO e fondatore di Gold Music Entertainment, ex presidente di Mercury Records e Atlantic Records ed ex CEO di Air America. Autore di libri, collabora spesso con il Los Angeles Times, The Nation, Huffington Post, Dissent, Billboard e molti altri media. Vive a Pound Ridge, New York.

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    Serving the servant - Danny Goldberg

    possibile.

    1

    GOLD MOUNTAIN ENTERTAINMENT

    Ho conosciuto Kurt nel novembre del 1990, a Los Angeles. Era con gli altri membri dei Nirvana, Krist Novoselic e Dave Grohl, mentre io ero con il mio socio, John Silva. Ci incontrammo nell’ufficio della nostra società di management, la Gold Mountain Entertainment, che si trovava in Cahuenga Boulevard West, non lontano da Universal City.

    Le prime parole che Kurt mi rivolse furono un secco «Assolutamente no» quando gli chiesi se avevano intenzione di restare con la Sub Pop, etichetta indipendente di Seattle con pochi fondi ma molto apprezzata. Era la casa discografica che aveva prodotto i loro primi lavori – compreso Bleach, l’album di debutto che aveva avuto un discreto successo nell’ambiente della sottocultura punk – e alla quale le major stavano ora cercando di soffiare la band.

    Per il primo quarto d’ora Kurt non aprì bocca, fu Krist a parlare per tutti. Poi la secca risposta di Kurt sulla Sub Pop mi fece capire meglio le dinamiche del gruppo. Dave era il batterista rock virtuoso che avrebbe elevato la band a un livello musicale molto più alto rispetto a coloro che lo avevano preceduto. Krist aveva fondato il gruppo qualche anno prima con Kurt, e ne condivideva le idee politiche e culturali. L’intesa musicale era ottima e tutti e tre avevano in comune il desiderio di ibridare il mondo del punk con quello del rock. Ma era Kurt ad avere l’ultima parola.

    Agli albori del rock and roll, il ruolo del manager era spesso associato alla disonestà e all’incompetenza. Colonel Tom Parker, il manager di Elvis Presley, era unanimemente considerato un manipolatore e si riteneva che avesse approfittato del suo famoso cliente, che trattava come un bambino mentre si arricchiva in maniera spropositata alle sue spalle. Il primo manager dei Beatles, Brian Epstein, era benvoluto dai membri del gruppo ed è stato il primo a riconoscerne l’immenso talento, ma considerando le cose col senno di poi aveva una maniera un po’ ingenua di gestire i loro soldi e il loro potenziale.

    Negli anni successivi, la parola manager ha assunto diversi significati nell’ambiente musicale. Esattamente come l’agente nel mondo del cinema, il manager è una guida professionale per un musicista, ma non è l’unica figura. Ci sono gli impresari, ad esempio, che si occupano esclusivamente della gestione dei live e di rado hanno a che fare con case discografiche, editori musicali (che possiedono o amministrano il copyright dei brani) o gestione dei media – di competenza del manager. Sono sempre i manager a fare da collegamento tra l’artista e i suoi legali e contabili, così come con gli impresari, specialmente quando si organizzano le date dei tour in giro per il mondo. Mark Spector, manager di Joan Baez per svariati decenni, descrive il suo ruolo come «quello a cui spetta l’onere»*.

    In alcuni casi, deve fare anche da consigliere personale e confidente. Il primo contatto in assoluto con questo mestiere l’ho avuto guardando Dont Look Back, il documentario su Bob Dylan in cui si vedeva il suo manager, Albert Grossman, negoziare allegramente un cachet più alto. E cosa ancora più importante ai miei occhi di adolescente, faceva da spalla a Dylan quando si trattava di prendere in giro qualcuno. Dont Look Back era anche uno dei film preferiti di Kurt.

    All’inizio degli anni Settanta mi ritrovai a lavorare per Grossman per un breve periodo, e più tardi, sempre in quegli anni, mi occupai di pubblicità per la sua etichetta, la Bearsville. Aveva l’aria di uno con un sacco di segreti. Molti pensano che Dear Landlord di Dylan sia ispirata a lui, specialmente il verso If you don’t underestimate me, I won’t underestimate you (se tu non sottovaluti me, io non sottovaluterò te). Per i suoi clienti – The Band e Janis Joplin, tra gli altri – Grossman ha stravolto le dinamiche di potere tra artisti e case discografiche, agenzie di talent scout, promoter e media. È stato lui, per esempio, a impedire alla Columbia di tagliare Like a Rolling Stone di Dylan per andare incontro alle esigenze radiofoniche. La canzone, anche durando sei minuti, è diventata ugualmente un successo.

    Un altro dei miei primi modelli è stato Andrew Loog Oldham, un nome che avevo letto spesso nei ringraziamenti degli album dei Rolling Stones, come December’s Children (And Everybody’s). In quel periodo Oldham non era solo il manager degli Stones, ma anche il produttore dei loro dischi.

    Il mio mentore però è stato il manager dei Led Zeppelin, Peter Grant, per cui ho lavorato quando avevo vent’anni. Lui ha portato la tutela degli artisti, tanto cara a Grossman, a un livello ancora superiore. Grant, un ex wrestler professionista di centoquaranta chili con un marcato accento cockney, ha preteso e ottenuto che gli Zeppelin ricevessero una fetta molto più consistente dei profitti rispetto a qualunque artista che li aveva preceduti. In genere, la maggior parte dei promoter concedeva ai musicisti il cinquanta per cento dei profitti netti dei concerti. Grant spuntò il novanta, e questo cambiò per sempre il business musicale. Io ho fatto mio il suo modo di ragionare, che si può riassumere più o meno così: Conta solo quello che vuole la band. Tutti gli altri vadano a farsi fottere.

    La parola manager è un po’ fuorviante: potrebbe sembrare che i musicisti siano al nostro servizio, in realtà però accade esattamente il contrario. Siamo noi a offrire un servizio all’artista: è lui il nostro capo. Parecchi anni dopo la morte di Kurt sono diventato amico di Oldham (che tra l’altro, come me, considera Grossman uno dei suoi modelli di riferimento) e abbiamo avuto modo di confrontarci sulle similitudini e le differenze tra il suo lavoro con i Rolling Stones, a metà anni Sessanta, e il mio con i Nirvana negli anni Novanta. Mi ha anche offerto il suo enigmatico punto di vista su questo mestiere: «Un manager può ritenersi realizzato solamente quando segue un artista che lo stressa tanto quanto lui stressa l’artista».

    Uno dei manager che ammiro di più è Kenny Laguna, che ha brillantemente guidato Joan Jett per più di un quarto di secolo. Una volta, parlando degli alti e bassi del nostro mestiere, mi ha detto: «È una professione bizzarra. Un giorno mi capita di parlare con il senatore Schumer perché Joan deve fare qualcosa per il dipartimento di stato, e il giorno dopo mi ritrovo a togliere una macchia di urina di gatto da un tappeto orientale».

    Dal momento che anche gli artisti migliori sono preda dell’insicurezza, i manager devono essere in grado di mostrare ai clienti il lato positivo di ogni cosa. A volte, però, indorare la pillola può risultare controproducente. Nel documentario Shut Up & Sing c’è una scena in cui le Dixie Chicks chiedono al manager, Simon Renshaw, se le polemiche scatenate dalle critiche della cantante Natalie Maines all’indirizzo del presidente George W. Bush sulla guerra in Iraq nuoceranno alla loro carriera. Lui le rassicura dicendo che la crisi non durerà, ma si sbaglia: le proteste della destra perseguiteranno le ragazze per tutto l’anno successivo. Al suo posto io avrei fatto esattamente la stessa cosa, anche perché stavano per salire sul palco.

    Ovviamente ci sono delle eccezioni. Se un cliente sta facendo qualcosa di poco etico o di autodistruttivo ci sentiamo obbligati a cercare di dissuaderlo, ma la tendenza è quella di sostenerlo a priori. I manager che volevo emulare erano in grado di crearsi una visione idealizzata dei loro clienti, che proiettavano non solo sui musicisti stessi ma anche sul resto del mondo. Una volta, dopo un live di un artista che rappresentavo, un amico mi ha detto: «Immagino non gli dirai che il concerto è troppo lungo». Gli ho risposto: «Non lo dico nemmeno a me stesso».

    A metà degli anni Ottanta, a circa trentacinque anni, fondai la mia società di management, la Gold Mountain (un’anglicizzazione del mio cognome, Goldberg). I primi clienti furono Belinda Carlisle e Bonnie Raitt.

    Nel 1990 le cose stavano andando piuttosto bene, così decisi di aprirmi anche agli artisti che attirassero un pubblico più giovane. Sapevo che il punk stava riscuotendo un certo successo e cominciava a uscire dall’ambito ristretto della critica rock e delle radio universitarie. Perciò, dato che negli anni Settanta mi ero focalizzato poco su quella scena, ingaggiai John Silva, che ad appena vent’anni si stava già occupando di band acclamate dalla critica come gli House of Freaks e i Redd Kross. Era ossessionato dalle fanzine e dai vinili da 7 pollici. Conosceva molti dei personaggi più influenti della sottocultura punk, e per un breve periodo era stato compagno di stanza di Jello Biafra, che nell’ambiente era una leggenda. Silva aveva anche una straordinaria etica professionale ed era ambizioso, entrambe caratteristiche che lo rendevano perfetto per lavorare al mio fianco.

    Qualche mese dopo iniziammo a seguire i Sonic Youth, che avevano appena firmato con la DGC Records, il nuovo marchio della Geffen. Fino a quel momento avevano lavorato soltanto con etichette indipendenti, e chiesero il nostro aiuto per compiere i primi passi nel mondo delle major in vista della realizzazione del loro album successivo, Goo.

    La band pubblicava EP e album da otto anni ed era tra le più apprezzate e influenti della scena indipendente. Il chitarrista Thurston Moore, uno spilungone di quasi due metri con un viso da bambino e un’intelligenza acuta, era stato influenzato tanto dal compositore d’avanguardia Glenn Branca quanto dal punk rock. Nel 1984 aveva sposato la bassista e cantante Kim Gordon, ex studentessa d’arte con lo stesso suo approccio intellettuale al punk. Il chitarrista e cantante Lee Ranaldo e il batterista Steve Shelley condividevano con i compagni l’amore per diversi generi musicali. Il gruppo riusciva a declinare la ribellione sovversiva del punk con un’eleganza e un acume che li avevano resi leggendari nell’ostico ambiente della musica indie.

    Presto mi resi conto che Kim e Thurston, straordinariamente aggiornati e curiosi, avevano una cultura musicale a me inaccessibile, quindi cominciai a frequentarli il più possibile. All’interno della scena di cui facevano parte non si consideravano soltanto artisti, ma dei patrocinatori. I Nirvana sono solo l’ultima di una lunga serie di band che hanno ottenuto una certa visibilità grazie ai tour come spalla dei Sonic Youth. Kurt vedeva Thurston Moore come un mentore, e nei suoi diari il promemoria Chiamare Thurston ricorre di frequente. Quando Silva mi parlò per la prima volta dei Nirvana, ero riluttante ad accettare di occuparmene: di solito ci voleva parecchio tempo prima che la carriera di una band emergente decollasse abbastanza perché potesse pagarci. Grazie all’insistenza di Silva, però, Thurston mi chiamò per suggerirmi di fare un’eccezione, e fortunatamente lo ascoltai.

    Fu solo nel giugno del 1991, tre mesi prima dell’uscita di Nevermind, che vidi i Nirvana suonare. Aprivano il concerto dei Dinosaur Jr. all’Hollywood Palladium. Avevo assistito a centinaia di concerti nel corso degli anni, e di solito restavo abbastanza indifferente, quel giorno però rimasi folgorato. Nonostante la maggior parte delle persone fosse lì per vedere J Mascis e compagni, Kurt riuscì a entrare in profonda sintonia con il pubblico. Senza ricorrere alle pose convenzionali, su quel palco sembrava capace di esprimere il suo spirito interiore, e questo creò subito un’atmosfera molto intima. Ancora oggi non sono in grado di spiegare esattamente cosa facesse, ma solo la sensazione che ti trasmetteva. Era qualcosa di magico, che non avevo mai visto prima. Nonostante non avessi idea delle proporzioni dello tsunami commerciale che sarebbe arrivato di lì a poco, sapevo di essere molto fortunato a lavorare con loro.

    In quel periodo, la Gold Mountain era una società di medie dimensioni, con uno staff di circa venticinque persone e decine di clienti. Per molti di loro svolgevo un ruolo principalmente amministrativo, ma con alcuni avevo instaurato un legame personale. Quella sera mi resi conto che per me Kurt sarebbe stato molto più importante di quanto non mi aspettassi all’inizio. Mentre guidavo verso casa, dopo il concerto, pensavo all’ammirazione che sentivo nascere per lui come qualcosa di molto simile alla dedizione ossessiva di Peter Grant per Jimmy Page. Ero elettrizzato.

    Dopo la sua morte in molti mi hanno chiesto chi fosse davvero Kurt. A volte non potevo far altro che guardarlo attraverso un vetro oscurato dietro il quale alcuni suoi aspetti rimanevano inaccessibili. In certi momenti mi era facile entrare in sintonia con lui, in altri invece era come camminare su gusci di uova disposti tutt’intorno alle sue emozioni. Oltre alle caleidoscopiche qualità di cui ho già parlato, c’era sempre un lato di Kurt che restava nascosto, costituito in parte da un genio artistico che non riusciva letteralmente a spiegare, in parte da una disperazione radicata in un dolore così insostenibile da essere impossibile esprimerlo.

    Nel quotidiano il nostro impegno professionale consisteva nel perseguire l’obiettivo su cui io, Silva e la band eravamo subito stati d’accordo quando avevamo iniziato a lavorare insieme, ossia attirare nuovi fan senza perdere quelli vecchi per strada. Non avevamo idea che di lì a poco milioni di persone avrebbero idolatrato Kurt, ma visti i recenti successi dei Jane’s Addiction e dei Faith No More era chiaro che ci fossero centinaia di migliaia di fan del rock che pur non conoscendo il punk aspettavano con ansia qualcosa di musicalmente e culturalmente diverso dall’hair metal e dall’heavy metal che si ascoltava in quel periodo. C’era un nuovo pubblico di ragazzi attirato da una musica emotivamente più accessibile e dai valori della controcultura. Per raggiungere quell’equilibrio nel corso dell’anno successivo sarebbero state prese svariate piccole decisioni, ma io e Kurt di rado abbiamo sentito il bisogno di parlarne in maniera approfondita. Ci siamo trovati in sintonia all’istante, e anche se in seguito, nelle interviste, ha spiegato diffusamente le sue idee, nel privato si esprimeva spesso con frasi lasciate a metà, occhi al cielo, smorfie e sorrisi.

    Nei suoi diari scriveva: Niente è sacro secondo il punk rock. Io dico che l’arte è sacra. Tuttavia, mi fece capire chiaramente che sentiva una profonda connessione emotiva con molti aspetti del punk e gli interessava ciò che le persone di quell’ambiente pensavano di lui.

    Nella New York dei primi anni Settanta, quando i Ramones e altri artisti davano il via alla prima ondata punk, io lavoravo già nel campo della musica. Avevo iniziato come critico prima di capire che ero più bravo nelle pubbliche relazioni. I miei amici giornalisti erano ossessionati dalla scena punk del CBGB. A parte alcuni pezzi, a me piaceva l’energia, ma ciò che più mi interessava era conquistarmi un ruolo nel campo della musica mainstream. E così, quando ottenni un lavoro nell’etichetta dei Led Zeppelin, la Swan Song, praticamente smisi di seguire il punk.

    Diciotto anni dopo fui costretto a compiere uno sforzo notevole per riprendere da dove avevo lasciato. Sapevo di non poter capire del tutto l’arte di Kurt senza addentrarmi nel contesto culturale che fin da adolescente lo aveva ispirato e dal quale aveva tratto e interiorizzato un insieme di valori che, nella sua lettera d’addio, avrebbe sintetizzato con l’espressione Punk rock 101.

    * «The buck is here»: frase attribuita al presidente Truman, con cui intendeva dire che la responsabilità delle decisioni ricadeva su di lui e su di lui soltanto.

    2

    PUNK ROCK 101

    Nel 1993, Kurt dichiarò al giornalista Robert Hilburn: «Ero un ragazzino terribilmente depresso. Ogni sera andavo a dormire gridando come un disperato. Provavo a farmi esplodere la testa trattenendo il respiro, pensando che se mi fosse scoppiata avrebbero sofferto per me. C’è stato un momento in cui non avrei mai pensato che sarei arrivato a ventun anni». Nel libro Come as You Are. Nirvana, la vera storia , Michael Azerrad riporta una riflessione di Kurt sulla sua infanzia: Ho sempre pensato di essere stato adottato, e che mi avessero trovato su un’astronave. Sapevo che c’erano migliaia di altri bambini alieni come me, e ne ho anche conosciuti alcuni. Un giorno scopriremo cosa siamo venuti a fare qui.

    L’alienazione era amplificata dal fatto di essere cresciuto ad Aberdeen, un piccolo centro di commercianti di legname nello stato di Washington: un ambiente conservatore in cui la sensibilità artistica di Kurt bastava a renderlo un emarginato. L’unico gruppo locale che si fosse affermato nel pantheon del punk nazionale erano i Melvins, che hanno avuto un’influenza incalcolabile sui primi Nirvana, a livello personale quanto musicale. Erano tempi in cui i gruppi punk raramente attiravano più di un centinaio di persone a un concerto, e dopo il live spesso i musicisti si mischiavano con il pubblico. Era stato proprio il cantante dei Melvins, Buzz Osborne alias King Buzzo, a far scoprire a Krist Novoselic i Flipper – e quando ho parlato per l’ultima volta con Krist, nel 2018, gli brillavano ancora gli occhi ricordando l’epifania del primo ascolto di Generic da ragazzino.

    Kurt aveva visto i Melvins dal vivo per la prima volta nel 1984, a sedici anni. Poco dopo Buzz gli aveva dato una cassetta con una compilation di pezzi punk, tra cui brani dei Black Flag e dei Flipper. Kurt ne era rimasto folgorato, e aveva passato i mesi successivi a canticchiare quelle canzoni. All’autore britannico Jon Savage in seguito rivelò che ai tempi gli piacevano le melodie di alcuni gruppi rock mainstream come i Led Zeppelin e gli Aerosmith, ma che i testi gli sembravano monodimensionali: «C’era molto sessismo, il modo in cui parlavano dei loro uccelli e di come facevano sesso. Mi annoiava». Con la scoperta del punk Kurt trova la sua vera ispirazione: quei brani esprimevano esattamente ciò che sentiva dal punto di vista sociale e politico. Era un gran sollievo scoprire che, per certi versi almeno, non era solo. Esisteva un altro mondo su questo pianeta, ed era determinato a farne parte. Qualche tempo dopo Buzz gli presentò Krist e l’anno successivo il batterista dei Melvins, Dale Crover, suonava nelle primissime demo dei Nirvana. (Fu sempre Buzz, qualche anno dopo, a presentare Dave Grohl agli altri due.)

    Il punk per gli appassionati è una faccenda seria, e vale discussioni infinite sui meriti dei vari artisti o su cosa sia o non sia vero punk. Tutte dispute che a tutt’oggi non ho gli strumenti per affrontare: come un intruso di un’altra generazione, ho assorbito passivamente quello che aveva ispirato Kurt nei suoi anni formativi.

    La scena newyorkese degli anni Settanta e quella della Londra dei Sex Pistols non lo interessavano che marginalmente. Alle superiori, lui e Krist si erano appassionati a un genere di derivazione punk e indie rock nato in America negli anni Ottanta. Per quanto limitato dal punto di vista commerciale, per i fan quel movimento era paragonabile a una religione secolare, al centro della quale c’era un gruppo di artisti del tutto ignorati dai canali mainstream.

    Tra il 1980 e il 1981, qualche anno prima che Buzz facesse quella musicassetta per Kurt, i Flipper e gli Hüsker Dü pubblicavano i loro primi singoli; i Mission of Burma e i Minor Threat uscivano coi i loro primi EP; i Minutemen, i Dead Kennedys e i Replacements producevano i loro primi dischi; Henry Rollins entrava nei Black Flag e si formavano i Sonic Youth e i Butthole Surfers. Gli album di tutti questi artisti comparivano nelle varie Top 50 che Kurt stilava di continuo nei suoi diari nel tentativo di tracciare una lista delle fonti di ispirazione dei Nirvana. In tantissime occasioni gli sentii nominare questi gruppi con una tale ammirazione che sembrava quasi di essere al catechismo. Diversamente dalle classiche band rock che si erano formate negli anni Sessanta e Settanta, i musicisti punk non consideravano il successo commerciale un elemento indispensabile per legittimare il loro lavoro, e avevano parecchi pregiudizi nei confronti della musica più popolare.

    Tra quelle citate, i Black Flag sono stati una delle prime band che Kurt ha visto dal vivo, e come la maggior parte dei loro colleghi facevano musica veloce e rumorosa. Greg Ginn, il chitarrista, creò la SST Records per pubblicare gli album del gruppo, ma nel corso degli anni Ottanta l’etichetta divenne la casa di molti degli artisti che Kurt adorava. Ray Farrell ci ha lavorato a lungo prima di passare alla Geffen Records, un anno prima che arrivassero i Nirvana. Quando si incontrarono per la prima volta, Kurt un po’ malinconico gli disse: «Avrei ucciso per stare con la SST».

    Le band prodotte dalla SST non suonavano mai nei locali frequentati dal pubblico del rock and roll mainstream, perché non avevano visibilità presso i media del settore che di fatto influenzavano gli organizzatori delle serate. Per questo motivo, la SST e altre etichette indipendenti come la Alternative Tentacles dei Dead Kennedys dovevano trovare location diverse, comprese le sale dei veterani di guerra che non erano mai state utilizzate per dei live. Emersero così nuovi promoter che diedero vita a un circuito alternativo dedicato alla sottocultura di cui i Nirvana in seguito avrebbero fatto parte.

    Krist ricorda con grande affetto i primi tour in questo circuito: «Non avevamo nient’altro da fare, perciò salivamo sul nostro furgoncino e imboccavamo l’autostrada. Siamo stati in Florida, in Canada, ed eravamo felici come bambini. Ci pagavano poche centinaia di dollari a serata, ma per noi erano un sacco di soldi».

    La cultura punk è stata di forte ispirazione per Kurt non solo a livello musicale. Visto che molti dei suoi artisti preferiti non avevano visibilità sulle radio commerciali e i loro dischi non raggiungevano la grande distribuzione, bisognava cercarli nei negozietti indipendenti che per i fan del punk diventarono una specie di seconda casa. Lì si trovavano anche fanzine prodotte a costo zero, con un’estetica ben definita e una forte impronta antiestablishment. Tra le più influenti c’erano Flipside, pubblicata dal 1977, e Maximum Rocknroll, dal 1982. Era l’epoca in cui le riviste più seguite, come Rolling Stone, ignoravano il punk o lo trattavano solo marginalmente. Lacuna colmata in seguito da Creem, a cui l’adolescente Kurt era abbonato, e più tardi da Spin, lanciata nel 1985.

    Fanzine a parte, erano le radio universitarie a fare da tramite tra la musica punk e il suo esiguo ma appassionato pubblico. Le trasmissioni si basavano sulle linee guida della CMJ (College Media Journal), rivista che nel 1982 cambiò nome in CMJ New Music Report e divenne un importante punto di riferimento per gli artisti indie punk emergenti.

    Nel corso degli anni Ottanta la scena si diversificò. «Era punk se la facevi a modo tuo» dichiara Farrell. Alcuni si ispiravano ai testi minimalisti dei Ramones, ma col passare del tempo un gruppo sempre più nutrito di musicisti iniziò a introdurre tematiche sociali e politiche. Tra questi, Ian MacKaye dei Fugazi e Jello Biafra dei Dead Kennedys ebbero una grande influenza sull’immaginario politico di Kurt.

    In quegli anni la solidarietà tra gli artisti indipendenti che si consideravano degli outsider sostituì lo stile musicale come collante della comunità. I Sonic Youth – la cui estetica deve molto di più alla scena artistica newyorkese che ai Sex Pistols – divennero i mentori di quel variegato gruppo di musicisti che condividevano gli stessi valori. Valori che Kurt avrebbe poi portato nel rock mainstream: fare musica con un’impronta personale, sostenere gli altri artisti e mantenere un rapporto paritario con il pubblico.

    Uno dei paradossi del nostro rapporto era che io fossi legato a due delle realtà culturali che molti punk demonizzavano: gli hippie e le major.

    Col tempo la parola hippie aveva assunto un significato diverso da quello originario. I capelli lunghi, che negli anni Sessanta erano un gesto di ribellione, nel decennio successivo erano diventati parte dell’uniforme del rockettaro macho. Da qui l’accezione dispregiativa dell’espressione hair band. È capitato addirittura che durante alcuni concerti punk diversi spettatori venissero aggrediti e insultati a suon di «hippie» da altri fan ubriachi perché non avevano i capelli abbastanza corti.

    Alcuni degli eroi di Kurt erano di vedute più ampie. Avevano capito che mentre i simboli esteriori possono cambiare o passare di moda, un sincero idealismo anticonformista accomunava le espressioni artistiche di qualsiasi generazione. Hippie compresi. Greg Ginn dei Black Flag è stato a oltre settantacinque concerti dei Grateful Dead; Ian MacKaye dei Fugazi ha visto il documentario Woodstock sedici volte; Mark Arm ha pubblicato come singolo Masters of War di Bob Dylan per protestare contro la prima guerra del Golfo; Mike Watt dei Minutemen ha dichiarato di considerare i Creedence Clearwater Revival una band politicamente impegnata (grazie anche al loro pezzo antimilitarista Fortunate Son) e che le camicie da loro indossate sono state le antesignane di quelle di flanella, la divisa dei ragazzi normali del punk anni Ottanta. Prima dei Nirvana, Kurt e Krist avevano fondato una cover band dei Creedence, e la band in cui suonava Mark Arm prima dei Mudhoney – insieme ai futuri membri dei Pearl Jam, Stone Gossard e Jeff Ament – si chiamava Green River, in omaggio all’omonimo album del gruppo

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