La Strada dei Campioni: Maestro di tecnica sul campo e nella vita
Di Ivan Zauli
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Riassunto in poche parole, La Strada dei Campioni è il progetto di cui, per molti anni, avrei voluto poter usufruire, per affinare la mia tecnica, la padronanza della palla e l’attenzione per me stesso in campo.
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Anteprima del libro
La Strada dei Campioni - Ivan Zauli
1.
Gli ostacoli alla creatività che insegnano a crescere
Se stessi con un vestito bianco a un matrimonio
e arrivasse un pallone infangato,
lo stopperei di petto senza pensarci.
Diego Armando Maradona
Come ho avuto modo di accennare nell’introduzione, ho iniziato a giocare a calcio fin da piccolissimo, tanto che non saprei dire a che età di preciso io abbia dato il mio primo calcio a un pallone.
Sono cresciuto in campagna e quindi è stato abbastanza naturale per me passare le giornate a dare calci al pallone nel cortile di casa. Mi piaceva stare fuori, all’aria aperta, fantasticare di avere davanti a me temibili avversari, provare e riprovare i passaggi che avevo visto fare ai miei beniamini in TV. Con me c’era spesso mio fratello Alberto, maggiore di me di qualche anno, a sua volta appassionato di calcio, che fungeva un po’ da motivatore e da allenatore, oltre che da compagno di gioco.
In seguito, quando avevo poco più di sette anni, ho cominciato a giocare nel campetto dell’oratorio della parrocchia del mio paese, San Severo, una frazione di Cotignola, in provincia di Ravenna, nel pieno della campagna romagnola. Una conseguenza abbastanza naturale, per me. L’oratorio era vicinissimo a casa mia e io ero entusiasta di poter giocare sul terreno di un campetto tanto simile a un vero campo da calcio.
Anche in quel caso, però, giocavo spesso da solo: non sempre, infatti, c’erano altri bambini con cui poter giocare; e, anche in quel caso, molto spesso mi accompagnava mio fratello. Tra l’altro, lui non si limitava a usare il pallone per passare il tempo, anche lui – come me – giocava a calcio con passione ed era molto bravo tecnicamente; per me era quello che si potrebbe definire una sorta di allenatore in erba.
A lui piaceva moltissimo esercitare questo ruolo e capiva perfettamente la mia passione; così, mi dava indicazioni o mi chiedeva di eseguire determinati esercizi, consigliandomi i movimenti giusti e facendomi notare gli errori. Per un certo periodo, mi ha costretto a esercitarmi a tirare con il mio piede più debole, in quanto diceva che questo era un ottimo modo per rafforzarlo e poterlo sfruttare al meglio.
Ho seguito così tanto le sue indicazioni che, a un certo punto, è stato impossibile distinguere tra piede forte e piede debole, per me. Nel tempo li avevo allenati così costantemente che sapevo calciare col destro e col sinistro praticamente senza alcuna fatica.
Molti, tra gli allenatori che avrei avuto in futuro, mi avrebbero considerato praticamente ambidestro.
Insomma, devo moltissimo ad Alberto, al suo ruolo di primissimo maestro di calcio della mia vita.
Come ogni allievo che si rispetti, però, ben presto l’ho superato. Non tanto per la bravura – che innegabilmente acquisisci con il tempo e lo studio – quanto piuttosto per costanza e passione.
Fin da allora, infatti, sono stato letteralmente assorbito dal calcio, che è diventato la mia unica passione, il mio sfogo, la mia attività preferita, così come il pallone da calcio, da sempre, era stato il mio giocattolo per eccellenza.
A differenza di mio fratello, che era molto diligente e bravo a scuola, io non ero interessato a null’altro se non al calcio.
A scuola, ero sulle spine: non vedevo l’ora che suonasse la campanella per scappare a casa, mangiare qualcosa in tutta fretta e poi riversarmi in strada con un pallone da calcio al piede.
A nulla valevano le esortazioni dei miei e dello stesso Alberto, perché lasciassi da parte il pallone per studiare, fare i compiti, leggere libri.
Io volevo solo giocare a pallone e, soprattutto, volevo, fin da allora, imparare il più possibile.
In un certo senso, in quel periodo ero un autodidatta: oltre a giocare con gli altri bambini dell’oratorio, continuavo a passare molto tempo da solo con il pallone al piede; giocavo contro il muro, per strada, tiravo in porta nel campetto del paese, ovunque tenevo il pallone al piede e cercavo di affinare le mie mosse, senza alcuna vera e propria consapevolezza tecnica, ma solo alimentando la mia passione.
Di sicuro, ero libero: libero di provare e riprovare e di mettermi alla prova, sfidando me stesso in maniera sempre più esigente.
Durante il periodo delle vacanze estive, passavo fino a sei ore al giorno col pallone al piede.
Nei miei sogni, mi vedevo un giorno giocare come titolare nella Juventus, la mia squadra del cuore; a volte mi impersonavo nella star del momento di quella squadra: Platini. Volevo tirare in porta come lui e, soprattutto, mi esercitavo nei passaggi lunghi a parabola, come quelli che faceva lui.
Platini è stato senza alcun dubbio il mio mito per molto tempo, anche se il mio mito in assoluto era Diego Armando Maradona: i suoi virtuosismi, la sua abilità, la capacità di tenersi la palla al piede e di schivare gli avversari con fantasia ed eleganza mi lasciavano letteralmente a bocca aperta. Provavo e riprovavo, insomma, tenendo in mente le performance di questi due fuoriclasse.
Il sogno di arrivare alla Juve alla fine l’ho realizzato, non come giocatore, ma come maestro di tecnica. È stato Stefano Baldini, allora coordinatore tecnico del settore giovanile, a volermi nella Juventus in questo ruolo per formare gli allenatori sullo sviluppo delle abilità tecniche individuali.
Molti non attribuiscono molto valore al periodo che i bambini passano in questo modo, cioè dando calci a un pallone nel cortile di casa o nei campetti di quartiere, e pensano che si possa parlare di apprendimento vero solo quando ci si iscrive a una scuola e si entra a far parte di una squadra. In realtà, per quanto mi riguarda, quei primissimi anni della mia esperienza di calciatore hanno rappresentato un momento formativo preziosissimo, durante il quale ho affinato in tutta libertà innumerevoli aspetti tecnici, dal momento che potevo dedicare ai particolari, a determinate mosse, tutto il tempo che volevo, non essendo vincolato in alcun modo ai tempi stretti degli allenamenti standard.
In seguito, anch’io avrei fatto parte di una squadra, avrei avuto a che fare con il gioco di squadra e con gli allenamenti organizzati, ma sono abbastanza sicuro che gran parte della mia personalità di giocatore sia il risultato di quel periodo.
Da solo avevo la possibilità di esprimermi, sognare, provare e riprovare, giudicarmi con severità, correggere le mie mosse, senza alcuna urgenza, senza scadenze, senza limiti di tempo. Posso dire, insomma, che tutte le mie intuizioni successive, sulla tecnica,