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Apartheid all'italiana: Anti-fiaba dell'Italia accogliente
Apartheid all'italiana: Anti-fiaba dell'Italia accogliente
Apartheid all'italiana: Anti-fiaba dell'Italia accogliente
E-book136 pagine2 ore

Apartheid all'italiana: Anti-fiaba dell'Italia accogliente

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Questo libro è l'"antifiaba" di un'Italia propagandata come mite e accogliente, sentimentalista e mammona. È uno schiaffo sulla faccia di quella società civile e democratica, che ignora le grida di libertà lanciate dai ghetti italiani per migranti, scardinando il velo delle ipocrite presuntività. Il salto di paradigma da Paese di emigranti e terra di approdo rappresenta la declinazione, che Di Luzio utilizza per dimostrare il taglio di memoria storica operato e l'affermarsi di una cultura discriminatoria, sostenuta da narrative pubbliche, inclini a riproporre con ossessione il frame dell'invasione. Le scelte odierne hanno inaugurato una stagione di forte criminalizzazione dei migranti con una legislazione lesiva dei diritti umani e civili e una visione punitiva ed emergenziale.

I profughi sono rifiuti umani senza alcuna funzione utile nella terra dove arrivano e soggiornano e senza realistica possibilità di essere mai inseriti nel nuovo corpo sociale; dal luogo che occupano, la discarica, non vi è ritorno, se non verso luoghi ancor più remoti.
Fuori dai campi i profughi sono un ostacolo e un disturbo; dentro essi cadono nell'oblio. Non rimane null'altro che i muri, il filo spinato, i cancelli sorvegliati e le guardie armate.
Zygmunt Bauman
LinguaItaliano
Editoreepubli
Data di uscita15 mag 2021
ISBN9783754120415
Apartheid all'italiana: Anti-fiaba dell'Italia accogliente

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    Apartheid all'italiana - Giulio Di Luzio

    Giulio Di Luzio

    APARTHEID ALL’ITALIANA

    Anti-fiaba dell’Italia accogliente

    ProMosaik 2021

    l mondo è diviso

    tra coloro che non dormono

    perché hanno fame

    e coloro che non dormono,

    perché hanno paura

    di quelli che hanno fame.

    (Paulo Freire)

    I profughi sono rifiuti umani senza alcuna funzione utile nella terra dove arrivano e soggiornano e senza realistica possibilità di essere mai inseriti nel nuovo corpo sociale; dal luogo che occupano, la discarica, non vi è ritorno, se non verso luoghi ancor più remoti.

    Fuori dai campi i profughi sono un ostacolo e un disturbo; dentro essi cadono nell’oblio. Non rimane null’altro che i muri, il filo spinato, i cancelli sorvegliati e le guardie armate.

                                                                                                                            Zygmunt Bauman

    Prima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti combattono. Poi vinci.

    M. Gandhi

    I primi istogrammi

    Ma chi saranno questi strani personaggi con singolari caratteri somatici e pelle nera, che suonano al citofono o sostano per ore in strada? L’interrogativo aleggia e comincia a imporsi verso la fine degli anni Settanta in Puglia, soprattutto nel Salento. Sono i tapì, ambulanti che vendono tappeti porta a porta o per le vie di paesi e città. Non disdegnano lavori agricoli e marginali, ma iniziano a occupare un piccolo segmento di mercato dell’ambulantato. Sono marocchini e senegalesi per la gran parte. Li chiameranno con quel bizzarro nomignolo, in bilico tra sberleffo e stereotipo, embrione di un lessico discriminatorio in formazione. Il simpatico appellativo sarà sostituito qualche anno dopo dal più noto e nazionale vu cumprà, per indicare gli immigrati ambulanti disseminati lungo la costa adriatica. È un’Italia troppo indaffarata con la fine di un decennio tanto pregnante per la sua storia più contemporanea, per degnare di attenzione quelle ombre esili che si affacciano con timore alle porte di un paese mite e accogliente, come essi credevano.

    Alla fine del decennio i migranti sono 144.838, per diventare oltre 200 mila nel 1979 e toccare i 300 mila soggiornanti l’anno successivo. Nel 1981 il primo censimento Istat degli stranieri in Italia, ne calcola 321 mila. Seguiranno aumenti contenuti, per giungere nel 1984 a superare la soglia dei 400 mila. Un ulteriore incremento si registra tre anni dopo, quando si supera il mezzo milione, in seguito alla prima regolarizzazione del 1986.

    Il nostro Dna, per gran parte della storia d’Italia dall’Unità in poi, parla di un popolo migrante e di un Paese di emigrazione, che ha visto gli italiani per più di un secolo prendere le vie dell’esodo con circa 28 milioni di espatri a partire dal 1867 e una punta massima nel 1913 di oltre 870 mila partenze. Ancora negli anni Cinquanta e Sessanta lasciano il Bel Paese in media 300 mila persone l’anno. Il fenomeno emigratorio comincia ad affievolirsi solo a partire dagli anni Sessanta, quelli del miracolo economico, fino a ridursi, negli anni Settanta, a 108 mila unità.

    In particolare nel 1973 l’Italia registra per la prima volta un leggerissimo saldo migratorio positivo (101 ingressi ogni 100 espatri), caratteristica che si rafforzerà e diventerà una costante negli anni successivi. È da notare, tuttavia, che in tale periodo gli ingressi sono in gran parte costituiti da emigranti italiani che rientrano piuttosto che da immigrati. Sul finire degli anni Sessanta il nostro Paese è interessato da una prima immigrazione di giovani donne filippine, capoverdiane, somale, eritree, peruviane, argentine. Occuperanno la sfera dei servizi privati (colf) nelle grandi città, grazie al sostegno delle reti cattoliche. Ma bisognerà aspettare la fine del decennio successivo per registrare arrivi di una qualche consistenza. Gli anni Settanta resteranno immortalati nella memoria collettiva –ma anche nella debole coscienza civile degli italiani, del mondo politico e dell’informazione– come gli anni della curiosità e dell’indifferenza verso i nuovi arrivati, per un fenomeno di proporzioni ancora contenute. Il decennio successivo segna la fase delle buone intenzioni. Già sul finire degli anni Ottanta si va affermando una lettura dell’immigrazione schiacciata sull’emergenza e sulle corde dell’ordine pubblico. I primi flussi sono costituiti da lavoratrici domestiche, che presentano un basso tasso di visibilità sociale, e da richiedenti asilo di passaggio verso altri Paesi. C’è poca attenzione da parte degli studiosi al tema: gli italiani e l’accademia restano concentrati sull’Italia come Paese di emigranti. Ma i tempi stanno cambiando in fretta!

    Chi sono?

    È l’autunno del 1989 quando la prima ricerca nazionale sul fenomeno immigratorio in Italia, realizzata dall’ISPES –Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali– stabilisce che la maggioranza degli immigrati giudica gli italiani indifferenti, ostili e razzisti. Si tratta di una ricerca attendibile e rigorosa condotta su un campione di 1200 persone, che scuoterà il perbenismo dell’opinione pubblica del Bel Paese di fronte al milione circa di immigrati stimati all’epoca in Italia. Soprattutto, per spiegarne i risultati, bisognerà fare un coraggioso passo indietro e scoprire gli elementi di un nascente e sommerso razzismo all’italiana. Una specie di sveglia improvvisa, che sconvolgerà la tranquillità dei nostri sogni, soprattutto di coloro i quali erano convinti che vivere in una Repubblica nata dalla Resistenza rappresentasse un valido antidoto alla deriva xenofoba. È uno sfondo triste quello che si delinea sul finire degli anni Ottanta. Racconta lo stillicidio di piccoli e grandi episodi di intolleranza e violenza diffusi un po’ in tutta la penisola ai danni di immigrati neri; episodi che tanto peso avranno sulla percezione della reale portata dell’immigrazione italiana e sulle sue prospettive future. Proprio in quegli anni si segnalano fatti di insofferenza, discriminazione più o meno velata o aperto razzismo nelle grandi e civili città italiane, da Verona a Firenze, da Rimini a Udine, da Milano a Pisa, fino a Torino. È proprio nel capoluogo piemontese che si costituisce addirittura una Lega contro la droga e contro l’emigrazione irregolare del Terzo Mondo. Le istanze autonomiste più rozze e apertamente xenofobe cominciano a farsi strada e a coagularsi come grumi proprio intorno al fenomeno immigratorio. Sono episodi che riguardano i vu cumprà della costa adriatica ma anche rapporti di lavoro con immigrati considerati con disprezzo da clienti di bar e aziende. Fino a convivenze ritenute difficili tra condòmini in presenza di neri. A Palermo nel gennaio ’89 viene aggredita la giovane poliziotta somala Dacia Valent, poi divenuta europarlamentare del Pci. A Udine, solo quattro anni prima, il fratello appena quindicenne era stato massacrato con sessanta pugnalate da due compagni di scuola, appassionati lettori del Mein Kampf. Sempre all’inizio del 1989 a Firenze viene pestato a sangue il giovane somalo Osman Ibrahim all’uscita da una discoteca, mentre a Napoli un gruppo di teppisti ferisce un etiope. Nella ricca Lombardia, nella Milano da bere di quegli anni Ottanta, spicca per brutalità il trattamento riservato al giovane senegalese Paap Khouma, picchiato dalla polizia italiana. La vulgata razzista non risparmia i terroni, esponenti di quella parte del Sud del mondo molto più vicina a noi: l’8 luglio dello stesso anno a Verona il maresciallo Achille Catalani, pugliese di 51 anni, è massacrato e ucciso di botte da due veronesi. È nel biennio 1983-1985 che l’Italia registra un rafforzamento dell’ondata immigratoria, ma è dall’87 –e soprattutto dall’anno successivo dopo le limitazioni agli ingressi adottate da Francia e Germania– che il fenomeno diviene massiccio, dunque visibile e ingombrante anche agli occhi di chi tarda a prendere atto della mutazione in atto in Italia da paese emigrante a terra di approdo. Il Trattato di Schengen verrà siglato nell’85 tra Germania, Francia, Lussemburgo, Olanda e Belgio con misure restrittive di dubbio valore umanitario. Al dicembre 1988 sono 600 mila gli immigrati censiti dal Viminale in possesso di permesso di soggiorno, ma il dato ne trascura altrettanti irregolari. Ogni etnia prenderà posto in uno spicchio ben definito del paese: i nordafricani –dice l’ISPES– in Sicilia, le capoverdiane, gli etiopi e i somali a Roma, i senegalesi nelle zone industrializzate del nord, soprattutto nel bresciano. Infine i centroafricani a Villa Literno, Castel Volturno e lungo il litorale domiziano, nel casertano. Sarà proprio Villa Literno l’indicatore più fedele dell’intolleranza in Italia in quella triste mappa, ma anche l’epicentro degli avvenimenti destinati a mutare il volto dell’immigrazione italiana.

    In Italia nel 1989 il pentapartito è guidato da Andreotti. L’anno è aperto dai missili Usa sulla Libia e dall’annuncio della chiusura delle acciaierie di Bagnoli. A marzo Achille Occhetto esce vincente dal congresso che inabisserà il Pci. Si è votato per il Parlamento Europeo. Gli italiani protestano per l’introduzione dei ticket sanitari. Il mondo cambia. A fine anno cade il Muro di Berlino. In Cina la protesta pacifica degli studenti viene fiaccata a Tienanmen. In Palestina l’Intifada è al suo culmine e manca un anno alla prima stretta di mano tra Rabin e Arafat. In Sudafrica c’è l’apartheid di Stato. Nelson Mandela è in prigione da ventisei anni ma sarà liberato l’anno successivo. Nel nostro paese ci sono un milione e 200 mila immigrati.

    La svolta, l’apartheid italiano

    Grazie a intensi processi di bonifica che interessano l’intera area paludare del Volturno, a ridosso di Casal di Principe, Castel Volturno e Villa Literno (qui nasce l’espressione dialettale dei mazzoni per indicare quell’area), il territorio dà impulso in quegli anni a una ripresa dell’attività agricola, divenendo crocevia e punto di smistamento di forza lavoro per l’intera area. Il paesaggio agricolo tipico degli anni Settanta muterà aspetto. Le ricche coltivazioni di piante di pesco, le grandi distese di ortaggi e barbabietola da zucchero dovranno fare i conti rapidamente con l’assenza di impianti di trasformazione del prodotto, mentre la produzione del pomodoro, l’oro rosso, si estende inesorabilmente, forte della presenza di stabilimenti di lavorazione e di un mercato regolamentato dalla Cee e sostenuto dai contributi dell’Aima (Azienda per gli Interventi sul Mercato Agricolo del Ministero dell’Agricoltura), che pagherà fino a 250 lire  ogni chilogrammo di pomodoro raccolto. Il costo del lavoro di un bracciante marocchino, tunisino o sudanese non supera le 40, 50 lire! La posta in gioco è troppo allettante. Il mercato è altamente competitivo, i braccianti del posto sono insufficienti e nessun giovane

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