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Gli attentati e le stragi che hanno sconvolto l’Italia
Gli attentati e le stragi che hanno sconvolto l’Italia
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E-book521 pagine7 ore

Gli attentati e le stragi che hanno sconvolto l’Italia

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Info su questo ebook

Atti terroristici, omicidi politici e agguati di mafia, dall’eccidio di Bronte alla scuola di Brindisi

Prefazione di Massimo Lugli

Fin dal 1860, il nostro Paese è stato insanguinato da attentati compiuti contro le massime autorità dello Stato e da massacri che hanno colpito centinaia di cittadini inermi. Dal re al papa, dai capi di partito agli uomini di governo, fino a magistrati, poliziotti, imprenditori e giornalisti, è lunghissima la lista delle vittime di una violenza che, col passare degli anni, non si è mai placata; al contrario, si è fatta sempre più ardita ed efferata, fino a invadere “zone franche” quali luoghi di culto (l’attentato contro la sinagoga di Roma, nel 1982) e di studio (la bomba contro la scuola di Brindisi nel maggio del 2012).

A cambiare sono, di volta in volta, gli autori. E, da questo punto di vista, la nostra storia – oltre alle stragi compiute in tempo di guerra o quelle del terrorismo internazionale, comuni a tutto l’Occidente – è stata caratterizzata da anomalie criminali tutte italiane, come la mafia, il brigatismo e le cosiddette “stragi di Stato”, con inconfessabili complicità nei gangli più reconditi delle istituzioni.

Il libro ripercorre questi terribili fatti di sangue, che hanno avuto effetti devastanti nell’evoluzione del nostro Paese e sono rimasti indelebili nella nostra memoria collettiva: dagli eccidi commessi in nome della “ragion di Stato” sotto il Regno sabaudo alle rappresaglie naziste, dai blitz messi a segno dai terroristi palestinesi e dai fondamentalisti islamici alla “strategia della tensione”, dagli atti più cruenti delle “guerre di mafia” alle vite umane sacrificate nelle missioni militari internazionali.

Una luce sulle ombre della storiografia ufficiale

Tra i temi trattati nel libro:

Giustizia sommaria – (Bronte, 8 agosto 1860)

Scacco al re – (Milano, 12 aprile 1928)

Mafia di Stato – (Portella della Ginestra, 1° maggio 1947)

La strage infinita – (Milano, 12 dicembre 1969)

Binario morto – (5 agosto 1974)

«Uccidi il papa in nome di Allah» – (Roma, 13 maggio 1981)

Morte di un giudice scomodo – (Capaci, 23 maggio 1992)

Sangue sul processo di pace – (Nassiriya, 12 novembre 2003)

Neppure le scuole – (Brindisi, 19 maggio 2012)

Andrea Accorsi

(Legnano, 1968), giornalista professionista e ricercatore, lavora come capo servizio cronaca in un quotidiano nazionale. Studioso di storia del giornalismo e di criminologia, ha scritto una decina di libri e saggi, tra cui ricordiamo Bande criminali e - insieme a Daniela Ferro - Milano criminale, Il grande libro dei misteri di Milano risolti e irrisolti, 101 personaggi che hanno fatto grande Milano, Le famiglie più malvagie della storia.

Daniela Ferro

(Milano, 1977), giornalista pubblicista e docente, per Newton Compton ha pubblicato Le grandi donne di Milano. Insieme ad Andrea Accorsi ha scritto Milano criminale, Il grande libro dei misteri di Milano risolti e irrisolti, 101 personaggi che hanno fatto grande Milano e Le famiglie più malvagie della storia.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2013
ISBN9788854153172
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    Anteprima del libro

    Gli attentati e le stragi che hanno sconvolto l’Italia - Andrea Accorsi

    Giustizia sommaria

    (Bronte, 8 agosto 1860)

    La storia d’Italia è costellata di fatti di sangue. Anche e soprattutto quella politica. Nel suo secolo e mezzo di esistenza, il nostro Paese ha registrato una serie praticamente ininterrotta di omicidi, attentati, stragi: centinaia e centinaia di atti violenti, compiuti ora in nome di ideologie estremiste, ora della cosiddetta ragione di Stato. La violenza è la costante con la quale si fronteggiano crisi, si aggirano gravi problemi anziché affrontarli, si perseguono progetti agli antipodi della democrazia. A cambiare sono i soggetti e gli obiettivi.

    I primi sono stati, di volta in volta, singoli cittadini animati da spirito estremista o vendicatore, gruppi politici, nuclei terroristici sia nazionali che internazionali, ma anche invasori stranieri, la criminalità organizzata e – soggetto inatteso, ma ricorrente – le stesse autorità statali, o meglio parte di esse, spesso in un intreccio di interessi inconfessabili con altri fra i protagonisti citati. Obiettivi perseguiti da tale moltitudine di soggetti pronti a mettere mano ad armi e bombe: eliminare oppositori ritenuti pericolosi; forzare il corso degli avvenimenti in una certa direzione; o, ancora, terrorizzare l’opinione pubblica, al fine di condizionarne gli orientamenti o di farle accettare soluzioni altrimenti inapplicabili.

    A fare le spese di questa ricorrente «politica della mattanza» sono stati, quasi sempre, cittadini innocenti, strappati alla vita per caso o in nome di presunte connivenze con la parte avversa. Vittime di circostanze imprevedibili, la loro memoria (spesso oscurata) rappresenta uno dei più severi moniti per le generazioni a venire, come le pagine nere delle vicende in cui sono stati, loro malgrado, coinvolti fino a morire.

    A fronte di tanti e gravi fatti, il corso della giustizia è stato segnato da molti più fallimenti, ritardi, incidenti di percorso, deviazioni che da successi. Di molti atti violenti, nessun colpevole è mai stato chiamato a rispondere; di altri, sono ben note le difficoltà e le lungaggini con le quali sono stati perseguiti, condannati e puniti i responsabili. Molte sentenze sono rimaste inapplicate, altre sono da scrivere; altre ancora appaiono talmente colme di lacune, distorsioni, ricostruzioni poco plausibili dal finire con l’alimentare dubbi, sospetti, polemiche talvolta aspre e tuttora aperte.

    Va da sé che difficoltà di ricostruzione, lettura, collegamenti dei fatti investono fatalmente anche il campo cronachistico e storiografico, favorendo silenzi e faziosità.

    Per molti versi esemplari in tal senso sono i fatti accaduti alle pendici dell’Etna nell’estate del 1860, dunque prima che si compisse il processo unitario; ma già allora si possono intravedere diverse, tristi anticipazioni di quello che si rinnoverà continuamente negli anni a venire: il cieco esplodere della violenza in nome di un ideale, da una parte e, dall’altra, l’incedere della macchina legale ben lontano dalla verità e, quindi, dalla giustizia.

    Come ha scritto Sciascia, quella di Bronte e dintorni «è una storia municipale quanto mai interessante: e per i fatti dell’agosto 1860 attinge a caso di coscienza dello Stato italiano, della nazione; dice quel che il Risorgimento non è stato, idea non realizzata; speranza dolorosamente delusa; e ancora ne portiamo pena e remora»¹. Si trattò di una rivolta contadina, devastatrice e sanguinosa, della quale furono chiamati a rispondere non i promotori, né gli autori, ma i classici capri espiatori, sulla base di delazioni per nulla verificate. I malcapitati furono condannati a morte e fucilati come monito per eventuali epigoni di simili turbolenze. Ad aggravare, se possibile, l’evento, intervenne la circostanza che regista del processo-farsa (rapidissimo, esaurito nell’arco di poche ore in una sola giornata) e dell’esecuzione della sentenza fu Nino Bixio, il generale fedelissimo di quel Garibaldi che tante speranze e illusioni di un radicale rinnovamento politico e sociale aveva acceso anche in Sicilia nelle file popolari.

    All’origine di tutto c’è la «fame di terra», «di queste sciare [terre laviche, n.d.a.] aride e nere che con indicibile pazienza e travaglio l’uomo sa mutare in giardini»². I contadini del luogo, in particolare, miravano a impossessarsi della cosiddetta ducea di Bronte, ovvero il feudo che il re borbone Ferdinando aveva donato nel 1799 all’ammiraglio inglese Nelson (il futuro trionfatore di Trafalgar), poi passato di proprietà agli eredi. Questi, residenti in Inghilterra, ne avevano affidato l’amministrazione a una famiglia inglese, i Thovez.

    Non era una terra fortunata, la ducea. Già nel XV secolo l’aveva usurpata il papa, che ne aveva girato i profitti all’Ospedale di Palermo; e per secoli i brontesi avevano lottato per far valere i diritti della comunità locale su quel feudo, ora ricorrendo alle vie legali, ora con tragiche rivolte. Fu qui che «la gloria di Orazio Nelson e di Nino Bixio scende nel sangue e nell’ingiustizia: Nelson ha accettato questa terra come compenso di un tradimento e di un massacro, Bixio si è fatto apostolo del terrore invece che della giustizia»³. La popolazione di Bronte era allora divisa tra i sostenitori dei diritti comuni («comunisti» o «comunali»), capeggiati dall’avvocato Nicolò Lombardo, «vecchio patriota di educazione liberale»⁴, e i «civili» o «ducali», amici di Nelson e difensori delle prerogative nobiliari. Dopo lo sbarco dei Mille, Garibaldi aveva disposto la divisione delle terre fra i contadini; ma tale decreto era rimasto lettera morta. Alle successive elezioni, inoltre, i «comunisti» erano stati inaspettatamente sconfitti. Di qui la rabbia dei contadini, che trovò sfogo in un bagno di sangue a danno del partito avverso e dei possidenti terrieri, come spiegava lo storico Radice:

    Gli interessi opposti di classe, le ambizioni deluse, la sete di vendetta, gli inveterati odii covati nel seno dei contadini [...] resero il conflitto inevitabile, fatale. Il seme della discordia germogliò generando la mala contentezza del popolo. Un’immensa moltitudine percorse minacciosa le vie della città gridando: Abbasso il Municipio! Abbasso i Borbonici! Viva Garibaldi! Viva Lombardo! Vogliamo la divisione [delle terre, n.d.a.]⁵.

    La situazione era destinata a precipitare nel volgere di pochi giorni. Le continue dimostrazioni di piazza sfuggirono di mano, e neppure Lombardo poteva più contenerle. Per più di una settimana, dal 29 luglio al 6 agosto, incendi, saccheggi, violenze di ogni genere percorsero il paese etneo, bloccato e isolato da picchetti dei facinorosi. Fra gli edifici devastati, vi furono il teatro e l’archivio comunale. Altre quarantasei case vennero incendiate, mentre il conto dei morti arrivò a sedici notabili: fra gli altri, il notaio della ducea Nelson, Ignazio Giuseppe Maria Cannata, e il figlio Antonino, il contabile della ducea, Rosario Leotta, il cassiere comunale Francesco Aidala, la guardia municipale Carmelo Luca Curchiurella, l’impiegato del catasto Vincenzo Lo Turco, l’usciere Giuseppe Martinez.

    Dietro questi eccidi vi erano una fame secolare di terre, odi mai sopiti, soprusi mai scordati, un’estrema miseria, ma anche desiderio di libertà e ansie generose risorte di fronte a quella che appariva la splendida e rapida azione di Garibaldi con le sue promesse di dare soddisfazione immediata alle rivendicazioni contadine. Si erano improvvisamente riaccese le speranze dei contadini, quasi tutti poveri braccianti, di riappropriarsi dei demani e anche dell’immenso patrimonio terriero per due volte palesemente usurpato in quattro ininterrotti secoli dall’Ospedale di Palermo (1494) e dall’ammiraglio Nelson (1799). E poteva finalmente avere uno sbocco la gigantesca causa legale intrapresa da ben tre secoli dalla comunità brontese contro gli usurpatori (durava dal 1554 ed ancora non era stata conclusa)⁶.

    Solo il 4 agosto salì da Catania una compagnia della guardia nazionale: ottanta militi in tutto comandati dal questore Gaetano De Angelis, incaricati di ristabilire l’ordine; ma i tumulti proseguirono, allungando il conto delle vittime. Ai soldati non restò che fare un mesto dietrofront. Al loro posto, l’indomani, arrivò a Bronte una intera compagnia, trecento uomini muniti anche di un cannone, al comando del colonnello Giuseppe Poulet. Solo allora – era domenica – la folla, intimorita dal nutrito contingente militare, cominciò a placarsi e cessarono le violenze.

    Da quel momento in poi gli eventi tornarono a precipitare, ma a tutto danno dei contadini e di chi aveva sostenuto i tumulti. Il 6 agosto un bando pubblico ordinava la consegna delle armi alle autorità. Intanto i fratelli Guglielmo e Franco Thovez, gestori della ducea per conto della proprietaria, la duchessa Charlotte Nelson, sollecitarono Garibaldi a riportare l’ordine in paese ad ogni costo. Nella stessa direzione andavano le richieste del console inglese John Goodwin.

    L’eroe dei due mondi era in debito con i sudditi di Sua Maestà d’Inghilterra: alle navi della flotta inglese, ormeggiate nel porto di Marsala, era stato ordinato di non ostacolare in alcun modo lo sbarco dei garibaldini, di fatto lasciando loro via libera nel Regno delle Due Sicilie. Così Garibaldi, allora accampato alla periferia di Messina, preferì accogliere le istanze degli inglesi e inviò a Bronte il fido luogotenente Nino Bixio, di stanza a Giardini, affinché soffocasse la rivolta. Del resto, il nuovo governo che aveva preso il posto delle autorità borboniche aveva già provveduto a rinnovare la donazione regia della ducea ai Nelson, anziché annullarla.

    Bixio arrivò a Bronte con le sue avanguardie già la mattina del 6, quando cioè la sommossa si era ormai esaurita e gli autori delle violenze avevano già lasciato il paese per nascondersi nelle campagne circostanti. Il colonnello Poulet non mancò di informarlo che si era tornati alla calma; ma questi non tenne in alcun conto il messaggio: diede disposizione a Poulet di rientrare a Catania con i suoi uomini, dichiarò lo stato d’assedio e ordinò l’immediato disarmo, che in realtà era già iniziato a opera del colonnello. E ancora, Bixio dispose lo scioglimento immediato dell’amministrazione municipale e della guardia nazionale del posto (che nel corso della rivolta era rimasta in disparte, guardandosi bene dall’intervenire per riportare l’ordine); rimosse tutte le cariche pubbliche assegnate nei giorni della sommossa e restaurò gli amministratori precedenti, che si erano sempre ottusamente opposti ad ogni riforma invocata dal popolo; non contento, impose pesanti sanzioni economiche all’intera popolazione, senza alcuna distinzione, da pagare allo scadere di ogni ora. Ma il peggio, per il paese additato come «colpevole di lesa umanità»⁷, doveva ancora arrivare.

    Per scongiurare altre rivolte simili nei comuni dell’isola, Bixio procedette a una vera e propria rappresaglia, adoperandosi per individuare alcuni (presunti) colpevoli dei disordini per processarli e giustiziarli. In fondo, al generale garibaldino doveva importare poco fare davvero giustizia: quello che gli premeva era far capire a tutti chi comandava dopo la caduta dei Borboni, riportare l’ordine nell’isola e dissuadere chiunque dal ribellarsi al vecchio come al nuovo ordine. Anche a costo di mandare a morte degli innocenti. Meglio ancora, condannare alla cieca avrebbe portato alla conclusione che nessuno poteva essere certo di sottrarsi al castigo.

    Di questa politica del terrore fecero le spese a Bronte in cinque. Oltre a Nicolò Lombardo – che si presentò spontaneamente a Bixio – furono giudicati Nunzio Nunno Spitaleri, Nunzio Samperi, Nunzio Longhitano Longi e Nunzio Ciraldo Fraiunco, il più anziano del gruppo (aveva cinquant’anni) e totalmente infermo di mente: in sostanza, lo scemo del villaggio, come lo definirà Alberto Moravia, «simbolo vivente dell’irrazionalità della moltitudine»⁸. Le accuse erano di guerra civile, devastazione, strage, saccheggi, incendi, omicidio e – per i soli Spitaleri, Longhitano Longi e Lombardo – anche di detenzione di armi vietate.

    Senza peritarsi di sottoporre ad alcuna verifica le deposizioni che veniva raccogliendo, Bixio si fidò ciecamente di quanto gli raccontarono gli esponenti della vecchia amministrazione.

    I nemici politici dell’avvocato Nicolò Lombardo colsero dunque l’occasione di macchinare la rovina del loro onesto e leale avversario, indicandolo a Bixio quale caporione della rivolta: la reazione di Bixio fu inconsulta e immediata. Il sicario di Garibaldi non si preoccupò minimamente di accertare o meno la colpevolezza dell’accusato, ma sotto l’effetto dell’ira più violenta ordinò [...] di arrestare il Lombardo e i principali colpevoli della tragica sommossa⁹.

    Per processare Lombardo e i suoi (presunti) complici, venne convocata su due piedi la «commissione mista eccezionale di guerra». Il processo che ne seguì fu un florilegio di violazioni del diritto e di oltraggi allo spirito umanitario. Oltre a far vedere di che cosa era capace, a Bixio premeva fare in fretta, per ricongiungersi a Garibaldi prima che questi proseguisse la sua impresa passando lo Stretto. Appena due giorni dopo l’arrivo a Bronte, il generale scriveva al Consiglio comunale di Cesarò per annunciare la sentenza del processo, prima ancora che questo fosse cominciato: «La commissione mista di guerra sta istruendo sommariamente i processi, i capi saranno fucilati e i complici condotti a Messina innanzi al Consiglio di Guerra», proprio come sarebbe accaduto¹⁰.

    Lombardo tentò una disperata difesa contro una sentenza già scritta. Si proclamò innocente, bollò come false le accuse a suo carico, spiegò di non aver sobillato la folla ma, al contrario, di aver fatto di tutto per convincerla a rinunciare alla violenza, seppure invano. Probabilmente, prima ancora di non essere creduto, non fu neppure ascoltato.

    La sera del 9, dopo appena quattro ore di giudizio, la causa era già conclusa. Agli imputati (alcuni dei quali analfabeti) era stata concessa soltanto un’ora per informarsi del processo depositato, presentare eccezioni e difese e parlare con i loro legali. Per fare tutto questo, quattro imputati impiegarono non una ma due ore, e tanto bastò al tribunale per rigettare tutto. Iniziato il dibattimento alle 16:00, alle 20:00 era già finito, senza nemmeno dare voce ai testimoni a discolpa. Già scritta, come si è visto, la sentenza: condanna a morte per tutti gli imputati mediante fucilazione.

    Data la sentenza, l’arciprete Politi andò al collegio [il Real Collegio Capizzi, dove alloggiava Bixio e Lombardo era detenuto, n.d.a.] a comunicare al Lombardo la ferale notizia [...]. Ascoltò tranquillo il Lombardo e disse: «I miei nemici hanno alfine trionfato. Dieci anni prima o dopo è lo stesso. Era questo il mio destino». Fu tra i pianti e le strilla di una sua donna celebrato in articulo mortis il matrimonio ecclesiastico; e, avuti gli estremi conforti della religione, stoicamente si preparò al gran passo¹¹.

    La donna di umili condizioni sposata in punto di morte si chiamava Maria Schilirò ed era vedova. Ella avrebbe disposto dei beni di Lombardo, che compì così il suo ultimo atto all’insegna della generosità. Il povero avvocato liberale non poté neppure abbracciare per l’ultima volta i parenti, dal momento che Bixio glielo impedì; né ebbe, come spetterebbe a ogni condannato a morte, il conforto dell’ultimo pasto prima dell’esecuzione.

    All’alba del 10 agosto si compiva l’ultimo atto della tragica farsa. I cinque condannati vennero fucilati nella piazzetta antistante la chiesa di San Vito, al cospetto di tutti gli abitanti del paese. «Stava Bixio con gli occhi fissi, vitrei, a cavallo, come l’angelo della vendetta [...]. I corpi dei giustiziati immersi nel proprio sangue furono lasciati fino a sera esposti al pubblico, spettacolo miserando e ammonitore»¹². Con quei cinque innocenti morivano anche le speranze riposte dai brontesi nel liberatore Garibaldi, nelle cui file pure si erano arruolati numerosi volontari. Fra questi, anche alcuni caporioni delle stragi dell’agosto, che tentarono così di sottrarsi alla galera, ma inutilmente.

    Dopo quel primo processo, infatti, ne fu celebrato un altro davanti alla Corte d’Assise di Catania tra il 1862 e il 1863, a carico di ben 145 imputati per reati minori. A interrompere questa causa non intervenne neppure l’indulto emanato da Garibaldi alla fine di ottobre, dopo la vittoria sul Volturno. Il Consiglio civico brontese, infatti, dispose che i benefici dell’indulto non fossero estesi a nessuno dei tanti imputati di quell’autentico maxiprocesso ante litteram, che si concluse con trentasette condanne, fra le quali venticinque ergastoli.

    A Bronte, nel frattempo, tutto era già tornato da un pezzo com’era sempre stato. «In paese», così scrive il Verga nella sua novella rusticana Libertà, «erano tornati a fare quello che facevano prima; già i galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Così fu fatta la pace». Quanto alle terre tanto contese della ducea, scorporate – come si dice con termine legale – dall’antica usurpazione, caddero nel totale abbandono; solo qualche centinaio di ettari rimasero agli eredi di Nelson.

    ¹ L. Sciascia, I paesi dell’Etna, in Id., Opere 1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano 1989, p. 1255.

    ² Ibidem.

    ³ Ivi, p. 1256.

    ⁴ www.bronteinsieme.it.

    ⁵ B. Radice, Memorie storiche di Bronte, Bronte Insieme, Bronte 2009, pp. 30-31.

    ⁶ www.bronteinsieme.it.

    ⁷ Dall’Avviso firmato «Maggiore generale G. N. Bixio», Bronte, 6 agosto 1860.

    ⁸ A. Moravia, recensione del film Bronte, in Id., Al cinema, Bompiani, Milano 1975.

    ⁹ F. Mainenti, L’eccidio di Bronte del 1860, «Agorà», aprile-dicembre 2003.

    ¹⁰ www.bronteinsieme.it.

    ¹¹ B. Radice, op. cit., p. 60.

    ¹² Ivi, pp. 61, 65.

    I martiri della capitale

    (Torino, 21-22 settembre 1864)

    È una delle pagine appena accennate dai libri di storia, e solo da alcuni. Ma è pure fra quelle che più incuriosiscono studenti e studiosi. Per la gravità dell’evento, innanzitutto. Perché a disseminare di morti e feriti una piazza zeppa di cittadini comuni non furono anarchici rivoluzionari o terroristi ante litteram, ma le forze di polizia. E per la singolarità del motivo a monte di tutto: la scelta di una nuova capitale per un nuovo Stato.

    La giovane Italia – era nata da appena tre anni e mezzo – si apprestava a scendere al primo di una lunga serie di compromessi sul piano internazionale. Il quadro della situazione era quanto mai preoccupante, sia all’interno del Paese che al di là dei suoi confini. Nel 1864 l’Italia si presentava fragile, divisa, alle prese con una guerra civile al Sud (liquidata come lotta al brigantaggio), minacciata da vicini potenti e pericolosi, disperatamente desiderosa di accreditarsi come potenza emergente, con l’unificazione nazionale ancora da completare. Il 15 settembre di quell’anno il governo Minghetti firmò un trattato con il suo più importante alleato, la Francia di Napoleone III, che aveva giocato un ruolo decisivo nella recente guerra d’indipendenza condotta dal Regno di Savoia contro l’Austria. In base a quel trattato (Convenzione di Settembre), l’imperatore d’Oltralpe si impegnava a ritirare entro due anni le sue truppe da Roma, che era ancora la capitale dello Stato Pontificio; da parte sua, l’Italia rinunciava a invadere quest’ultimo e – almeno in via ufficiale – a nutrire mire su Roma. Per rafforzare questo orientamento, si impegnava a trasferire la capitale del regno da Torino a Firenze.

    Il passaggio non sarebbe stato indolore. Torino era stata la «cabina di regia» del processo di annessione al Piemonte della Lombardia e dei ducati nel Nord della Penisola; sempre nel capoluogo subalpino si era riunito, per la prima volta, il parlamento del neonato Regno d’Italia. La città aveva vissuto con entusiasmo la trasformazione, da sede di una delle corti meno influenti d’Europa, a capitale di uno Stato che nutriva l’ambizione di divenire nazionale, moderno e potente. Il nuovo ruolo toccato a Torino era stato motivo propulsore di un vasto piano di lavori pubblici a opera del Comune: quei lavori avrebbero dovuto dotare la città di servizi e infrastrutture all’altezza del compito che le era stato assegnato.

    Vedersi sottrarre il ruolo di capitale avrebbe significato un’enorme perdita di prestigio per una città che capitale lo era da secoli. Ma avrebbe anche vanificato molte delle opere pubbliche avviate e – quel che più contava agli occhi della gente comune – avrebbe portato a rinunciare per sempre alle ricche provvidenze che quel ruolo comportava, a partire da una grande quantità di uffici e posti di lavoro. Per questi motivi, la clausola sul trasferimento della capitale nazionale a Firenze venne tenuta inizialmente segreta.

    Quando la clausola verrà resa nota al pubblico, tre giorni dopo la firma dell’accordo con la Francia, la protesta esploderà furiosa e incontrollata. A divulgare la parte secretata dell’accordo era stata la «Gazzetta del Popolo», uno dei quotidiani più diffusi e accreditati del regno. Subito una folla di cittadini inferociti con il governo sfilò in corteo per le vie del centro, fino a raggiungere la tipografia del giornale in piazza San Carlo. Le forze dell’ordine persero presto il controllo delle manifestazioni di protesta. E le autorità reagirono nell’unico modo di cui si sarebbero dimostrate capaci: con una spietata repressione.

    Teatro della violenza messa in campo dal regime diventerà prima, il 21 settembre, piazza Castello, e il giorno dopo piazza San Carlo. È in queste piazze, cuore nevralgico di Torino, che in due tempi avverrà quella che – insieme ai massacri compiuti dall’Esercito nelle regioni meridionali – può essere ascritta come la prima strage di Stato nella storia d’Italia¹.

    Il racconto dei tragici fatti di quei giorni è tratto dalle pagine dello stesso giornale che, in nome della trasparenza e della libertà di informazione, aveva dato fuoco alle polveri. Il 21 settembre, si legge sulla «Gazzetta del Popolo»,

    un drappello di R. Carabinieri, uscito all’improvviso dal Ministero degli Interni, faceva fuoco (senza alcuna intimazione) contro la popolazione che passava in piazza Castello. Ci riferiscono in questo momento essere undici i morti, parte ricoverati nella birreria Calosso, parte abbandonati sulla piazza².

    Ma le fucilate esplose all’improvviso dai regi carabinieri in piazza Castello sono solo l’avvisaglia di quanto succederà l’indomani: una carneficina. Di essa faranno le spese, oltre a molti dei manifestanti, gli stessi soldati schierati a reprimere la protesta: non per colpi esplosi dai cittadini scesi in piazza, bensì per un micidiale fuoco incrociato che verrà a crearsi nel salotto cittadino torinese per eccellenza. Un macroscopico errore tattico, ben ricostruito dai cronisti dell’epoca:

    Truppe di linea stanziavano d’ambo i lati sotto i portici di Piazza S. Carlo. Verso le nove entrano nella piazza a migliaia i dimostranti. Alcuni, cioè i provocatori, tirano contro gli allievi carabinieri sassate e due colpi d’arma da fuoco. Gli allievi carabinieri escono dalla Questura e si dispongono sulla piazza facendo fuoco senza intimazione, tenendovisi autorizzati dai colpi avuti. Sopra una folla compatta ogni colpo fa una vittima, ma l’orrore si accresce per un caso inaspettato. Mentre le palle tirate più in basso colpiscono cittadini, altre o più alte o passando nei vani vanno a ferire di qua e di là i soldati che, credendosi aggrediti anch’essi, per un terribile equivoco prendono l’armi e sparano alla loro volta sopra la moltitudine presa da tre parti. Ma essendo essi schierati a fronte si feriscono anche tra loro³.

    I proiettili esplosi dai portici contrapposti, cui si andranno ad aggiungere quelli sparati dagli allievi carabinieri sul lato della Questura, tessono una micidiale trama di piombo, sotto la quale cadranno a decine.

    La folla inerme fugge ma 27 cadaveri (oltre a quelli dei soldati) lasciano lunga e sanguinosa traccia. La piazza ha l’aspetto di un macello di carne umana. I cadaveri dopo essere stati lasciati qua e là alcun tempo, vengono ammucchiati contro il monumento [il "Caval dë Brons" tuttora al centro della piazza, n.d.a.], parte altrove. Lo stesso dei feriti. Alcuni devono aspettare i soccorsi per impossibilità di muoversi. Altri si trascinano carponi e si ricoverano dopo mille stenti in qualche vicina farmacia⁴.

    Neppure le operazioni di soccorso si svolsero come avrebbero dovuto, ostacolate dal caos, dalla mancanza di mezzi adeguati e di precise direttive. A complicare ancor più le cose, gli immancabili intoppi procedurali. E a pagarne il prezzo furono molti dei feriti.

    Un impiegato della Questura presentossi all’ospedale di S. Giovanni con sei carabinieri revolver alla mano, ordinando a quei sanitari che andassero a raccogliere i feriti. I sanitari si mostrarono pronti, chiedendo solo di non venir fatti anch’essi bersaglio a fucilate nell’adempiere al pio ufficio, come ad altri dicevasi avvenuto. Ma dar loro una tale assicurazione era impossibile, tanta era la confusione nelle disposizioni che si prendevano, e del resto l’ospedale non ha che una barella, ed era necessaria l’autorità diretta della Questura per poter requisire le cittadine [le piccole carrozze allora in uso per i brevi spostamenti urbani, n.d.a.]. In conclusione, salvo alcuni pochi, i feriti non poterono essere condotti a salvamento e curati che circa un’ora o un’ora e mezzo dopo la sanguinosa tragedia⁵.

    Il conto finale, secondo le fonti ufficiali, sarà di cinquantadue morti, di cui ventisette civili, e centottantasette feriti. Ma chi erano i «provocatori» citati dalla «Gazzetta»? E al servizio di quale fazione politica erano entrati in azione?

    Già nei giorni che seguirono al massacro, i giornali d’opposizione e deputati di diverso orientamento rivelarono le trame politiche, nonché l’utilizzo di agenti provocatori, che alcuni esponenti del ministero retto da Marco Minghetti, tra i quali Ubaldino Peruzzi e Silvio Spaventa, avevano messo in opera per creare ad arte i disordini⁶.

    Una regia occulta, dunque, aveva manovrato per secondi fini l’ira popolare. Il tutto sulla pelle dei manifestanti. Ma a patirne le conseguenze sarebbe stato anche il governo.

    Infatti, pochi giorni dopo il massacro, il 28 settembre, Minghetti dovette cedere il posto a La Marmora. La scellerata gestione dell’affaire stipulato con Parigi era costata una crisi di governo. In ogni caso, il conto più salato era stato pagato da decine di cittadini, caduti morti o feriti sotto il fuoco di soldati e carabinieri. Ma non bastava: un altro destino, triste e sconcertante, attendeva decine di manifestanti che erano stati tratti in arresto dopo i disordini.

    In via ufficiale, i cittadini arrestati furono tutti amnistiati dal re, Vittorio Emanuele II. Ma come ha recentemente scoperto un ricercatore romano, Marco Fano, molti di loro, dopo essere rimasti nelle carceri di Torino e di Genova, finirono nientemeno che deportati in Sudamerica e arruolati con la forza nelle file dell’Esercito argentino. E non andarono incontro a una semplice, per quanto forzata, leva militare: dovettero pure prendere le armi e combattere, schierati nel 1866 contro il Paraguay nella guerra mossa (e perduta) da quest’ultimo contro la coalizione formata da Argentina, Brasile e Uruguay. Di loro – 138 in tutto – non rimase più traccia: è probabile che fossero tutti morti nei terribili combattimenti che dimezzarono la popolazione paraguaiana, riducendone i maschi a un decimo del totale.

    A dimostrarlo è una lettera che il console italiano a Montevideo inviò a Firenze (nuova capitale italiana) dopo aver raccolto le dichiarazioni del comandante del brigantino genovese, l’Emilia, che aveva trasportato oltreoceano i malcapitati prigionieri. Finita in un armadio del ministero degli Esteri, la lettera è tornata alla luce per caso solo agli inizi del 2000.

    Del resto, era destino che sui tragici eventi torinesi del settembre 1864, con tutto quello che comportarono, calasse una cortina di silenzio, come spesso sarebbe accaduto per molti tragici fatti della storia unitaria nazionale. Basti dire che sono occorsi ben centotrentacinque anni prima che venisse posta una lapide commemorativa a ricordo dei caduti: è successo nel 1999, a opera del Comune di Torino, in piazza San Carlo. Mentre non risulta aver avuto ancora seguito la proposta di legge avanzata nel 2010 dal deputato torinese Davide Cavallotto per istituire una giornata in memoria delle vittime.

    ¹ Cfr. R. Gremmo, La prima strage di Stato, Storia Ribelle, Biella 1999.

    ² «Gazzetta del Popolo», 22 settembre 1864.

    ³ Ivi, 23 settembre 1864.

    Ibidem.

    ⁵ Ivi, 24 settembre 1864.

    ⁶ M. Novelli, Quando in piazza San Carlo ci fu la prima strage di Stato, «la Repubblica», 29 febbraio 2012.

    Cannonate sulla folla

    (Milano, 6-9 maggio 1898)

    Dicono che i milanesi siano gente paziente e concreta. Ed è vero. Dicono anche che, perché scendano in piazza, debbano avere motivi precisi e la misura debba essere davvero colma. Fu così anche sullo scorcio del XIX secolo, quando una protesta popolare dettata dalla causa remota di ogni moto e rivoluzione, la fame, sfociò in gravissimi disordini, repressi nel sangue nientemeno che dall’Esercito, schierato in vie e piazze della città come sul campo di battaglia, con cannoni e altre armi da guerra. Supremo regista di quella ingloriosa pagina della nostra storia militare (e non solo di quella) fu Umberto I, il secondo re d’Italia. Lo stesso che, per non contravvenire alla volontà paterna, esordì sul trono nazionale abbinando al titolo più noto quello di Umberto IV riferito al trono sabaudo, così da rimarcare la separazione tra la monarchia sabauda e quella d’Italia: evidentemente i Savoia consideravano quest’ultima alla stregua di una loro colonia, o di una conquista. Lo stesso Umberto I – al secolo Umberto Rainerio Carlo Emanuele Giovanni Maria Ferdinando Eugenio di Savoia – che si guardò bene dal farsi una cultura, al punto di vantarsi di non aver mai letto un libro in vita sua.

    Difficile aspettarsi qualcosa di buono da un simile personaggio, che non mancò di far leva sui peggiori istinti della sua famiglia, «dinastia pervasa da sentimenti totalitaristici e chiaramente antidemocratica»¹. Ma l’altero sovrano avrebbe pagato a caro prezzo l’ordine impartito ai suoi generali: prendere a cannonate la folla che a Milano reclamava nulla di più che poter mangiare.

    Correva il maggio 1898 e in molte città italiane imperversava la protesta dello stomaco. Subito dopo l’Unità, la neonata autorità statale si era fatta odiare dai ceti più poveri – che rappresentavano la grande maggioranza del Paese – per l’imposizione del servizio di leva e dell’istruzione obbligatoria, che sottraevano al lavoro dei campi buona parte delle braccia a disposizione delle famiglie contadine. Per non parlare del carico fiscale, nell’ambito del quale spiccava l’introduzione dell’odiata tassa sul macinato, che andava a gravare ancora una volta sui cittadini meno abbienti.

    Sul finire del secolo, un rincaro dei beni di prima necessità dovuto all’aumento del costo del grano compromise ulteriormente i già esigui bilanci familiari delle masse urbane. In pochi giorni, il prezzo del pane passò da 35 a 60 centesimi di lire al chilogrammo. Agitazioni e rivolte attraversarono numerose regioni e città, compresa Milano, piazza solitamente tranquilla, dove pure si verificarono gravi proteste, destinate a sfociare presto in una vera e propria sommossa.

    Per trarsi d’impaccio, il governo non trovò di meglio che proclamare lo stato d’assedio, ritenendo che la spontanea protesta popolare per il prezzo quasi raddoppiato del pane potesse minacciare l’ordine pubblico al punto di sovvertirlo.

    Disgraziatamente, a gestire la delicata situazione venutasi a creare a Milano venne nominato come commissario straordinario – ovviamente regio, come qualunque altra autorità in epoca monarchica – un vecchio gerarca dell’Esercito, il generale Fiorenzo Bava Beccaris; il quale, non essendo né un politico né un filantropo, per rimettere a posto le cose scelse quella che gli parve l’unica soluzione possibile e l’unica a lui congeniale: quella militare.

    Incurante del bagno di sangue che l’intervento dell’artiglieria avrebbe provocato nelle strade della città, Bava Beccaris emanò l’ordine di prendere a cannonate le barricate che erano ricomparse cinquant’anni dopo le Cinque Giornate e dietro le quali si celava alla mira dei soldati la folla tumultuante, costituita anche da anziani, donne e bambini: cittadini comuni, insomma, che si trovarono sotto il fuoco di un esercito regolare schierato in formazione d’attacco. Durante la battaglia, protrattasi per quattro giorni da venerdì 6 a lunedì 9 maggio, non venne risparmiato neppure un convento di frati cappuccini, in via Monforte, nel quale avevano cercato rifugio alcuni disperati.

    La città si trasforma in un campo di battaglia: 38 battaglioni di fanteria, 13 squadroni di cavalleria e 9 batterie da campagna: ventimila soldati con armamento da guerra, contro 40 mila barricadieri quasi senz’armi. Si alzano le prime barricate in corso Venezia, a Porta Volta, in largo La Foppa, alle Colonne di San Lorenzo. Nei quartieri operai, la truppa usa il cannone. La sera dell’8, cade l’ultima barricata: quella, più volte ricostruita, di largo La Foppa. Il 9 sera, Bava Beccaris telegrafa a Umberto I che Milano è stata «pacificata»².

    Quella carneficina rimane una delle pagine più tristi della storia nazionale. Gli scontri raggiunsero il culmine domenica 8 maggio, quando il generale Bava Beccaris ordinò all’artiglieria di prendere a cannonate le barricate popolari innalzate a Porta Ticinese, e poi a Porta Garibaldi, dove c’erano tantissimi uomini, ma anche donne e bambini.

    Così descrive il primo scontro a fuoco un cronista dell’epoca, Paolo Valera:

    Dal Trotter [il parco nel quartiere di Turro che un tempo ospitava l’ippodromo del trotto, n.d.a.], dove era stata chiusa, a mezzogiorno, la truppa, usciva un plotone del cinquantasettesimo fanteria, attraversava il piazzale Andrea Doria e procedeva verso Napo Torriani coi fucili a crociat-et [in posizione di tiro, n.d.a.]. Il grosso dei dimostranti era lungo il marciapiedi dalla parte opposta alla caserma dei questurini. I curiosi si erano assiepati a dieci metri di distanza dalla truppa che aveva fatto alt, e qua e là si movevano gli individui che lanciavano sassi allo stemma questurinesco. Pare che qualche sassata abbia raggiunto anche qualche soldato. Fu come il segnale. Si udì lo squillo di tromba. Si vide il fuggi fuggi, e si sentì il ran ran [il rumore delle fucilate, n.d.a.] che spaventava, che infuriava, che sollevava grida disperate da tutte le parti e lanciava in aria una nube bianca in un silenzio sepolcrale. Fu allora che anch’io gridai [...]: «Assassini! assassini! Far seguire allo squillo le fucilate, senza il tempo di vuotare la via a gambe levate, è un delitto senza nome»³.

    Solo i regimi più retrivi e violenti hanno scelto la forza per sedare le proteste scatenate da un impulso insopprimibile e pienamente comprensibile come la fame, che seminava morte e malattie nel nascente proletariato urbano milanese.

    Le cannonate del regio commissario straordinario fecero una carneficina; fra le vittime, i registri della città di Milano annoverarono ragazzini e bambini di pochi anni. Come annotava ancora Valera:

    Oh, povera gente! Sono morti, proprio morti, senza speranza di resurrezione. Quanti sono? Ne vedo un mucchio che mi pare un piazzale. Saranno diciotto o venti e la mia fantasia eccitata dal sangue se ne figura un cimitero. Tranne uno o due dei quali non vedo che le scarpe e le braccia, mi sembrano tutti pitocchi, tutti spiantati, tutti poveri. Sono denutriti, sono ditte di miseria, sono problemi sociali stramazzati al suolo come sacchi di cenci⁴.

    Dall’altra parte delle barricate, la brillante operazione militare registrò due sole vittime fra i soldati dell’Esercito regio: uno (pare) si era sparato accidentalmente, l’altro – l’unico di cui si abbia notizia – si rifiutò di eseguire l’ordine di fare fuoco sulla folla di popolani, e come da prassi venne immediatamente passato per le armi per insubordinazione.

    Per le vie della città, martoriata e stretta d’assedio dalle truppe, prese a girare la canzonetta di un anonimo, il cui titolo, Il feroce monarchico Bava, era già tutto un programma. Cominciava così:

    Alle grida strazianti e dolenti

    di una folla che pan domandava,

    il feroce monarchico Bava

    gli affamati col piombo sfamò.

    Agli occhi dell’opinione pubblica era evidente l’imprimatur della monarchia alla strage, costata un numero imprecisato di morti e feriti che le fonti, pur indicando cifre diverse, concordano nello stimare nell’ordine di alcune centinaia. A mettere la firma sul massacro contribuì Umberto I in persona, che poche settimane dopo conferì a Bava Beccaris un’alta onorificenza (la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia), elogiando «la virtù di disciplina, abnegazione e valore» delle sue truppe e «il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà»⁵.

    Non basta: il generale fu nominato, sempre dal sovrano, senatore del regno. Sparare sulla folla affamata che protestava a causa del carovita, insomma, per i Savoia era un merito che andava premiato in ogni modo e additato ad esempio. Mal gliene incolse.

    La «sabauda marmaglia» (così definita in un altro verso della canzone citata) pagò infatti il sangue versato a Milano con il proprio. Perché fu precisamente dalla riprovazione e dall’orrore suscitato dal cannoneggiamento della folla e dal successivo premio conferito a chi lo ordinò che mosse l’intento omicida di Gaetano Bresci, l’anarchico toscano il cui spirito di vendetta era tanto feroce quanto lo era stata la repressione del moto popolare in terra lombarda. E fu così che, pur nella loro breve parentesi storica alla guida della nazione italiana (durata appena ottantacinque anni: un battere di ciglia, al confronto delle grandi dinastie regnanti d’Europa e del mondo), i Savoia ebbero il tempo di registrare un regicidio. Il primo e l’ultimo.

    L’altra giustizia, quella ufficiale, aveva già fatto il suo corso. I responsabili dei moti milanesi sopravvissuti finirono alla sbarra in dodici processi diversi: degli 803 imputati, 668 vennero condannati per un totale di quasi 1500 anni di carcere. Ma la repressione delle autorità portò in galera anche molti scomodi oppositori politici, fra i quali Filippo Turati, giornalisti, intellettuali, sindacalisti, capifila delle leghe e delle società operaie, preti progressisti. La fame del popolo e le proteste generate avevano offerto un ottimo pretesto per accontentare i ceti conservatori, che invocavano uno stretto giro di vite sull’ordine pubblico. E Umberto I non aveva esitato un attimo ad accontentarli. Ciononostante il successore di quello che pure era stato chiamato il re buono, per i soccorsi da lui prestati durante un’epidemia di colera a Napoli, lo avrebbe fatto ampiamente rimpiangere.

    ¹ R. Ciambetti, Nato il 17 Marzo, s. e., Sandrigo 2011, p. 15.

    ² G. Vergani, Le cannonate di Bava Beccaris contro Milano, «Corriere della Sera», 1° novembre 2004.

    ³ P. Valera, I cannoni di Bava Beccaris, Giordano, Milano 1966, p. 5.

    ⁴ Ivi, p. 16.

    ⁵ www.quirinale.it.

    Lo «squallido fato» del re

    (Monza, 29 luglio 1900)

    Atto di giustizia proletaria, o il più grave attacco della storia italiana alle istituzioni, colpite a morte nel loro massimo rappresentante? Comunque lo si voglia leggere, l’agguato che costò la vita a Umberto I impressionò come mai prima di allora l’opinione pubblica della giovane Italia. Un grido anelante giustizia si levò subito dopo l’attentato. Ma si trattava del cieco desiderio della folla di vendicarsi del vile che aveva osato l’inosabile: Gaetano Bresci sfuggì per un soffio al linciaggio. Decisivo fu l’intervento di due marescialli dei carabinieri, Andrea Braggio e Giuseppe Salvatori, che lo sottrassero a stento alle decine di mani che volevano farlo a pezzi. Un’altra giustizia attendeva l’«anarchico venuto dall’America», come l’avrebbe ribattezzato l’immaginario collettivo. La giustizia dei regi tribunali, innanzitutto. Ma anche quella non scritta, la giustizia che qualcuno chiama «del carcere» e che forse si era messa in moto su ordini calati da molto, molto in alto.

    Fatto sta che, condannato all’ergastolo dopo un processo-lampo, il Bresci non trascorse neppure un anno dietro le sbarre: fu rinvenuto privo di vita nella sua cella, con un lenzuolo stretto al collo con un nodo scorsoio. Suicidio? Omicidio? Si apriva così la lunga lista dei misteri italiani rimasti senza soluzione. E il Paese, come sarebbe poi divenuta abitudine, si divideva tra chi (la maggioranza) l’avrebbe considerato come il più abbietto e pericoloso dei criminali, e chi invece vedeva in lui un eroe, degno di ricevere l’intitolazione di piazze e l’erezione di monumenti in suo onore.

    In quali circostanze era maturato il piano, all’apparenza insensato, di attentare nientemeno che al re d’Italia? Davvero Bresci aveva

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