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Il Revanscista Gentleman / Il Signor Nessuno: La storia di Salvatore Carmine. Il signor Nessuno
Il Revanscista Gentleman / Il Signor Nessuno: La storia di Salvatore Carmine. Il signor Nessuno
Il Revanscista Gentleman / Il Signor Nessuno: La storia di Salvatore Carmine. Il signor Nessuno
E-book351 pagine4 ore

Il Revanscista Gentleman / Il Signor Nessuno: La storia di Salvatore Carmine. Il signor Nessuno

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Info su questo ebook

Nel cuore pulsante dell'Italia, un uomo comune si erge a simbolo di una ribellione secolare. Salvatore Carmine, personificazione del cittadino medio, affronta la realtà di un paese diviso. Con poco carisma ma tanto garbo, Salvatore si trasforma da individuo qualsiasi a rivoluzionario moderno, lottando contro le ingiustizie storiche e la mistificazione dell'Unità d'Italia. Nella sua doppia identità - il brigante revanscista che lotta per la giustizia del Sud e il signor Nessuno, voce della maggioranza silenziosa - si svela un eroe moderno che sfida le ingiustizie storiche e sociali.

Questa è la storia di un Sud Italia dimenticato, un viaggio attraverso ribellione e riscatto, dove ogni pagina sfida l'oppressione e cerca la verità. Ambientato in un contesto storico complesso, il romanzo è un'esplorazione audace e provocatoria del potere e della resilienza umana.
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2024
ISBN9791222711829
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    Anteprima del libro

    Il Revanscista Gentleman / Il Signor Nessuno - salvatore caforio

    PRIMA PARTE

    Romanzo

    Il revanscista gentleman

    Salvatore Carmine

    CAPITOLO 1

    Salento, anni 1950.

    Adolescenza ed esperienze giovanili.

    Salvatore Carmine era un ragazzetto esile, brunetto, veloce di gambe, timido, sensibile e taciturno, molto intelligente a parer del medico di famiglia. La madre analfabeta lo chiamò Salvatore scegliendo tra i nomi religiosi delle tante preghiere che recitava tutte le sere intorno al braciere nelle serate fredde invernali, o fuori casa, quando s’intratteneva con le altre comari del vicolo nelle serate estive.

    Il destino aveva in serbo per Salvatore esperienze uniche e molteplici avventure nel corso della sua vita intensa: la realizzazione delle sue aspirazioni profonde, fortuna in amore, grande forza d’animo per contestare le storture ipocrite, grande iniziativa e determinazione.

    Gioì dei suoi successi, non smise mai di farsi domande e di cercare le risposte. Non sempre raggiunse tutti i suoi obiettivi; quando fallì, riprovò, cercò sempre la rivincita, un revanscista, restando comunque il sig. Nessuno, un uomo qualunque.

    Quel capocchione del padre di Salvatore zappava alacremente tutto il giorno, ma gli avanzava ancora energia sufficiente per fare figli, e ne fece a iosa, nonostante non li potesse mantenere.

    A quei tempi, tra i vicini nel vicolo, fare figli era una competizione, con il bene placido ipocrita di Stato e religione dominante.

    Con il passare degli anni, lo zappatore semianalfabeta dovette affrontare la dura realtà: non riusciva a sfamare la famiglia numerosa.

    Un cugino invadente, leggermente più scaltro ma disgraziatamente altrettanto mediocre, gli consigliò la soluzione poco geniale di emigrare per cercare lavoro e condizioni migliori di vita.

    In quegli anni, appena dopo la Seconda Guerra Mondiale, il triangolo industriale Torino-Milano-Genova era la zona d’Italia in forte sviluppo e serviva mano d’opera a discapito del Sud.

    Fu per questo che la famiglia Carmine emigrò dal Salento nell’Alto Milanese.

    Allora, Salvatore frequentava la prima elementare; avrebbe voluto opporsi, ma non poteva e la partenza fu molto dolorosa per il ragazzino perché lo sradicò dalla sua terra, pur se il bambino non dimenticò mai le sue corse a piedi nudi con i compagni sull’asfalto rovente, il profumo della rucola o del verderame, le arrampicate sul fico gigantesco e le scorpacciate, le razzie di fichi d’India, il triciclo del gelataio e i coni gelato da 5 Lire, la cintura del padre-padrone sulle natiche.

    Il trapianto nella nuova realtà fu difficile e sofferto per il ragazzetto: nuovi compagni alle elementari, diverso contesto sociale, la gente del cortile in Lombardia parlava un dialetto incomprensibile. Egli subì le forti differenze come umiliazioni, era il terrunciello in terra straniera.

    Un anno dopo il trasferimento, Salvatore perse la madre, già da tempo gravemente malata e rimase orfano insieme ad altri cinque tra fratelli e sorelle. Data la minore età, fu preso in cura dai servizi sociali e finì in un orfanotrofio civico maschile fino ai suoi diciotto anni.

    Nell’orfanotrofio gestito da religiosi, ricevette una educazione molto simile a quella impartita nei seminari: numerose preghiere da recitare nell’arco di tutti i santi giorni. Poco galateo civico e tanto religioso al punto da instupidire il ragazzo. Capitava che i compagni più scaltri gli chiedevano furbamente il fazzoletto, e lui, fessacchiotto, lo prestava pulito e piegato; dopo la pulizia completa di naso e bocca, il furbetto nel restituirlo scherniva pure il generoso ragazzetto: To’, così il mio fazzoletto rimane candido e pulito.

    All’età di diciotto anni, il futuro brigante moderno era un bel ragazzone alto un metro e ottanta, grazie all’alimentazione calorica regolare che i suoi fratelli più grandi non ebbero la fortuna di avere durante l’età dello sviluppo, oltre ai molti sport che praticava.

    Quando Salvatore frequentava l’ultimo anno delle scuole tecniche superiori, conobbe un generale in pensione d’origine toscana che bazzicava nella latteria vicino casa. Costui fu determinante nella formazione culturale del giovane, ma aveva una tendenza particolare: al vecchio militare, che aveva svolto mansioni di ufficiale sanitario, piaceva palpare e giocherellare con le parti intime.

    Al generale piaceva anche istruire il suo novizio riguardo molte materie scolastiche e no, fra le quali la storia bandita dell’Unita d’Italia, dopo aver saputo che il suo allievo proveniva da una famiglia d’origine pugliese.

    Nei loro incontri settimanali, il generale chiedeva cosa studiasse Salvatore in quel periodo, e gli dava ripetizioni gratis nelle varie materie scolastiche. Oltre a impartire ripetizioni di matematica, fisica, tecnologia e diritto, l’anziano amava molto la Storia, fu così che portò a conoscenza del suo allievo la combutta Savoia-Massonica e l’invasione-trappola da Sud e da Nord del Regno delle Due Sicilie, le predazioni, i sistematici massacri di rappresaglia, la forzata annessione armata e con la truffa ad opera dei Piemontesi dei territorio dell’attuale Italia, i falsi plebisciti, la famigerata legge Pica, la pilotata emigrazione che produsse doppio tornaconto per il nuovo Stato, l’invasione dello stato Pontificio, il colonialismo selvaggio dell’epoca, la disfatta di Caporetto e tanto altro spesso omesso dai libri scolastici o diluito ad arte.

    Le lezioni di doposcuola durarono parecchi mesi e aiutarono il ragazzo a passare gli esami di maturità con un’ottima media.

    Benché la vera storia dell’Unità d’Italia insegnata dal generale fosse in contraddizione con quanto veniva insegnato a scuola, questo allora non provocò forti contrasti all’allievo. Il giovane aveva altre e più urgenti scadenze che ingombravano la sua mente in quel periodo della sua vita.

    Il militare pensionato mise in guardia lo studente su cosa dire e cosa non dire durante gli esami, le sue extra conoscenze, specialmente storiche, avrebbero potuto causargli seri problemi.

    Salvatore perse di vista l’anziano quando s’iscrisse all’Università; di lui gli rimase comunque una grandissima stima per le cose che gli aveva insegnato, ed al contempo una dubbia compassione per la sua deviazione sessuale, anche se dubitava che lo fosse. Gli piaceva masturbare entrambi; solo che il giovane imparò a godere durante quei massaggi, mentre il vecchio faceva una gran fatica avendo superato da poco ottanta anni.

    Questa esperienza eliminò la timidezza paralizzante del giovane Salvatore, che iniziò a guardare le donne con maggiore interesse. Le pratiche intime con il generale erano comunque meno dannose emotivamente del trattamento al quale lo sottoponeva Don Michele, il vicedirettore nell’orfanotrofio, all’età di dieci-undici anni, quando abusava di lui.

    Tempi duri durante i quali era impossibile ribellarsi, data la totale soggezione al potere interno dei preti dell’orfanotrofio ed al rapporto bambino-prete, in totale assenza di suo padre.

    Il futuro revanscista interruppe gli studi al primo anno dell’Università perché la famiglia era numerosa e non poteva sopportarne i costi.

    L’anno dopo Salvatore decise di emigrare all’estero per evadere da una situazione familiare pesante a causa di una matrigna e di un padre che non riusciva più a compatire.

    In nord Europa lavorò per mantenersi e studiò le maggiori lingue europee che lo avevano affascinato sin da bambino.

    CAPITOLO 1/1

    Nel decennio 1960-70, terminato il servizio militare obbligatorio di complemento, tributo dovuto allo Stato italiano, dopo brevi e saltuarie esperienze lavorative in uffici tecnici meccanici, finalmente Salvatore Carmine trovò un’occupazione dignitosa nell’ufficio vendite estere di un’azienda, leader nell’alto milanese nella costruzione di grossi macchinari per la lavorazione dei metalli. Quella fu per il trentenne di origini salentine un’esperienza che senza dubbio lo arricchì professionalmente e umanamente, ma che al contempo gli causò parecchio dolore.

    L’iniqua distribuzione delle risorse a livello nazionale e la fragilità del settore industriale meridionale lo avevano costretto ad emigrare da una estremità all’altra dell’Italia dopo un breve ritorno in Salento.

    MI D’UN TERÙN A CHAPU MINGA URDIN.

    IO DA UN TERRONE NON PRENDO ORDINI.

    La suddetta frase è emblematica del grado di razzismo, becerume e mediocrità di certi lumbard.

    Colui che pronunciò queste parole si chiamava Giulin e non era affatto uno sprovveduto, ma un operaio specializzato sulla cinquantina e passa, addetto ad una macchina utensile gigante che serviva ad eseguire lavorazioni difficili e costose.

    Tali mansioni esigono un operatore competente e ben preparato, un tecnico dotato di una capacità logica superiore alla media.

    Al sig. Giulin piaceva sfoggiare fiero la sua bella tuta blu, sempre pulita e stirata, aveva spesso un atteggiamento saccente e tracotante, era da molti anni in servizio nell’azienda e l’anzianità fa grado. Dopo aver conosciuto meglio Giulin, Salvatore rilevò nel suo comportamento una discreta dose di razzismo e narcisismo, oltre a un marcato disturbo della personalità.

    In una fabbrica storica fondata nel 1907, con centocinquanta dipendenti, ai più sembrò un’anomalia l’ultima assunzione: l’assistente del direttore generale era un terrone, un certo Salvatore Carmine, tecnico multilingue trentenne d’origine pugliese.

    Un impiegato terùn alla segreteria della Direzione, in quell’azienda, agli inizi degli anni Settanta, era un evento più unico che raro. Un colpo di fortuna inaspettato per il giovane salentino.

    Ma cosa si celava dietro tale colpo di fortuna?

    Il segretario di direzione coadiuvava il direttore generale nella vendita di impianti meccanici all’estero, redigeva le offerte, accoglieva e assisteva le commissioni d’acquisto o di collaudo, organizzava pranzi e cene di lavoro, spostamenti vari per aeroporti e hotels e varie altre mansioni di primo piano derivanti dalle vendite estere, da cui l’azienda otteneva l’80% delle commesse.

    Ma per Salvatore non fu tutto rose e fiori.

    Infatti, le origini meridionali non deposero a favore del giovane salentino, che si ritrovò, suo malgrado, ad essere vittima di un raggiro.

    Inizialmente Salvatore fu mosso da grandi aspettative e speranze per il futuro: la sua scrivania si trovava di fronte a quella del direttore generale, che di lì a poco sarebbe dovuto andare in pensione; per cui, in teoria, il più adatto a sostituirlo sarebbe stato lui, almeno per le mansioni di vendite estere.

    In ambito lavorativo, nell’imminenza di una consegna dalla scadenza ravvicinata, Salvatore pose questa domanda al Giulin: Quando sarà pronta la macchina per il collaudo?

    Il tecnico lumbard, non solo rispose vagamente che era questione di giorni, ma lo disse anche in modo distaccato, quasi scortese, voltandosi dall’altra parte. Salvatore interpretò tale comportamento come la naturale conseguenza di una personalità frustrata e intollerante, oltre che di scarsa educazione.

    Dopo questo episodio, la frase Mi d’un terùn a chapu minga urdin fu detta dal Giulin al direttore generale, il sig. Michele Bolla, alla presenza della Sig.ra Bossi, lombarda DOC, ragioniera responsabile dell’ufficio acquisti, moglie e madre in parte inappagata. Ella intratteneva con Salvatore un cordiale rapporto amichevole e di stima reciproca; fu lei, infatti che lo mise al corrente di quella frase, bollandola come inqualificabile da parte del Giulin, frutto di una mentalità contorta e razzista.

    Nello stesso periodo iniziò un comportamento provocatore da parte del direttore generale nei confronti del suo giovane assistente, nonostante i quattro anni di lavoro intenso e ben svolto. In pochi mesi, il dirigente mise in atto una serie di attacchi e manovre bieche, volte a provocare forte stress emotivo o a delegittimare la figura del suo assistente. Il vecchio direttore puntava a ferire il temperamento, irruento e passionale, tipico del meridionale, per indurre quest’ultimo a commettere un passo falso che giustificasse il licenziamento in tronco. Con questo obiettivo, il capo architettò una sistematica persecuzione tendente all’annullamento del suo assistente per annientare la sua capacità di resistenza: rimproveri volutamente pretestuosi ed esagerati davanti ai colleghi, dispensazione dalle mansioni abituali, sgarbi sproporzionati per rapporto alla causa: il giovane, insomma, fu una vittima di quello che oggi chiameremmo mobbing. Ad ogni rimprovero pretestuoso seguiva una lettera di ammonizione e, dopo la terza, seguì quella di licenziamento finale per cumulo di richiami scritti, proprio come previsto dal contratto di lavoro dei metalmeccanici del tempo: manovra premeditata!

    Salvatore mantenne i nervi saldi, impugnò l’ingiusto licenziamento, citò il direttore in giudizio e vinse la causa civile contro di lui e contro l’azienda.

    Le ammonizioni incongruenti vennero annullate dal giudice e il terùn conservò il suo posto di lavoro senza passare per lazzarone come veniva accusato dal capo davanti ai suoi colleghi.

    Alla fine dell’udienza, il giudice ammonì il top manager:

    Egregio direttore, tenga ben presente che non dirige un carcere ma un’azienda metalmeccanica moderna, i collaboratori vanno rispettati, ci vuole ben altro per un licenziamento.

    Nessuno dei componenti dell’amministrazione aziendale si rese disponibile per una testimonianza contro Salvatore, bollando fancazzista il terùn, per il semplice fatto che il pugliese era stato sempre molto volenteroso e disponibile, e che, grazie al suo carattere socievole, s’era meritato la stima dei colleghi.

    Contemporaneamente alla suddetta persecuzione, nel volgere di un anno, il dirigente capo ordì una flessione macchinata delle vendite ottenuta aumentando a dismisura i prezzi di listino dei macchinari prodotti. A causa della conseguente diminuzione di commesse, secondo quest’ultimo, che faceva sfoggio delle sue intenzioni direzionali a voce alta parlando al telefono con il titolare dell’azienda, era necessario tagliare uno dei rami secchi dell’ufficio, cioè, licenziare l’assistente terùn. Cacciato Salvatore, solo il direttore avrebbe potuto svolgere quelle mansioni, che esigevano, oltre ad una congrua formazione tecnica, l’ottima conoscenza di almeno due lingue estere fluenti, scritte e parlate, per seguire tutto l’iter prevendita, collaudo e postvendita di macchinari complessi di grandi dimensioni.

    Il titolare, proprietario di maggioranza della S.p.A., non veniva più da anni in azienda, causa limiti d’età, e veniva informato dell’andamento degli affari dalla sua segretaria personale e dal direttore generale.

    La vera ragione di tali accadimenti si rivelò sei mesi dopo come un fulmine a ciel sereno.

    Un bel mattino, del tutto inaspettatamente, l’anziano manager non si presentò in azienda. Dopo alcuni giorni d’assenza ingiustificata, si diffuse la notizia totalmente imprevista: il direttore era definitivamente andato in pensione. Si creò così un’anomala situazione di vuoto, dovuta al fatto che il proprietario dell’azienda non aveva provveduto per tempo a formare una figura di rimpiazzo, data l’importanza delle mansioni riservate al dirigente in capo.

    Incredibile ma vero. Il direttore pensionato era da ben 52 anni ininterrotti al servizio della stessa azienda e in questo mezzo secolo si era assentato solo tre giorni per malattia. Era stato assunto come fattorino con la sola licenza media, aveva scalato tutte le cariche fino alla direzione generale, ed ora, senza alcun preavviso, era definitivamente fuori dall’azienda. Conclusione di carriera beffarda e inaspettata, senza saluti di commiato, applausi, abbracci, pasticcini e spumante.

    La malafede per il fallito licenziamento ad opera del top-manager ai danni del suo assistente venne a galla in tutta la sua interezza quando, tre mesi dopo il suo pensionamento, Salvatore fu incaricato dalla segretaria del titolare di setacciare e ripulire la scrivania e gli armadi usati dall’ex direttore andato in pensione: stava per arrivare un altro dirigente.

    Il solerte assistente di direzione si mise all’opera di buona lena e nel visionare tutte le carte prima di buttarle, notò la copia di una lettera datata due anni prima, indirizzata al titolare dell’azienda e firmata dal direttore generale Michele Bolla. La lettera formulava una richiesta di partecipazione al pacchetto azionario aziendale del 5% come contropartita alla rinuncia della cospicua liquidazione spettante al direttore pensionato, nonché all’assunzione e al passaggio di consegne della direzione generale a suo figlio, il trentaduenne ing. Paolo Bolla, in modo da non creare vuoti di potere e garantire la migliore continuità aziendale.

    La famiglia milanese proprietaria dell’azienda non aveva eredi in grado di assumere tale carica; perciò, l’astuto genitore voleva assicurare a suo figlio la direzione generale, con una piccola ma solida partecipazione al pacchetto azionario; una posizione dominante sgombra da eventuali potenziali competitori. Il bravo papà, per amore del figlio, aveva già licenziato, anni prima, il precedente assistente di direzione esperto e aveva assunto provvisoriamente Salvatore al suo posto in attesa che il suo progetto di successione si concretizzasse.

    Aumentando i prezzi a dismisura, egli fece volutamente diminuire le commesse portando l’azienda sull’orlo della cassa integrazione e contemporaneamente propose la furba pensata di sistemare il figlio. La proprietà non cedette a tale richiesta tracotante e truffaldina, e, ad età raggiunta, mise in pensione il manager troppo ambizioso.

    Dato l’improvviso vuoto dirigenziale, nell’azienda si dovette affrontare un periodo di turbolenza. L’organizzazione del lavoro era del tipo verti-cistico; era il direttore generale che dettava le linee guida e dava l’OK al momento giusto su tutte le maggiori competenze aziendali. La sua mancanza investiva di maggiore responsabilità tutti gli altri impiegati nell’espletamento delle loro mansioni.

    Durante quei quattro mesi di vuoto direzionale, telefonavano e scrivevano da mezzo mondo per avere offerte di macchinari, il povero Salvatore si trovava tra l’incudine ed il martello, non potendo commentare compiutamente con i clienti il vuoto anomalo creatosi in azienda, specialmente quando doveva rispondere al telefono con clienti e rappresentanti esteri che avevano avuto rapporti ultradecennali con il direttore pensionato.

    Nonostante tutto, il terùn diede fondo a tutta la sua esperienza e capacità, il lavoro proseguì e diede buoni frutti anche senza il grande capo.

    Infatti, durante quei mesi di vuoto dirigenziale, Salvatore era comunque riuscito diligentemente ad imbastire, tramite il rappresentante inglese e una importante multinazionale, la trattativa base di due grandi macchinari per la lavorazione delle carcasse di motori ferroviari, del valore complessivo di due miliardi e mezzo di Lire: ricco affare a quei tempi. La trattativa proseguì e andò a buon fine dopo l’arrivo del nuovo direttore generale.

    Purtroppo, nei mesi successivi, Salvatore dovette constatare quello che temeva da tempo.

    La figlia del vecchio titolare e il genero, divenuti proprietari effettivi, subentrando al patron, ormai novantenne, decisero di assumere un manager di loro fiducia, che a sua volta portò in azienda un venditore suo amico, escludendo Salvatore dalle mansioni abituali di vendite estere.

    A Salvatore non fu riconosciuto alcun merito per il ricco affare da lui iniziato autonomamente, anzi venne estromesso dall’ufficio vendite e fu spostato ad altro incarico equivalente con il presupposto di un incoerente avvicendamento provvisorio.

    L’ennesima umiliazione fece desistere lo sfortunato assistente di direzione dal combattere contro un pregiudizio asfissiante, diede le dimissioni e si dedicò alla libera professione.

    Due mesi dopo l’azienda mise in cassa integrazione trentacinque dipendenti dei centocinquanta totali.

    Negli anni successivi Salvatore nutriva rancore più verso l’ex direttore che contro l’azienda; infatti, due anni dopo fu assalito da forte sconforto nell’apprendere che la fabbrica era stata messa in liquidazione: centodieci dipendenti dei centoquindici rimasti, erano stati licenziati. Furono ceduti tutti i progetti e archivi tecnici, come pure la maggior parte dei macchinari per miliardi di lire, furono dislocate solo alcune attrezzature in un piccolo immobile in periferia della città.

    La proprietà aveva deciso di eliminare la produzione e proseguire l’attività aziendale solamente come agenzia di manutenzione delle centinaia di macchinari esistenti in quarantacinque Paesi del mondo. Solo in Nord America vi erano diciassette macchinari giganti. Le aree occupate dalla fabbrica, vicine al centro città, furono destinate ad abitazioni di lusso.

    Il tempo trascorse inesorabile.

    Trentacinque anni dopo, un anziano signore sessantaseienne suonò il citofono della villa casa-ufficio del figlio di Michele Bolla, ormai deceduto. Rispose una voce femminile: Sì, chi è?

    Una voce melliflua disse: Buongiorno, sono Salvatore Carmine, un ex collega di lavoro di Michele Bolla, l’ingegner Paolo Bolla è in ufficio?

    Un attimo dopo, la segretaria: Sì, entri e venga in fondo al vialetto.

    Salvatore: No, mi scusi, devo solo chiedere una cosina veloce all’ingegnere, va bene anche al citofono.

    La segretaria: Attenda, prego.

    Poco dopo Paolo intervenne al citofono: Pronto? Buon giorno, dica sig. Carmine.

    Salvatore: Buongiorno ingegnere, scusi il disturbo, fu suo padre che mi parlò di lei, vorrei sapere dove si trova sepolto Michele al cimitero Monumentale. Poiché sto portando dei fiori sulla tomba dei miei fratelli, mi piacerebbe fare un ossequio anche alla tomba di suo padre.

    Paolo: Capisco… Vuole accomodarsi cinque minuti? Beviamo un caffè?

    Salvatore: No grazie, la mia salute è un po' cagionevole, meglio evitare e ho una leggera premura.

    Paolo: Dunque, la tomba di mio padre si trova in una cappella, di solito aperta, viale C angolo vialetto 3.

    Salvatore: Grazie, mi basta. Se troverò chiuso, la farò contro la porta.

    Paolo: Scusi… Non capisco, cosa intende dire?

    Salvatore: Intendo dire che la pisciata e gli sputacchi li farò contro la porta della cappella, perché di questo si tratta, una promessa fatta a suo padre trentacinque anni fa se gli fossi sopravvissuto. Michele è stato un gran bastardo nei miei confronti durante il nostro rapporto di lavoro e glielo promisi allora.

    Paolo: Signore, abbia pazienza, aspetti, esco, le vorrei parlare. Quando Paolo Bolla arrivò in strada l’anziano si era già eclissato.

    Dopo essere rientrato in ufficio, il buon Paolo si concesse un momento di riflessione profonda.

    Cercava disperatamente di ricordare gli accenni fatti dal padre molti anni prima con lassa sta’, ghie pensi mi, riguardo quella direzione generale tanto agognata, ma mai ottenuta.

    Salvatore, intanto, si era avviato di buona lena verso il cimitero e ripensando al passato, in cuor suo si sentiva molto rinfrancato per il fatto di non aver dato sfogo alla vendetta pianificata ai danni del malvagio capo, durante il periodo dei tormenti subiti. Allora, aveva deciso e organizzato di stramazzare il vecchio pensionato in una delle tante occasioni in cui avrebbe fatto una passeggiata vicino casa con la cagnetta, una sera in penombra, con altri due balordi mercenari assoldati allo scopo, lo avrebbero atteso appostati e mascherati per dargli il benservito, tutti e tre armati di tubi di gomma dura. Per fortuna all’ultimo momento Salvatore rinsavì, la pietà prese il sopravvento sulla vendetta rabbiosa, ordinò perciò agli altri due picchiatori di abbandonare l’idea balorda e di andare a bere una birra.

    Intervenne la Provvidenza? No! Quella dottrina cattolica subìta da ragazzo lo aveva fortemente condizionato, certe inclinazioni selvagge sono state totalmente sottomesse da pietà, bontà e perdono.

    L’animo dell’anziano provò comunque una grande soddisfazione ed un grande senso d’appagamento nel pisciare contro la foto affissa sul marmo che chiudeva il loculo del Bolla Michele, fu direttore generale. Ora rivoltati pure nella tomba – ripeté due volte Salvatore.

    Mai mollare, mai arrendersi. Never give up.

    Macchina utensile

    CAPITOLO 2

    L’ingegnerino.

    Durante questo primo periodo di lavoro turbolento come assistente di direzione, Salvatore aveva coltivato un rapporto d’amicizia con un giovane ingegnere al primo impiego, addetto alla gestione computerizzata della produzione, nella stessa azienda metalmeccanica.

    Dopo mesi di approcci, l’ingegnerino confessò al collega di non sapere nulla della truce Unità d’Italia. Il giovane laureato biondino, viso pallido, figura esile, piuttosto basso, dal carattere mite, schivo, di poche parole, venticinquenne, molto timido, cresciuto in una famiglia benestante lombarda, guardava poco-niente le giovani segretarie, nonostante Salvatore gli segnalasse alcune di loro disponibili, compresa la signora Bossi, mamma quarantenne vogliosa, responsabile agli acquisti, che invitava volentieri i colleghi giovani a casa sua per caffè, biscotti ed altro.

    La domanda che Salvatore si pose dopo averlo conosciuto meglio fu:

    È mai possibile che un laureato del Politecnico di Milano non conosca le nefandezze dell’Unità d’Italia?

    Purtroppo, sì. Sono stati veramente solerti i Ministri dell’Istruzione passati e presenti ad epurare e falsare tutti i programmi di studio degli ultimi centocinquant’anni, così che intere generazioni non sapessero nulla, neppure a livello universitario, delle malefatte del Risorgimento e della feroce Unità.

    Quando Salvatore accennò all’ingegnerino gli intrallazzi internazionali dei Savoia, del mercenario Garibaldi, degli scellerati massacri e incendi in tanti paesi del Sud, l’esile giovane confessò onestamente di non saperne nulla. Sal lo aggiornò a più riprese sui fatti principali. Oltre ad informarlo, Salvatore gli chiese quale sentimento provasse di fronte a questi fatti e la risposta fu sconfortante: La storia non è mai stata il mio forte. Aggiunse però che gli dispiaceva molto per quelle genti martoriate.

    Casalduni e Pontelandolfo organizzano le commemorazioni e rievocazioni storiche annualmente e sono poco distanti da Benevento. Perché non vi fai una passeggiata in agosto per riappropriarti di una pagina di Storia che ti è stata volutamente nascosta? L’invito cadde nel vuoto.

    Alla presentazione di libri meridionalisti, a Salvatore si attorcigliano le budella dalla rabbia nel sentire tutte le malvagità subite dai meridionali da parte degli invasori armati e con

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