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Sorpresi da un sogno: Meditazioni verso il Natale
Sorpresi da un sogno: Meditazioni verso il Natale
Sorpresi da un sogno: Meditazioni verso il Natale
E-book272 pagine3 ore

Sorpresi da un sogno: Meditazioni verso il Natale

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Info su questo ebook

Con la ricchezza e la profondità di pensiero che gli sono proprie, don Angelo Casati penetra il mistero del Natale attraverso le Scritture.
Sono pagine intense, che fanno riflettere sull’uomo e sul tempo presente, con una capacità sorprendente di evitare i luoghi comuni e innalzare lo sguardo al vero senso della vita e della rivelazione.
Un testo spirituale che conduce per mano nel tempo dell’Avvento e del Natale, toccando i temi fondamentali della rivelazione e dell’incarnazione di Dio, dell’attesa del regno e del cammino di Gesù verso Gerusalemme, prefigurazione della passione.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2022
ISBN9788870988048
Sorpresi da un sogno: Meditazioni verso il Natale
Autore

Angelo Casati

Angelo Casati. Nato nel 1931, licenziato in sacra teologia, è sacerdote della Diocesi di Milano, dove ha ricoperto diversi incarichi, dal 1954. E' stato insegnante di lettere nei Seminari diocesani, quindi vicario parrocchiale a S. Giovanni di Busto Arsizio (Va), poi parroco a S. Giovanni di Lecco. Nel 1986 gli è stata affidata la cura della comunità parrocchiale di S. Giovanni in Laterano. Con Centro Ambrosiano ha pubblicato Diario di un curato di città; Ricordare le sue parole (raccolta di omelie e commentario del lezionario festivo dell’anno A), E la casa si riempì del profumo (anno B), Gli occhi e la gloria (anno C), Il racconto e la strada.

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    Anteprima del libro

    Sorpresi da un sogno - Angelo Casati

    MEDITAZIONI PER L’AVVENTO

    La conversione di Dio

    C’è una preghiera struggente, ma anche fiduciosa, custodita nel Libro di Isaia tra i capitoli 63 e 64, che forse potrebbe essere la nostra preghiera per il tempo dell’Avvento. Ciascuno di noi, rileggendo queste pagine della Bibbia, potrebbe farla propria:

    «Siamo diventati tutti come cosa impura» – è scritto – «e come panno immondo sono i nostri atti di giustizia». Che cosa c’è oggi – ce lo chiediamo, ce lo chiediamo tutti –, che cosa c’è oggi di incontaminato? E dove i panni puliti? Dove le azioni senza un’ambiguità nascosta, senza secondi pensieri? Il panno immondo!

    E continua la preghiera: «Tutti siamo avvizziti come foglie e le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento». E anche questa è la sensazione diffusa di un invecchiamento della nostra società quasi generalizzato, un avvizzimento, foglie stanche, foglie avvizzite. Al punto che si ha quasi paura di generare, di portare alla luce un germoglio nuovo per il futuro. È morta o, se non morta, è agonizzante la speranza.

    Oggi ascoltando questa preghiera del Terzo Isaia mi ritornavano in mente, per un accostamento impressionante, alcuni passaggi di un articolo di Fra Betto, un domenicano teologo e giornalista brasiliano: come è vero che tutto il mondo è paese!

    Scrive: «Non speriamo più di cambiare, retrocediamo dal sociale al privato e, stracciate le antiche bandiere dei nostri ideali, le trasformiamo in cravatte. Non vi sono più utopie di un futuro che diventi diverso dall’oggi. Per questo siamo malinconici, sorridiamo con scetticismo. Oggi predominano l’effimero, l’individuale, il soggettivo, l’estetico. La delusione della ragione ci spinge verso l’esoterico, verso uno spiritualismo di pronto consumo, verso l’edonismo consumista. Siamo in pieno naufragio o, come ha predetto Heidegger, stiamo camminando su sentieri smarriti».

    E ritorna la preghiera del profeta: «Perché, Signore, ci lasci vagare lontani dalle tue vie, lasci indurire il nostro cuore così che non ti tema?» Perché?

    «Camminiamo su sentieri smarriti», dice il filosofo. E forse Avvento è anche questo ridestarci, stropicciare gli occhi, fermarci prima di finire in esiti di morte, su vie senza ritorno.

    Avvento è anche aprire gli occhi e non fermarci alla lamentazione generale, per questo avvizzimento, e capire da dove viene questa crisi: dall’aver abbandonato le vie del Signore, dall’aver cancellato dai nostri ricordi il Suo nome: «Nessuno invocava il Tuo nome, nessuno si riscuoteva per stringersi a Te». Ci siamo addormentati, e del nostro assopimento porta traccia la casa comune, quella che il padrone, andandosene, ha affidato alle nostre mani.

    Avvento è questo diventare lucidi, lucidi sulle cause che hanno partorito questo avvizzimento, questo degrado.

    E qual è il passo successivo?

    Verrebbe spontaneo dire che il passo successivo, il primo da compiere – una volta presa coscienza della realtà – sia il convertirci. E spesso l’abbiamo anche predicato come il primo passo da compiere. Ma la preghiera del Libro di Isaia, ancora una volta, ci sorprende perché ci dice che la prima cosa non è la nostra conversione, ma è la conversione di Dio, la prima cosa non è il nostro ritornare dei passi smarriti, ma è il ritornare di Dio. È scritto: «Ritorna – cioè convertiti – Signore, per amore dei tuoi servi, per amore della tribù tua eredità». Non siamo noi che con le nostre forze, con i nostri meriti ritorniamo a Lui, è Lui che ci raggiunge altrove e cioè là dove ci siamo dispersi, smarriti.

    I verbi più importanti della preghiera custodita nel Libro di Isaia non sono i verbi del nostro smarrimento; sì è vero, i nostri passi ci hanno portato lontano, ma sono i verbi che ci parlano dei passi di Dio che ci viene a cercare là dove ci siamo smarriti e ci viene incontro, che ritorna per noi. Noi siamo soliti fissare lo sguardo sulle nostre foglie avvizzite, sui nostri panni immondi, sui nostri insuccessi, e così intristiamo.

    Ecco l’Avvento è fissare lo sguardo su Dio, sulla sua fedeltà che è più grande di ogni nostro smarrimento, sul suo amore di padre; è quasi un ritornello in questa preghiera: «Tu Signore sei nostro Padre, ricordati Signore, e ritorna a noi; noi siamo argilla e Tu colui che ci dà forma. Tutti noi siamo opera delle Tue mani».

    Il grido della terra

    Nelle letture del tempo di Avvento si respira l’attesa del giorno del Signore. E vorrei cominciare con una domanda, che rivolgo prima di tutto a me stesso: c’è nella mia vita questa attesa? Pensate quante attese fanno vibrare, sono custodite nella nostra vita. Ebbene, mi sorprendo qualche volta a sognare il giorno del Signore, il giorno della sua venuta alla fine dei tempi? E forse la domanda potrebbe essere anche questa: mi ritrovo qualche volta sulle labbra l’invocazione dei primi cristiani, quella che chiude la Bibbia: «Vieni, Signore Gesù», in aramaico Maranà tha (Ap 22,20)? Che nell’altra formulazione Marànatha significa: Il Signore è venuto!. Esprime certezza.

    Se siamo sinceri, dobbiamo confessare, confessare a noi stessi, che questa attesa della venuta di Gesù alla fine dei tempi e questa preghiera struggente si sono come scolorite, o forse rimangono confinate in un angolo della nostra vita e quindi poco significanti, quasi ininfluenti sul resto della vita. Sarebbe troppo faticoso e anche arduo ripercorrere le cause di questo scolorimento – perché di scolorimento si tratta – del giorno della venuta del Signore.

    Forse anche noi credenti abbiamo ceduto a un modo diffuso di pensare la storia come un tempo in cui le cose sono sempre uguali, e non ci sarà mai una vera sorpresa, una svolta veramente decisiva, le cose sono così, andranno sempre così e finiranno così, un infinito cattivo. Un realismo fondamentalmente pessimista, a volte suffragato, tristemente, dalle nostre speranze andate deluse. È la scomparsa dall’orizzonte dell’attesa del ritorno del Signore alla fine dei tempi.

    Ma, di questo scolorimento c’è anche una causa più interna al nostro mondo credente, ecclesiastico ed è che noi abbiamo mutato l’Avvento in una preparazione al Natale come se si potesse ancora attendere la nascita di Gesù nell’umiltà della nostra carne, nella povertà di Betlemme, come se si potesse attendere la nascita di uno che è già nato.

    Enzo Bianchi ha scritto che questa è una regressione, una regressione di cui portiamo la colpa, una ingenua regressione devota che depaupera la speranza cristiana. Sì, forse non misuriamo quale carica di speranza, di vita, d’accensione di fiducia, di energia, quanto fermento sia custodito in questo pensiero, se solo ci sfiorasse più di quanto oggi ci sfiora: «Il Signore verrà».

    Da un lato questa invocazione «Vieni, Signore» è preghiera nella quale ospitiamo il grido della terra, l’implorazione di tutti coloro che nella storia hanno subito ingiustizie, violenze. Di tutti coloro che hanno portato nella sofferenza della loro carne la ferita del disprezzo, del misconoscimento della loro dignità, della prevaricazione dei potenti, dell’inganno dei disonesti, l’implorazione di coloro che hanno onorato l’umiltà, la mitezza, la limpidezza e sono stati derisi.

    Vieni, Signore. E il tuo giorno – come ci ricorda un lontano discepolo di Isaia (cfr. Is 51,4-8) – il tuo giorno ci porti una legge che non sia aggirata, un diritto che sia sacro per tutti i popoli e non solo per alcuni, una novità che non sia di qualche giorno, ma sia per sempre. Sta scritto: «La mia salvezza durerà sempre e la mia giustizia non sarà annientata».

    Come attendere dunque anche nelle ore dure della storia? Con la preghiera, con questa invocazione struggente: «Vieni, Signore Gesù». Un’invocazione che tiene viva la speranza in noi.

    Ma il Vangelo secondo Matteo, al cap. 24, ci dà un’ulteriore indicazione su come attendere la venuta del Signore nella storia. Dice «Vigilate», verbo che ci richiama a non stare con la testa fra le nuvole, ma all’attenzione. In greco questo imperativo nel suo significato suona così: guardate con attenzione, mettete a fuoco, concentratevi.

    Un’attenzione da custodire, secondo il Vangelo, in due direzioni.

    Ecco la prima: guardatevi che nessuno vi inganni (cfr. Mt 24,4). E l’inganno da cui dobbiamo guardarci, secondo Matteo, è quello delle promesse religiose illusorie: «Se qualcuno vi dirà: ecco il Cristo, è qui, è là, non credete». Vigilare vuol dire dunque resistere all’inganno delle false apparizioni. Tieni fede a ciò che sta scritto, alla Parola di Dio. Ma c’è un altro inganno da cui Gesù ci mette in guardia, quello dell’apparenza, quello dell’idolatria del potere, lasciarci abbagliare dai segni di potenza. Guardate in profondità, mettete a nudo, guardate la precarietà degli stessi segni religiosi che pretendono di essere assoluti. Il tempio? Non resterà pietra su pietra che non venga diroccata. Essere vigilanti significa essere critici, non sedotti dall’immagine.

    Paolo fa eco a questo ammonimento dalla sua Seconda Lettera ai Tessalonicesi (cfr. 2,1-14). Colui che si fa grande quasi fosse un Dio, dice Paolo, il Signore Gesù «lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta». Annienterà, dice Paolo, proprio lui che era venuto «nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità». Vigilare nella storia significa dunque far nostra la struggente preghiera: «Vieni, Signore Gesù», e resistere alla seduzione dell’inganno. Conservarci puri da ogni idolatria.

    Verso le periferie

    Leggendo i testi biblici del tempo di Avvento, mi vado chiedendo il perché di questa insistenza a unire attesa e disincanto. L’attesa della salvezza, l’attesa di Dio che è salvezza: attendo Dio? Punto di domanda! Ma contemporaneamente il disincanto, perché i passi della salvezza sono fuori dai luoghi in cui penseremmo di udirli, sono altrove. Il suono dei passi di Dio è leggero ed è altrove.

    C’è un piccolo frammento tratto dal Libro di Michea (5,1), un versetto solo, che mette ancora una volta in luce il disincanto. Viene contestata duramente la città simbolo, la metropoli, Gerusalemme, lei che sotto un nome santo nasconde corruzione e ingiustizia. Per evocare invece un piccolo villaggio, Betlemme: «Tu Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà...».

    Ebbene forse c’è una ragione di questa insistenza, perché nelle nostre politiche umane, anche ecclesiastiche, l’attenzione è al centro, è alla grandezza. Basterebbe pensare che cosa evochi la parola chiesa, quali immagini si accendano nel nostro immaginario al sentirla pronunciare. Andiamo al centro o alla periferia? Mi hanno colpito i pensieri conclusivi del cardinal Martini in un suo libro, là dove dice che è lo Spirito a guidare la chiesa, perché riviva le intenzioni di Gesù e compia il suo stesso cammino: «Che è – dice – soprattutto un cammino di povertà, di umiltà, di distacco. La Chiesa non vive attraverso i grandi segni, grandi adunate di popolo, anche se ci vogliono. La sua identità è la povertà di Gesù, l’umiltà di Gesù, la compassione di Gesù, il perdono di Gesù. Questo è ciò che lo Spirito insegna e dice a noi».³

    La salvezza ha dunque i passi della piccolezza e questo dovrebbe, a mio avviso, affinare il nostro sguardo.

    Non è forse vero che anche l’inizio del Vangelo secondo Giovanni va in questa direzione? Dopo la contemplazione assorta e solenne del mistero del Verbo che, da prima del tempo, è luce e vita, ecco come avviene la ricaduta nella storia: «Apparve un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni» (Gv 1,6). In pratica uno sconosciuto! E chi avremmo atteso a preparare la via secondo i nostri consueti canoni umani? Un sommo sacerdote, un uomo appartenente alla casta dei religiosi, uno scriba, un dottore della legge? No, Dio sembra evitare il tempio, sembra evitare le gerarchie religiose, quasi preferisse ambiti laici: i profeti non appartengono alla casta del tempio. Anche questo fa pensare.

    E di Giovanni, il Battista, il Vangelo continua a raccontare dicendo: «Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce» (Gv 1,7). Il testo del Vangelo sembra alludere a una disputa che accendeva gli animi nei primi secoli della chiesa, quando gruppi di discepoli di Giovanni celebravano come Messia il loro Maestro. Per loro Gesù di Nàzaret era un uomo troppo normale, una persona troppo comune. Più ascetico, più ispirato, più spirituale secondo loro il Battista. Ebbene, non era lui la luce. «Veniva» – è scritto – «nel mondo la luce vera»: Gesù di Nàzaret, Lui la luce vera.

    Vera, una specificazione che ci sorprende. Come a dire che ci sono anche luci false, scintillio vuoto di luci, fiera delle vanità, fiera delle cose vane, cioè vuote.

    Ma quando si è luci false? Quando si scardina questo congiungimento che è così insistentemente evocato nel prologo di Giovanni, quando avviene la dissociazione tra luce e vita. Quando accade questo, viene meno la testimonianza, viene meno il nostro essere testimoni: Giovanni era un testimone, luce e vita insieme.

    Forse riusciamo a intravvedere la densità di questo messaggio, che viene consegnato a ciascuno di noi. Alla luce noi diamo testimonianza con la luce che irraggia dalla nostra vita, con la luminosità della nostra vita, diremmo con la nostra somiglianza con Dio. Non ci ha forse creati Dio a sua immagine e somiglianza?

    Preziosa questa insistenza sulla persona, su quello che siamo. «La luce brilla nelle tenebre», scrive il Vangelo. Non si tratta allora di lottare contro le tenebre o di fare le crociate, è la tentazione dei fanatici di tutti i tempi. Si tratta di risplendere: se risplendiamo, arretra il buio, arretrano le tenebre.

    È la luminosità della persona che è gradita a Dio, non sono tanto i riti, potremmo dire, riprendendo il discorso del profeta Malachia (cfr. 3,1-7). Colui che viene, è scritto: «Li affinerà come oro e argento perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia». Come non ricordare l’insonne polemica dei profeti che andavano ad ammonire che Dio le nostre liturgie non le sopporta, se non onoriamo Dio e la vita con la giustizia. Sarebbe una luce falsa.

    Ma, ancora, il prologo di Giovanni viene ad ammonirci che la luminosità della vita con la venuta di Gesù non sta tanto nell’osservanza minuziosa di una precettistica senz’anima; a tanto era stata ridotta a volte la legge: «La Legge» – scrive – «fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo».

    Non si tratta di sottometterci a una precettistica, ma di lasciarci condurre dalla grazia. Grazia, una parola che nel suo etimo allude a un amore non impoverito a contratto, a un amore che sconfina nel gratuito. Perché tale è l’amore di Dio, che noi abbiamo contemplato in Gesù di Nàzaret: «Dio nessuno l’ha visto, è il Figlio di Dio che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Lo ha rivelato, il testo greco dice: «Ce ne ha fatta l’esegesi», lo ha raccontato, con la sua vita. Con la grazia, con il gratuito della sua vita.

    Si tratta allora, come dice Paolo nella Lettera ai Galati (3,23-28), di rivestirci di Cristo, della sua somiglianza, del suo gratuito. Per questo dice Paolo: «Non c’è giudeo né greco. Non c’è schiavo né libero. Non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». Il gratuito fa l’universalità. Il gratuito fa la luce, la luce vera della vita.

    E io a chiedermi se la mia vita è nel gratuito o nel calcolo. E a implorare che venga il Signore, a dare luce vera a questa mia vita.

    ³C.M. Martini, Parole per vivere, Paoline, Milano 2010, p. 153.

    Non hai compreso ciò che porta alla pace

    La Parola di Dio, che non ci risponde se la interroghiamo sul quando e sul dove il Signore verrà (non sta a noi conoscere i luoghi e i tempi della sua venuta), non è invece reticente sulle modalità della sua venuta: come viene il Signore? L’icona dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme sulla groppa di un asino è trasparente, non c’è posto per fraintendimenti, racconta una modalità del Signore, del suo venire: mitezza e umiltà. Così è venuto, pensiamo al Natale, così viene, così verrà. E non altrimenti.

    E, diciamocelo, con quel suo venire, con la modalità di quel suo venire, è come se fosse ingresso in una terra nuova. Infatti il salmo che accompagna l’ingresso, il Salmo 118, gridato dalla folla dei suoi discepoli, era il salmo che accompagnava nella tradizione ebraica la festa delle Capanne, cioè il passaggio dal deserto alla terra promessa.

    Guardalo. Guardalo entrare così. Qui si inaugura un nuovo corso, qui si apre una terra nuova. Perché già è notizia buona che Dio con il suo Messia scelga di entrare nelle nostre città e non se ne stia fuori. Ma forse notizia ancora più buona è quella che ricorderà Luca, subito dopo, nel suo Vangelo, quando ci racconterà del pianto di Gesù sulla città: «Quando fu vicino alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: Se avessi compreso in questo giorno quello che porta alla pace, ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi» (Lc 19,41-42).

    Notizia straordinaria dunque che un Dio a tal punto si immedesimi, che pianga sulla nostra città. E pianga perché? Perché quel suo ingresso non è stato compreso, e proprio perché incompreso, non si è capito (questo è grave) ciò che veramente porta alla pace. Ho letto queste parole e mi sono sembrate di una attualità sconcertante. Mi è sembrato di leggervi un monito. Come se Gesù ci dicesse: Se voi non fate attenzione alla modalità della mia venuta – sono venuto su di un asino, sono venuto in umiltà e mitezza – se voi non capite la lezione, a rischio è la pace.

    Ma perché? Perché questi, della mitezza e dell’umiltà, sono i segni dell’amore, segni concreti, segni di un Dio che ama. Se uno ti invade, se uno ti terrorizza, se uno tiene le distanze, tu dici che ti ama? Per questo la folla, la piccola folla del Vangelo, fece festa quel giorno per le strade. Celebrava un Messia che aveva avuto cuore per tutti, anche per i piccoli e i deboli, per i peccatori, uno che non aveva tenuto le distanze. Così diverso dalle autorità che sorvegliano e incutono paura, che tengono le distanze, che si illudono ti tenere in pugno il mondo con la paura. Era finito il tempo della paura, era cominciato il tempo della libertà. Un Dio che ci vuole liberi e non schiavi. Questo è il volto di Dio: la sua mitezza è per la nostra libertà. «Io sto alla

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