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Chasm
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E-book189 pagine2 ore

Chasm

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Info su questo ebook

Samanta è una giovane 20enne con mille problemi sulle spalle. Dopo la morte del padre, deve badare alla madre alcolista e alla sorellina adolescente Ginevra. E come se non bastasse un giorno viene licenziata dal suo capo di punto in bianco. Pensa che non potrebbe andare peggio di così, ma si sbaglia. Quando una mattina si reca nel suo posto preferito, incontra uno strano uomo, solo e terrorizzato. Da quel momento la ragazza si trova al centro di una serie di strane vicende piuttosto inquietanti, fin quando nella sua vita appare Sebastian, dolce, gentile e premuroso, col quale stringe una profonda amicizia. Sembra che ogni suo problema possa risolversi da un momento con l’altro. Viene, però, a conoscenza di un terrificante segreto che cambierà per sempre il loro rapporto. Inizia così, per lei, la discesa verso l'inferno, e la corsa contro il tempo per salvare le vite delle uniche persone che gli sono rimaste e che non vuole perdere per nulla al mondo. Sul suo cammino incontra Colt Devon, che decide di aiutarla. Un ragazzo dallo sguardo glaciale e dai modi presuntuosi, che non desidera altro l'angelo rinchiuso misteriosamente in Samanta per i suoi fini più oscuri.

E voi vendereste l’anima per salvare le persone che amate?
LinguaItaliano
Data di uscita18 mar 2015
ISBN9781326211745
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    Anteprima del libro

    Chasm - Roberta Dellabora

    Roberta Dellabora

    CHASM

    Daresti l’anima per salvare le persone che ami?

    Prima edizione marzo 2015

    Self-publishing

    Pavia, Italia

    Roberta Dellabora

    Chasm

    Romanzo breve

    Copyright © 2015 Roberta Dellabora Author

    Proprietà letteraria e artistica riservata.

    Tutti i diritti sono riservati. Vietata la riproduzione.

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice

    o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone, reali, viventi o defunte è puramente casuale.

    Prologo

    Sapete una cosa? La mia vita non potrebbe andare peggio di così.

    E’ piuttosto triste da pensare, lo so, ma purtroppo è la verità e io non posso farci nulla. Forse vi sembrerò un po’ drastica e magari non vi starò del tutto simpatica, ma aspettate di conoscere la mia storia e poi potrete giudicare voi stessi.

    Sì, perché la mia non è come le altre storie. Non c’è un principe e non vi è neppure un castello sperduto tra le valli di qualche magico mondo incantato.

    No, ci sono io, Samanta D’elia una semplice ragazza di 20 anni con tanti problemi per la testa e una famiglia a cui badare.

    Che poi non direi proprio famiglia, in effetti di questo non si tratta se dovessimo pensare a mia madre come un’alcolizzata cronica e alla mia sorellina, Ginevra, come una quindicenne già con il piercing all’ombelico che va in giro fingendo di non avere una sorella. In effetti mi viene da star male al solo pensiero.

      Purtroppo non ce la passiamo per niente bene e non parlo solamente del nostro rapporto in famiglia. Da quando mio padre morì stroncato da un infarto la mia vita cominciò a prendere una brutta piega, tutt’altro che rose e fiori.

    Dovetti lasciare la scuola bocciata per due anni di fila al liceo scientifico e avevo dovuto trovarmi poi un lavoro, che non poteva e non voleva darmi alcuna soddisfazione; ma quale soddisfazione poi? Fare la cameriera in un pub squallido aperto la sera fino a tardi e talvolta non riuscire neanche a portarsi a casa la mancia per colpa del proprio capo avido e menefreghista. E come se non bastasse mi era già capitato diverse volte di avere una detrazione dello stipendio per essere arrivata in ritardo sul posto di lavoro. Già, quale soddisfazione?

      Ad ogni modo la mia storia inizia così, in una giornata soleggiata di un lunedì di fine settembre. Il caldo stava pian piano lasciando il posto all’imminente autunno e già, sugli alberi, si potevano scorgere le prime foglie cambiare colore e divenire di tante tonalità tra un rosso accesso e un giallo limone. Fortunatamente il pub a cui lavoravo il lunedì mattina e metà pomeriggio faceva chiusura e quindi, in quel giorno, potevo dedicarmi ad altro, allontanarmi qualche ora da casa per prender una boccata d’aria, starmene per i fatti miei senza che la puzza di alcool dei whiskey di mia madre potesse urtarmi le narici come ogni santo giorno. Così prendevo e me ne andavo semplicemente. Talvolta mi piaceva trascorrere il mio tempo in una piccola biblioteca a Milano che si trovava a pochi passi dal mio quartiere e restare lì a sfogliare qualche libro e assaporare il profumo delle pagine. Anche se tutto sommato devo confessarvi che non sono una gran divoratrice di libri, anzi, avrò iniziato centinaia di romanzi lasciati poi lì inconclusi per sempre. Adesso che ci penso: chissà quante volte avrò riletto le prime pagine di Harry Potter?

      In altri giorni, invece, e questo soprattutto nelle stagioni calde, prendevo il mio telo da spiaggia e mi sdraiavo all’ombra di uno degli alberi del grande parco del castello Sforzesco in centro città e rimanevo a pensare con gli auricolari nelle orecchie e la musica a livelli stratosferici. Sì, perché la musica era una delle poche cose che riusciva a distrarmi veramente. Riusciva a rilassarmi i nervi tesi, a farmi pensare cose positive e a sognare. A sognare, già.

    Sono sempre stata una grande sognatrice, forse una delle migliori. Se mi avessero chiesto un giorno di gareggiare ad una competizione da sognatori sarei arrivata tra i primi tre. Perché i sogni sono così: sono in grado di darti la vita che vorresti, che speri, su misura per te stesso. Ma solo con i sogni e un pugno di progetti nel cassetto non si va da nessuna parte. Questo l’ho imparato negli ultimi anni, quando pian piano iniziai la mia discesa in quel baratro da cui sapevo non avrei più fatto ritorno. Ma, dopotutto, mi sono sempre fatta forza e sognando una vita nuova dove la mia quotidianità fosse scandita da orari di lavoro accettabili, e caratterizzata da una buona occupazione, sono andata avanti ingoiando l’amaro in bocca quando dovevo e approfittando della situazione quando potevo. Sognavo una vita nuova dove mia madre abbandonasse il dolore che ancora dopo tutti questi anni si portava dentro e trovasse la forza di capire che c’era bisogno di lei.

    Una vita nuova dove Ginevra vivesse veramente come una ragazzina della sua età, felice, spensierata e soprattutto leale verso il prossimo. Inutile dire che soffrivo, soffrivo tanto. E l’unico modo per scaricare questo dolore era proprio uscire all’aria aperta.

      La cosa che più mi affascinava del grande parco del castello Sforzesco, il parco Sempione, erano le persone. Restavo ore ferma ad osservare le loro vite e quasi, dai loro gesti, dai loro movimenti, dai loro sguardi, sembrava di riuscire ad immaginare chi erano.

    Era come un hobby che non riuscivo ad abbandonare, mi veniva spontaneo osservare e rubare scorci di storie, una diversa dall’altra.

    Quando ripensavo a come era nata questa passione, mi veniva subito in mente il teatro e una frase che la mia insegnante mi disse: Non si può immaginare di personificare una vita se questa non fa parte di noi stessi almeno per quel poco che sia. Anche la più semplice e apparentemente banale può riserbare una grande storia.

    Non ho mai ritenuto che la mia storia fosse banale, ne tanto meno semplice. Anzi, ho sempre combattuto per far sì che lo fosse. Ma il futuro scritto dal mio destino, sicuramente, non prevedeva una pianificazione di questo tipo.

      Quel lunedì camminai per un paio di chilometri nel parco, soffermandomi di tanto in tanto su una coppia di ragazzi, o un anziano signore seduto sulla panchina a leggere il giornale, o sulla figura di una giovane ragazza correre nel parco.

    Ma la mia attenzione vagò quasi sempre su un uomo che si trovava a pochi passi da me, qualche metro più in là. Quest’ultimo sembrava oppresso da un qualcosa di indecifrabile, il suo sguardo era perso nel vuoto e il suo respiro agitato e irregolare.

    A primo impatto non lo stetti ad osservare più di tanto, poiché dai vestiti e dalla barba lunga pareva proprio essere un senza tetto. Ma la sua frenesia era imperturbabile e l’atmosfera tetra che lo circondava era talmente densa che poteva essere quasi toccata a mani nude.

      Io quel giorno non potevo saperlo e probabilmente se lo avessi saputo non mi sarei mai avvicinata. Ma il mio radar "acchiappa- guai" e il mio senso civile ebbe la meglio. Mossi qualche passo nella sua direzione lentamente.

    Man mano che procedevo i lineamenti scarniti dell’uomo si facevano sempre più chiari e il colore pallido della pelle rugosa, sempre più inquietante.

    Anche quando gli fui praticamente appresso, esso non si mosse e non sollevò il volto per guardarmi.

    «Si sente bene?» chiesi allora con un filo di voce, ma l’uomo sembrò non avermi neanche sentita. «Signore?» domandai ancora inginocchiandomi al suo fianco per farmi vedere meglio.

    Ad un certo punto l’uomo mi lanciò un’occhiata sobbalzante, come rinvenuto da un incubo improvvisamente e la sua fronte iniziò a sudare finché, presto, tutto il corpo non fu scosso da un tremito gelido.

    Ricordo i suoi occhi, forse una delle cose che guardo più spesso in una persona, probabilmente per la loro magnifica capacità di dir il vero anche quando non si vorrebbe . E quello che vidi fu spaventoso. Lessi una grande angoscia divorare quel povero uomo: terrore puro, buio, nero assoluto. Le tenebre nello sguardo di un uomo innocente ormai spacciato. Occhi color nocciola. Ma cera quella venatura a rovinare il tutto, insieme a tante linee rosse che segnavano il bulbo oculare, come se stessero andando a fuoco.

      Esitai per un istante. L’uomo schiuse le labbra tremanti e fissandomi bisbigliò delle parole che mi lasciarono impietrita: «Dio mio… Dio mio… Sangue… Ovunque. Ci divorerà. Moriremo tutti…» disse quelle ultime parole come in un sospiro rassegnato e ormai sfinito si riappoggiò con la schiena al tronco dell’albero senza più aprir bocca.

    Ero rimasta scioccata e la figura oscura di quell’uomo mi aveva riempita di brividi fino alle ossa. Le sue parole così dure, disperate. Quell’uomo era strano, senza alcuna ombra di dubbio, e non riuscivo a liberarmi dal suo sguardo. La parte più trasparente e vera di una persona, mi ripetevo dentro me.

    Mi rialzai e feci per andarmene, ma prima che potessi muovere un passo l’uomo mi fermò. «Fermati, ti prego» sbiascicò incerto, la voce spezzata.

    Lo guardai sbigottita. «Aiutami, salvami!» mi implorò e un brivido mi attraversò la spina dorsale lasciandomi quasi senza parole.

    «Mi scusi, io..» balbettai. «Non credo di essere in grado» ero più spaventata che mai. Gli occhi dell’uomo, che fino ad un attimo prima si erano accesi di una speranza remota, si spensero improvvisamente diventando di un grigiore straziante. Non pianse né mi fermò nuovamente. Ritornò col capo chino a fissare il terreno, immobile come lui.

      Tirai fuori dalla mia tracolla il panino che mi ero preparata per pranzo (e che forse non avrei comunque mangiato) e lo posai davanti all’uomo, che però non ci fece caso né ringraziò. Alla fine sgattaiolai via senza più guardarmi indietro.

    Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Fino al giungere della sera quando rientrai a casa.

    Come al solito l’intera casa era impregnata dell’odore dell’alcool, perfino le foto attaccate alle pareti parevano più scolorite. Mamma era in salotto seduta sulla poltrona e stava terminando un piatto di piselli e prosciutto.

    «Samanta! Mi hai fatto spaventare» sobbalzò vedendomi spuntare dalla cucina. «Non ti ho sentita entrare».

    «Dov’è Ginevra?» chiesi notando che il suo cappotto mancava dall’attaccapanni nel corridoio d’ingresso.

    «E’ andata da quella sua amica. Come si chiamava? Daniela. Sì, Daniela».

    «Di nuovo? E’ la quarta volta questa settimana. Non le hai detto niente?» lascia che il mio corpo si abbandonasse sulla poltrona di finta pelle, tra la portafinestra e la lampada rosa che due natali fa ci aveva regalato la nonna prima di morire.

    La mamma fece spallucce e prese un altro boccone, mentre con l’altra mano cambiò canale alla televisione. La canzone del Tg delle otto risuonò col suo motivetto melodico e snervante.

    «Mamma non credi che sia arrivata l’ora di fare qualche cambiamento?» chiesi esausta, come se quella domanda gliel’avessi posta un milione di volte.

    La mamma corrugò la fronte e volse i suoi occhi verde acqua verso i miei.

    Se non fosse stato per l’ombra attorno il suo sguardo e le rughe che la rendevano ancora più vecchia di quanto non fosse, si poteva dire che era quasi come guardarsi allo specchio. Capelli ramati con striature che ricordavano la terra di Siena della Toscana, corporatura esile e magra, i lineamenti gentili, definiti da un viso a forma di cuore e dagli occhi grandi e lucenti. Una luce che non brillava ormai da troppo tempo, per lei.

    «Sami, lo sai come la penso. Ne abbiamo già discusso. Se ne parlerà, ma più avanti. Non ora, ecco» rispose in tutta calma, facendo un gesto di impazienza con la mano.

    «Mamma..»

    «Guardiamo un po’ di tv, va bene? Prima che vai a lavorare» chiuse così la discussione com’era solita fare. Alzò il volume quando il primo servizio andò in onda. Le immagini di un politico si alternarono, mentre la voce profonda di un giornalista spiegava in sottofondo le nuove riforme elette dal parlamento italiano negli ultimi giorni. La politica era un discorso che non mi aveva mai interessato fino in fondo, né ci avevo mai capito molto, quindi non diedi molta retta alle parole del video.

      Pochi minuti dopo, però, il Tg mandò un nuovo servizio. Si parlava di un omicidio avvenuto proprio quella mattina a Milano. Il corpo mutilato di un uomo era stato ritrovato nel pomeriggio e il capitano della polizia che era intervenuta sul posto, spiegò che era stato necessario chiudere il castello Sforzesco e i suoi dintorni per degli accertamenti. Il Castello Sforzesco? Pensai allarmata intanto che una strana sensazione cominciava ad insediarsi nella mia testa.

    "Il corpo dell’uomo è stato rinvenuto nel fossato del castello stamani. Gli esperti ci spiegano che non hanno ancora idea di chi, o cosa, abbia potuto attaccare il povero malcapitato, dato i profondi morsi che dal collo terminano su tutto il torace. Non escludono, ovviamente, l’opera di un animale che avrebbe potuto aggirarsi nei pressi del castello Sforzesco. Ma il caso  non detiene ancora alcun dato certo. Solamente l’analisi effettuata in laboratorio dagli esperti svela che l’aggressione è avvenuta proprio questa mattina presto, intorno alle quattro. Pur essendo il corpo

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