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Cianuro di Argento
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E-book368 pagine5 ore

Cianuro di Argento

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Info su questo ebook

Silver, una ragazza canadese, si trasferisce a Londra per una serie di problemi a cui è dovuta andare incontro. Ricerca una vita migliore di quella che aveva, ma in realtà si rende conto che la pace che sta cercando deve essere raggiunta con parecchio sacrificio... In un mondo che va oltre ciò che noi comunemente siamo in grado di vedere, lei dovrà, per fortuna non da sola, riuscire a ristabilire un equilibrio spezzato sia dentro di sè sia nell'umanità intera. L'aspetterà una lotta estenuante e mille sofferenze, ma con un pizzico di speranza donatole dai suoi compagni, niente le sembrerà impossibile!

“Basta ascoltare il suono della campana di St. Hope, Silver.”

Al mondo ci sono bei colombi e bei corvi. I primi sono fortunati, poiché donati da madre natura di una grazia innata ed una fragilità deliziosa a cui nessun essere vivente potrebbe resistere. E poi ci sono i corvi che, solo quando irradiati dal sole e idratati dalla sofferenza del cielo, mostrano il loro splendore, così raro e precario che riuscirebbe ad abbagliare il più incandescente degli astri. Quello stesso corvo, ripugnante ogni giorno, sprigionava così tanto candore da spostare l’asse intorno al quale ruota la Terra. Io ho sempre preferito i bei corvi ai bei colombi, perché nella loro tenebrosa presenza brilla nel profondo uno spiraglio divino. E la visione di quello spiraglio, anche solo per un secondo, sa farti vivere nella speranza per tutta la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2014
ISBN9786050322576
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    Anteprima del libro

    Cianuro di Argento - Gabriella Silvia Spadoni

    AgCn

    Cianuro

    One for Nine, Nine for One

    Quando mi resi conto di non poter più fuggire da quella situazione mi presi quasi un colpo, era infatti troppo estranea al mio abituale essere. Sembrava tutto così irreale e fantastico che faticavo a credere che fosse vero, ma in ogni istante l’intensità della tensione e della pericolosità cresceva, e qualsiasi cosa era lecita in quella guerra, naturale o schietta. Uccidere della gente o farle semplicemente del male appariva più che semplice e nulla era considerato impossibile o non giusto. E qualsiasi cosa fosse accaduta, sia buona che non, sarebbe stata accettata così com’era, non ci si sarebbe minimamente sforzati a lottare per difendere ciò che più sta a cuore. Ogni evento già predetto e scelto da un enorme libro del destino da cui non si poteva fuggire. Una situazione molto vulnerabile, a parer mio. Ci voleva quella scintilla che avrebbe fatto innalzare la fiamma, serviva quel poco per scatenare la furia del molto. Ci voleva una persona che avrebbe dovuto rivoluzionare il concetto di vita stessa e le cose per cui bisogna lottare veramente… Quella persona fui io, insieme a loro, la Compagnia dei Nove.

    Dopo alcuni anni ho deciso di riunire la Compagnia per poter scrivere quello che ricordavamo, tutte le emozioni che il passato doloroso ci ha fatto provare, tutte le sventure a cui siamo ingiustamente andati incontro. Non siamo presenti fisicamente nella nostra completezza ma fate come se nessuno fosse assente, perché le nostre anime rimarranno in vita fin quando noi ci sentiremo uniti e pronti a combattere per il nostro scopo. Non rimpiangiamo di aver dovuto affrontare un dolore indescrivibile, perché solo grazie a questa sofferenza abbiamo imparato ciò che conta davvero. Grazie a tutto ciò abbiamo capito che anche se la forza non viene espressa esternamente esiste sempre, basta solo saperla chiamare. Soprattutto io che non ero a conoscenza delle mie potenzialità, proprio per questo prima, devo confessare, ero sempre stata la vittima del dito imponente e accusatorio del Destino. La solita tipa stralunata, la meno conosciuta della scuola con un’espressione da babbea, persa chissà in quale mondo immaginario. Una tipa col viso dai lineamenti molto dolci circondati da morbide onde non troppo lunghe di capelli biondo cenere chiarissimi, arcate sopraccigliari folte e scolpite, carnagione perlacea, labbra piene e vellutate e due enormi occhi grigio/azzurri (che diventavano via via più cupi).

    Secondo, abbiamo capito che non dovevamo essere al servizio degli altri, che potevamo unirci al coro delle urla di chi non è contento di ciò che accade, che non dovevamo arrenderci mai e che noi, sì, proprio noi, potevamo fare qualcosa che sembrava in apparenza impossibile, perché eravamo dannatamente forti come nessun altro.

    Ma non siamo qui per darvi insegnamenti morali troppo noiosi, o almeno, non direttamente. Siamo qui per raccontarvi una storia: non è però una di quelle storie che i vostri genitori vi leggerebbero per darvi la buonanotte, al contrario, è come quella favola un po’ troppo spinta o esplicita che viene saltata per non turbare i bambini. Ma questi ultimi si accorgono dello strano gesto dei due adulti e, spinti da un forte spirito di contraddizione e dal desiderio di volersi sentire più grandi, escono silenziosamente dai propri lettini e vanno a spiare le pagine proibite. Scoprono così grezzamente, direttamente, proprio come un colpo in pieno viso, quelle cose che avrebbero dovuto capire con gradualità, accompagnati da qualcuno che avrebbe pian piano sfilato dalle loro menti il velo dell’innocenza. Perciò, per evitare situazioni scomode, vi accompagneremo lentamente lungo il travagliato percorso della nostra storia, con la speranza che possa rimanere qualcosa di noi nel mondo. Tra quelli che sono qui presenti, sarò io a narrare le vicende in prima persona, perché io stessa mi trovai nella tragica situazione di essere catapultata in un mondo che non avevo immaginato nemmeno nei sogni più fantastici e vi renderò parte di quell’angosciosa sensazione di essere infimi ed insignificanti creature puntiformi in un mare di materia in movimento.

    Mi chiamo Silver Naïlo, ho ventitré anni. Sono nata a Ottawa, in Canada ma vivo a Notting Hill, un distretto di Londra, da ben quattro anni. Mia madre e mia sorella erano gli unici parenti che mi erano rimasti. Un incendio del giorno di Capodanno fece morire tutta la mia famiglia e nessuno rimase in vita tranne me e loro due. Mia madre ci definiva come un miracolo di Dio, effettivamente non so come riuscimmo a sopravvivere. Mia sorella non aveva nemmeno un anno, era così piccola, non capì neanche che cosa successe e solo poco dopo cominciò a chiederci con insistenza dove fossero tutti gli altri, ma loro erano sempre e costantemente in viaggio da qualche parte. Un lungo viaggio, diceva mamma. Avevano comprato un biglietto di sola andata per l’Oltre Mondo.

    Londra è molto lontana da Ottawa ed il trasloco è stato estremamente noioso, ma mia madre era per metà inglese e aveva nostalgia della sua patria. Per fortuna anch'io avevo una certa simpatia per l’Inghilterra.

    Dopo la notte dell’incidente, comunque, non fui più la stessa. Non ridevo più, mangiavo poco, passavo tutto il mio tempo interamente dedicandomi ai libri e alla musica. Se uscivo, era solamente perché dovevo comprare qualcosa al supermercato. Credevo di essere una ragazza come tutte le altre - forse con un passato più doloroso - ma non poi così diversa: introversa, poco loquace, accanita fumatrice, cocciuta. Non amavo luoghi pieni zeppi di gente, mi piaceva stare da sola e riflettere su me stessa, studiare, leggere, ascoltare la musica e cantare sigillata nella mia stanza. Poi qualcosa scombussolò la mia vita completamente. Anche se la mia diversità mi rendeva molto più fragile - avevo infatti paura di confrontarmi con gli altri - qualcosa mi fece capire che dovevo cambiare, che dovevo far sentire anche la mia voce e che dovevo lottare contro le ingiustizie nonostante venissi considerata così oscuramente strana e difficile da comprendere.

    Erano convinti che affidarmi uno stereotipo dopo il cambiamento cruciale sarebbe stato facile, che avrei eseguito i loro ordini solo considerando il fatto che doveva far parte della mia nuova indole. Dovevo essere come il Cianuro, insinuarmi con prepotenza nella coscienza di una persona e succhiarle la linfa vitale lentamente, vedendola soffrire. Avete mai pensato di somministrarvi del Cianuro? Sembra un’idea accattivante, il modo migliore per disintegrare tutti i problemi. Lo vedete lì immobile che vi aspetta, sempre pronto a darvi una mano, così avrei dovuto agire io. Torturare psicologicamente la preda e farle desiderare con così tanto ardore la somministrazione del veleno che mi sarei offerta volentieri, da buona padrona che accontenta i capricci e le voglie di un animale domestico. Ma non fu esattamente così, con loro grande delusione. Io fui come il Cianuro, sì, che lottava contro le disgrazie e che si autosomministrava alle persone crudeli che schiacciavano con arroganza quelle più deboli. La Compagnia dei Nove fu come il Cianuro. Il Cianuro della Giustizia.

    Tutto questo cominciò nel piccolo college che iniziai a frequentare, situato a tre passi da casa mia, dai muri spogli e dall’atmosfera terrificante. Ricordo benissimo la data, era il 20 Maggio del 2009. Mi ero trasferita a Notting Hill da pochissimo tempo e mi sentivo completamente a disagio. Già l’aria di quella nuova città sembrava profumare di qualcosa di diverso eppure, scoprii che appartenevo a quel luogo più di quanto immaginassi. Ma infondo… Niente è come sembra, giusto? Beh, parlando di mia madre. Lei era così eccitata di andare nella città dove non esisteva quasi per niente la parola neve. La prima cosa che pensai è che forse avrei avuto un po’ nostalgia della neve, infatti così fu. Ma incontrai qualcuno che mi fece dimenticare la nostalgia di casa così tanto che alla fine fu proprio la mia casa ad avere nostalgia della mia malinconia.

    The End

    Notting Hill non era esattamente un posto tranquillo e pacifico, anzi. Sempre pieno di turisti scatenati ed incuriositi che affollano le strade come un gregge e ad essi si uniscono il fastidioso rumore delle macchine fotografiche all’ultimo grido (con tanto di obbiettivo rimovibile) e l’accecante bagliore del flash. Portobello Road, poi, durante il weekend ed il famigerato mercatino è invivibile; mi rende tutt’ora insofferente delle volte. Essendo già quasi perennemente spossata per indole, l’atmosfera caotica non aiutava per niente. Perlomeno durante la settimana e al mattino si poteva passeggiare in pace senza essere investiti da qualcuno.

    Per fortuna, quando arrivammo era di lunedì mattina, verso le tre ed i viali erano completamente deserti e silenziosi. E non solo una certa pace si diffondeva per le strade, ma potevamo anche godere del meraviglioso spettacolo dell’alba, uno spettacolo senza precedenti. Il cielo si era appena tinto di un delicato rosa cipria e qualche pennacchio color arancio tenue incorniciava il grande quadro. Un po’ più lontano, dietro ad una casa rosso fuoco, si nascondeva timidamente il sole, pronto a danzare in cielo e a mostrare il suo brillante manto. Appoggiai il mio bagaglio (uno dei tanti) sul bordo del marciapiede e mi sedetti sopra per ammirare il panorama. L’aria frizzante delle prime ore del giorno mi pizzicava appena la pelle scoperta, facendomi rabbrividire. Ero stanca ed affamata, ma ciò non mi fece affatto distogliere l’attenzione da quell’alba così affascinante. Un leggero venticello sorvolò il mio giubbotto in pelle color cioccolato ed i jeans attillati, facendo rizzare i peli oltre il bordo del merletto bianco della mia canotta. Poi, mi accovacciai a sistemare gli anfibi slacciati (sui quali avevo anche rischiato di inciampare in aeroporto) e afferrai il pacchetto di sigarette che avevo posto nella tasca esterna. Non c’era niente di più rilassante di un’ottima sigaretta fumata in un luogo quasi esotico e così silenzioso. Chiusi distrattamente gli occhi.

    (Hanno bisogno di te, piccola. L’argento oramai si paga caro…)

    Ero solita sentire delle voci ogni qualvolta mi rilassassi, ma non avevo mai capito chi mi avesse detto quelle parole e in che occasione. Le sentivo e basta.

    Un rumore sempre più assordante di scarpette in corsa mi distolse dai miei pensieri e mi fece voltare: la mia sorellina, Eynis, correva allegra per le strade con uno zainetto rosa in spalla.

    Silver, guarda il sole!

    Io sorrisi ed annuii. So bene che bello è un aggettivo così pateticamente usato che quasi ha perso il suo significato originale, ma in quel momento non me ne venivano altri in mente per descrivere tutto ciò. Era bello.

    Una seconda ondata di passi si unì alla prima, ma questa era più cauta e paziente, era di mia madre. I suoi meravigliosi capelli color ruggine le ondeggiavano sui fianchi ad ogni passo che faceva e lei ci sorrideva con la sua solita cordialità incondizionata, in tutto il suo splendore.

    Benvenuti a casa. Mormorò dolcemente e saltellò aldilà del cancello prendendo Eynis per mano. Io, invece, mi presi dell’altro tempo per terminare di fumare, quindi, mi rannicchiai contro la valigia e inspirai lentamente. Due secondi prima che potessi gettare il mozzicone, e sentendomi osservata da qualcuno, mi guardai attorno e notai in lontananza una selvaggia chioma bionda ed un paio di occhi scuri scrutarmi con insistenza. Spaventata, afferrai le mie cose e corsi in casa, lasciandomi alle spalle Frate Sole che già iniziava il suo turno lavorativo con entusiasmo.

    La Lettera

    Era il mio primo giorno di college, ricordo benissimo quanto fossi tesa. Avevo paura di non essere accettata dagli altri compagni e di non riuscire a star dietro con i programmi, le solite paure che si hanno quando si è costretti a cambiare istituto. Mi svegliai al mattino presto con la testa che mi doleva e con lo stomaco in disordine, il tutto accompagnato dal battito leggermente accelerato. Ma soprattutto con un profondo odio verso il rumore angosciante della sveglia. Feci colazione velocemente e mi vestii con quello che avevo preparato una settimana prima per quell’occasione, la consideravo davvero speciale e volevo sentirmi a mio agio nel miglior modo possibile. Poi, mi infilai distrattamente nella macchina di mia madre, che aveva insistito ad accompagnarmi per farmi evitare l’affollata metropolitana, e grugnii assonnata di partire alla svelta, non volevo certo fare tardi il primo giorno.

    Ad Ottawa l’università distava ben mezz’ora da casa mia, perciò arrivarci in un baleno mi sembrò così strano. Così insolito.

    Scesi cercando di utilizzare tutte le forze che avevo, presi la mia borsa e mi incamminai verso l’ingresso scolpita dagli sguardi degli altri ragazzi. In silenzio, a testa bassa continuavo a posporre un piede all’altro faticosamente, mentre un leggero venticello mi scompigliava i capelli ed i miei occhi acquosi guardavano attenti i ciuffi volare leggiadri. L’essere alta un metro e settantasei circa, però, non mi permetteva di nascondermi più di tanto, nonostante la mia corporatura fosse esile ed asciutta. Sollevai un attimo lo sguardo, sperando che nessuno più mi stesse squadrando, ma purtroppo mi accorsi del contrario. Infastidita, presi a fissare tre ragazzine un po’ distanti da me perché sembrava che stessero ridendo sul mio conto, quando d’un tratto piombai contro qualcosa, o meglio qualcuno, e mi lasciai sfuggire un gemito di stupore dalla bocca screpolata dal freddo. Rivolsi gli occhi al cielo e impallidii: mi ero scontrata contro un ragazzo bello da togliere il fiato. La carnagione chiara, che risaltava alla luce del sole, era incorniciata da una grezza barbetta altrettanto chiara, i capelli erano lunghi più o meno fino alle scapole e biondicci, lo sguardo misterioso, attraente. Per un momento mi morirono le parole in gola, ma poi fui in grado di balbettare un paio di miagolii, sommersa nell’imbarazzo: Scusami, non ti avevo visto.

    Lui, senza degnarmi di una risposta, abbozzò un sorriso e continuò a camminare lasciando che il vento gli accarezzasse i capelli. Ancora presa dal ricordo del suo sguardo, continuai a seguirlo senza sapere dove stessi andando e pedinai delle ragazze che sembravano avere la mia età.

    L’edificio appariva poco curato e vecchio: delle piccole crepe spuntavano di qua e di là interrompendo il giallognolo statico delle pareti. I muri erano mortalmente martoriati dal tempo e si sentiva un odore particolare nell’aria, l’odore di qualche oggetto antico, che si spargeva per i corridoi. La mia prima lezione era quella di matematica, Analisi I (una delle mie materie preferite assieme alla biologia, filosofia e l’astrofisica) perciò imboccai lo stretto passaggio affollato che portava all’aula. Dopo un paio di minuti di assetata ricerca, la trovai e mi intrufolai tra una massa di ragazze petulanti. Appena in classe, mi appollaiai sul primo posto libero che i miei occhi avevano captato: l’aula era mezza vuota. Analisi I era notoriamente poco frequentata a causa della sua estrema difficoltà.

    Continuai a muovermi nervosamente sul posto finché una professoressa dall’aria materna non entrò nella stanza facendo zittire tutti gli studenti. Affianco a me non c’era ancora nessuno e sentii diffondersi dentro il mio cuore un enorme sentimento di solitudine. Con voce dolce, l’anziana donna iniziò a parlare: Ragazzi, silenzio per favore. Prima di tutto, diamo il benvenuto alla nostra nuova compagna, Silver Naïlo.

    Arrossii quando vidi che tutti si girarono dalla mia parte.

    Inoltre, diamo il benvenuto anche a cinque ragazzi provenienti da un paesino di cui non ricordo il nome in Danimarca. Resteranno in questa sede universitaria a studiare per un po’ per un gemellaggio.

    A quel punto entrarono cinque ragazzi uno dopo l’altro e si sedettero con grazia sulle sedie che avevano posto proprio per loro nella parte più alta della stanza. Erano tutti chiari di carnagione e avevano gli stessi occhi neri e penetranti, sembravano costruiti col copia-incolla poiché erano identici fra di loro. Avvampai quando vidi tra di loro il ragazzo con cui mi ero scontrata vicino al cancello della struttura e lui evidentemente se ne accorse, perché rivolse al biondino seduto accanto a lui un sorriso beffardo. La classe si aprì in un mormorio continuo, le ragazze non facevano che esprimere commenti sui cinque appena arrivati e su chi preferissero di più, mentre i ragazzi discutevano su… di me. Patetici.

    La lezione, comunque, terminò in un baleno, tra discorsi di benvenuto e chiacchiere per sapere qualcosa in più su di noi, le new entry, ma cinque minuti prima che l’ora finisse la professoressa continuò a parlare: Ho un’altra novità che gradirete sicuramente molto, o perlomeno molto di più di conoscere i prossimi appelli d’esame. Si diffuse una risatina generale. Questa sera si è organizzato un party nel locale di Charlie, per dare il benvenuto ai bellissimi nuovi arrivati. E’ tutto gratis e ovviamente, siete tutti invitati. Disse queste parole e mi fece l’occhiolino ed io ricambiai l’affetto con un sorriso.

    La donna tossì rumorosamente e ci augurò una buona giornata per avvisarci che era ora di cambiare l’aula e materia. Il triste silenzio mi fece girare la testa perché mi mancava già moltissimo il suono dolce e rilassante della campanella della mia vecchia scuola ad Ottawa e gli schiamazzi degli adolescenti per i corridoi. Il corso successivo era quello di Anatomia laboratoriale, ma come primo giorno lo strano professore dall’aria stanca decise di risparmiarci la fatica e ci fece rimanere in classe a chiacchierare un po’. D’un tratto, mentre discutevamo sui modi per comprendere come interpretare in chiave Manierista alcuni eventi della vita (Strana discussione da fare con un professore di anatomia, starete pensando, ma quell’uomo era davvero molto particolare. Non l’ho più rivisto dopo il mio ritorno al college passate le vacanze estive. I miei compagni di corso dicevano tutti convinti che fosse schiattato di dolore per la morte della moglie, che era un cocainomane da tantissimo tempo e che il direttore dell’istituto stava pensando di licenziarlo da qualche anno. Non so dirvi la verità, nessuno conosceva bene la sua storia né la sua vita, non erano nemmeno sicuri sul suo vero nome. Lo chiamavano Dee e basta.), vidi il giovane che mi aveva colpito allontanarsi dalla classe e mi alzai istintivamente con la scusa di dover andare al bagno. Riuscii a scovarlo da lontano senza perdermi, ma all’improvviso sentii una fitta dolorosa alla spalla destra, mi sbilanciai e caddi per terra con un tonfo. Presa da un improvviso attacco di isteria, digrignai i denti e mi preparai psicologicamente a riempire di botte chi mi avesse fatta cadere, ma mi addolcii come un gattino quando vidi il volto del ragazzo, di quel ragazzo che mi aveva stregata.

    Ma allora è un vizio! mi disse.

    Non capii se il suo tono fosse allegro o infastidito, perciò risposi freddamente: Sei stato tu a piombarmi addosso.

    Adesso siamo pari, no? mi chiese, divertito.

    Lo guardai, sbalordita, e mi alzai di scatto, avviandomi con passo garibaldino e deciso verso il bagno delle ragazze.

    Ehi, aspetta! mi urlò lui, azzardando qualche passo nella mia direzione.

    Mi bloccai all’istante e girai la testa con finto fare disinteressato.

    Mi dispiace di averti fatta cadere.

    Sorrisi un po’ confusa e mi avviai ancor più velocemente: vicino alla porta c’era appoggiata una ragazza dai lunghi e nerissimi capelli ricci ed un ragazzo coi capelli castani scuri e lunghi e gli occhi a mandorla. Rivolsi un sorriso sommersa dalla timidezza, ma prima che potessi rifugiarmi all’interno del bagno, la ragazza mi fermò:

    Silver! Piacere, sono Samantha! esultò urlandomi nell’orecchio.

    Ciao. sussurrai, accennando un sorriso.

    Io sono Ryuk, suo fratello.

    Rimasi sbalordita, erano completamente diversi. Samantha aveva la tipica bellezza mediterranea: scura di carnagione, capelli scuri, occhi scuri; mentre Ryuk sembrava provenire dall’Oriente. Attonita, li fissai per un po’, poi chiesi incuriosita: Voi siete di qui?

    No. mi risposero all’unisono, Veniamo dal Giappone. Nostra madre è americana, nostro padre giapponese.

    I giapponesi mi erano sempre stati simpatici.

    Erano passati ben dieci minuti da quando ero uscita dall’aula e per non fare la fine della dispersa, salutai i miei due nuovi compagni e ritornai dov’ero, attirando di nuovo l’attenzione di quel ragazzo con cui mi ero scontrata e del suo amico biondo. Per fare la figura della reincarnazione perfetta dell’indifferenza, distolsi lo sguardo, inviperita, e sedetti al mio posto.

    Presi il mio quadernetto dove scrivevo i miei pensieri e iniziai a rovesciare una dopo l’altra le frasi che mi venivano in mente, mie riflessioni, ma soprattutto frasi delle mie canzoni preferite. La musica era una delle ragioni fondamentali della mia vita, era la mia unica amica fidata, un’amica che non avrebbe mai osato farmi soffrire o tradirmi. Devo confessarvi che prima che tutto questo iniziasse, era un mio grande desiderio proprio quello di scrivere un romanzo: non sono mai stata molto in grado di parlare, di esprimermi, di confidarmi e spesso preferivo mettere per iscritto tutte quelle parole che non avevo mai avuto il coraggio di dire. L’ironia del destino ha voluto che, sì, scrivessi un libro, ma totalmente diverso da ciò che avevo previsto e con l’aiuto di altri ‘autori’ inaspettati.

    Sobbalzai sulla sedia quando Samantha piombò all’improvviso nel posto affianco al mio e iniziò a chiedermi tante cose su di me, sulla mia famiglia e la mia amata Ottawa. Stordita dalle numerose domande, sbadigliai istintivamente ed iniziai a rispondere, catturando la completa l’attenzione della mia nuova amica.

    Le altre ore passarono in fretta, non so se dire fortunatamente o no (Infondo studiare non mi è mai dispiaciuto!) e allo scoccare delle tre in punto sfrecciai fuori dal college e mi precipitai nella prima stazione che vidi. Seguendo i segnali, mi appollaiai su una panchina aspettando la metro della Victoria Line. Per far passare un po’ di tempo, mi accesi una sigaretta, e la fumai tutta ad occhi socchiusi, lasciandomi cullare dalla sensazione di leggerezza che provoca il tabacco inalato.

    (L’argento oramai si paga caro…)

    Non appena arrivò il mezzo, scattai in piedi e corsi al suo interno, scelsi uno degli ultimi posti, mi accomodai e rimasi in silenzio a guardare il panorama della stazione deserta. Rimasi sorpresa quando accanto a me si sedettero quel ragazzo con cui mi ero scontrata ben due volte e il suo amico biondo; io feci finta di niente, feci finta di non sentire il cuore battere più forte del normale o le gambe che mi tremavano.

    Ciao. disse lui. Io gli sorrisi in risposta.

    Non ho avuto neanche il tempo di presentarmi. Sono Rein, Rein Cavanagh e lui è Marko Cavanagh. si affrettò.

    Era come se a fatica riuscisse a dire il suo nome, come se fosse una cosa proibita. Quel ragazzo mi incuriosiva sempre di più.

    Oh, bene. Piacere, sono… Silver. esitai.

    I due si scambiarono uno sguardo perplesso che io ignorai.

    La metro era arrivata vicino casa mia, perciò decisi di scendere e di avviarmi verso casa a piedi. Mentre continuavo ad attraversare l’affollato vagone, sentii la rauca e bassa voce di Marko che rimproverava Rein per aver pronunciato ad alta voce i loro nomi. La situazione mi sbalordì non poco e pensai che fossero degli infiltrati, o dei criminali, o solamente tipi pericolosi che non volevano farsi riconoscere, perciò decisi che era meglio farmi gli affari miei e stare alla larga da loro. In realtà non riuscii a smettere di rimuginare su quei ragazzi per tutto il pomeriggio.

    Tornata a casa vidi mia madre che cucinava con grande perizia un piatto italiano mentre la mia piccola sorellina, Eynis, guardava un po’ di televisione.

    Era tutto così diverso da Ottawa. Uno dei miei difetti più grandi era proprio quello di essere altamente nostalgica, sentivo moltissimo la mancanza della mia vecchia città che conoscevo come le mie tasche, la mia vecchia scuola, la mia migliore amica Avril adesso così distante da me. Sentivo il bisogno di tutto ciò che mi era stato portato via improvvisamente. La parte negativa dell’essere nostalgici è proprio che le cose che prima hai sempre dato per scontato iniziano a piacerti davvero quando ormai lei hai perse per sempre.

    Entrai in camera mia al secondo piano e guardai persa i muri bianchissimi che la circondavano.

    I muri della mia vecchia camera erano bordeaux, pensai con un velo di tristezza che mi circondava e mi separava da tutto il resto.

    Decisi di non perdere più tempo a ricordare come erano le cose prima, ormai era tutto diverso e mi ci dovevo abituare, tanto non avevo un’altra scelta. Quindi, mi stesi sul letto, imponendomi un lungo riposo, e socchiusi gli occhi. Improvvisamente mi sentii così stanca e vulnerabile…

    Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, la vibrazione del mio cellulare sul comodino mi fece spaventare moltissimo. Era Avril, mi stava chiamando. Risposi e urlai il suo nome.

    Ti avevo promesso che ti avrei chiamata, Shy, ed ora eccomi qui! cinguettò lei.

    Avril era solita chiamarmi ‘Shy’, un soprannome che aveva inventato lei solo e soltanto per me.

    Sto malissimo qui, Avril. dissi di nuovo in preda al panico e alla tristezza.

    Shy, suvvia, non dire così…

    Voglio ritornare da te! Mi sento chiusa in un gabbia!

    Andrà tutto bene. sussurrò.

    Restammo a parlare per mezz’ora circa, poi Avril mi disse, felice:

    Devo andare a fare shopping, ci si risente! Prima che potessi rispondere riattaccò ed io rimasi a guardare il cellulare in silenzio per qualche minuto. Ciao, Avril.

    Mi ristesi sul letto guardando persa il soffitto e per un attimo mi invase il suono della tenera voce della ragazza, proprio come se fosse vicina a me, ma non vedevo nessuna immagine. Era meraviglioso, durò solamente per qualche minuto, ma era come se fosse un’eternità. Un brusio continuo, un’insistente vociare che mi stordì letteralmente. Un Ti voglio Bene sussurrato e poi… Poi d’un tratto mi ritrovai esausta, come se avessi consumato tutte le forze che avevo, e chiusi gli occhi, con la fronte sudata. Mi addormentai soffocando un gemito di stanchezza. Le ore passavano senza che io me ne accorgessi, i miei sogni quel giorno furono tormentati da immagini senza senso che giocavano nella mia mente, facendola sprofondare in un irreversibile stato di confusione. Mi rotolavo qua e là sul letto, mi sentivo così agitata.

    Argento… Caro…

    Erano le otto di sera quando incominciai cautamente a riaprire gli occhi, avevo la fronte imperlata di sudore e perciò, spaventata, rimasi lì immobile per cercare di far ritornare il respiro regolare. Il telefono a qualche passo da me squillò di nuovo, perciò mi alzai brontolando e sollevai la cornetta, ancora un po’ stordita: Tesoro, sono la mamma. Sono uscita a fare shopping con Eynis, volevo solo svegliarti e ricordarti di andare alla festa organizzata dall’università. Mi sembra un ottimo modo per fare nuove amicizie.

    Tutti a fare shopping, dannazione.

    Ah, giusto, la festa… Grazie, ma non credo di andarci, mamma.

    "E invece ci andrai! Ti ho preparato

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