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Una stagione in provincia
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E-book235 pagine3 ore

Una stagione in provincia

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Info su questo ebook

Un campione dalla carriera troncata da un grave infortunio; la decisione urgente di trasferirsi in un lega minore, una desolata cittadina nordica e il compito quasi impossibile di creare coesione in una squadra nata dal nulla pochi mesi prima.
La nuova destinazione attende il protagonista con sfide più ardue di quelle che egli è pronto ad affrontare, ma la sua determinazione gli imporrà di andare avanti anche a costo di mettere in gioco le sue stesse certezze.
Un dramma sportivo scritto con ritmo incalzante, sullo sfondo di uno straordinario scenario naturale, capace di trasformare le inclinazioni e il destino di un individuo.
LinguaItaliano
Data di uscita14 nov 2014
ISBN9788898555109
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    Anteprima del libro

    Una stagione in provincia - Isabella Rampini

    metri.

    Capitolo 1

    Per caso, a New York

    Alle 16.32 di quel pomeriggio di fine ottobre, quando mancavano dodici secondi alla fine della partita, gli avversari conducevano 26 a 21 e i padroni di casa avevano possesso di palla a 40 yards dalla linea di meta. Winston Ridgway, come sempre, era su tutte le furie.

    Allenava i New York Mohicans da dieci anni e da venticinque era capo allenatore nella NFL; aveva cambiato tre squadre, ogni volta migliorando la sua posizione e retribuzione; aveva disputato 498 partite, conseguito 271 vittorie e subito 227 sconfitte ma, nonostante tutta questa esperienza, non aveva ancora imparato a perdere senza lasciarsi travolgere ogni volta da una stizza devastante e corrosiva. Era alto, magro, raffinato e altezzoso. Quel pomeriggio assolato di ottobre, nel gremito Met Life Stadium di New York, Winston Ridgway era in collera con una pletora di persone.

    Prima di tutto era infuriato con il suo quarterback, il texano Steve Marston. Ventisei anni, nel corso delle sue due prime stagioni da professionista era stato relegato tra le riserve dei Mohicans; poi circa dodici mesi addietro era entrato in campo a sostituire il titolare infortunato e, settimana dopo settimana, mentre l’altro cercava di rimettersi, Marston senza lasciare spazio a dubbi gli aveva soffiato il posto.

    Oggi, sotto di cinque punti, dodici secondi alla fine e a 40 yards dalla linea di meta, non c’era altra alternativa che tentare il tutto per tutto con un difficilissimo lancio lungo, che Steve Marston non sarebbe mai stato capace di eseguire con la necessaria precisione. Era un lanciatore maledettamente scarso, rispetto alla media della NFL. Di sicuro era un ottimo leader, uno stratega eccellente, scaltro nella scelta degli schemi di gioco e abilissimo nel prevedere le mosse dei difensori avversari per disorientarli; infine era agile, veloce e audace. Ma in quel momento i Mohicans avevano bisogno di un lanciatore infallibile e Steve Marston non lo era.

    Winston Ridgway, in preda ad una crisi di astinenza da nicotina, che non migliorava certamente il suo stato d’animo, lanciò un’occhiata furibonda al quarterback di riserva, che stava seduto in panchina a capo scoperto sotto il sole, intento a masticare energicamente il suo chewing gum. Quello sì che era un lanciatore con i controfiocchi. Alto un metro e novantasei, tredici centimetri più di Marston, Paul Bennet in allenamento sparava cannonate a 40 o 50 yards, che centravano il bersaglio nel raggio di una spanna. In quel momento gli si leggeva in faccia l’ansia che lo tormentava; sebbene non toccasse a lui eseguire quel lancio, era già nel panico; bastava l’idea per mandarlo in crisi.

    Perciò il coach era infuriato con il suo quarterback in seconda, quello che aveva il braccio ma non la testa, al contrario del titolare.

    Allora pensò ai primi dieci quarterback della classifica dell’anno in corso; poi salì ancora di posizione e pensò ai primi cinque; se li vide davanti uno ad uno, quelli che avevano il braccio e la mente, quelli che avevano dalla loro parte tutte le statistiche e la valutazione delle qualità intangibili. Winston Ridgway si infuriò con tutti loro, perché nessuno di essi si sarebbe mai degnato di giocare in una squadra di quelle che poteva guidare lui.

    Poi si arrabbiò con i ricevitori dei Mohicans, che stavano per lasciarsi sfuggire l’imminente lancio maldestro di Steve Marston; quindi si infuriò con i migliori ricevitori della lega, quelli capaci di fare miracoli per agguantare la palla e rimediare con la loro abilità alle approssimazioni del quarterback, ma che non sarebbero mai finiti a militare sotto le sue ali.

    Pensò ai difensori della squadra avversaria, che nel giro di qualche secondo probabilmente sarebbero stati in grado di intercettare il lancio deficiente di Steve Marston, afferrare l’ovale prima dei ricevitori dei Mohicans, ai quali era destinato, rovesciare il turno del possesso di palla e chiudere la partita con una pesante umiliazione per la squadra di Ridgway. Allora si arrabbiò con tutti loro.

    Ma soprattutto e prima di ogni altro, si arrabbiò con sé stesso, perché in venticinque anni di ammirata e invidiata carriera non era mai riuscito ad arrivare ai massimi livelli, aveva raggiunto i playoffs solo sette volte, non era stato ancora capace di cambiare né il braccio di Marston né la testa di Bennet e non avrebbe mai vinto il Superbowl. A differenza del suo collega che stava sull’altro lato del campo, che vinceva 8 partite su 10 e in quel momento saltellava e sbraitava tutto eccitato per l’ennesima, imminente vittoria.

    Gli si avvicinò Skinner, coordinatore dell’attacco dei Mohicans:

    - Cosa fai Winston, chiedi il time-out?

    - È ovvio. Anche se servirà a poco, magari solo a fargli sentire la mia voce più da vicino e concedergli un minuto di pausa prima dell’azione finale. Cosa gli dico?

    - Digli di segnare sette punti.

    Quel bastardo di Skinner aveva ancora voglia di scherzare, invece di essere infuriato come lui per la sconfitta che stavano per subire. Ridgway gli girò bruscamente le spalle, dispose le mani a formare una T ed esibì il gesto agli arbitri, che concessero il time out.

    Gli undici uomini dell’attacco dei Mohican lasciarono il campo e si radunarono intorno a lui.

    - Non abbiamo tempo per il terzo down e ancora meno per il quarto - disse con il suo consueto atteggiamento stizzito - non possiamo permetterci di sprecare altri secondi nel tentativo di guadagnare terreno. Adesso, da qui, dobbiamo tentare il touchdown.

    Si rivolse al suo quarterback, Steve Marston, che in quell’istante si stava slacciando il casco.

    - Eseguirai il lancio lungo - proseguì Ridgway - sulla sinistra, perché è il lato dove ti riesce meglio. Per di più loro sulla destra hanno Connolly, che è troppo forte, troppo pericoloso. Harley, Gregg e Taylor si schiereranno tutti a sinistra. È lo schema shotgun, five-wide, bunch left, che provate ogni giorno. La palla dovrà raggiungere il ricevitore libero al limite della endzone, o meglio ancora dentro di essa. Okay? È tutto chiaro? Siete pronti?

    - No, non va bene - replicò Steve Marston, che nel frattempo si era tolto il casco ed esibiva i capelli corti schiacciati e il viso trafelato, con due vistosi segni scuri tracciati sopra gli zigomi.

    Il coach dovette fare uno sforzo immane per non dare in escandescenze. Per un attimo si era dimenticato che il suo mediocre lanciatore era anche poco docile, polemico e sempre pronto a ribattere. Ridgway aveva una personalità formidabile e gli serviva tutta, per tenere a bada quel ragazzino pestifero. Serrò le mascelle, strinse gli occhi, sentì un dolore sordo al petto, ma mantenne il controllo di sé.

    Il quarterback, del tutto indifferente alle reazioni soffocate del suo allenatore, proseguì fremente ad esporre le proprie ragioni:

    - Non ho un lancio abbastanza alto, coach, per tentare un passaggio dalle quaranta yards, non l’ho mai avuto. Se ci provo, abbiamo un’altissima probabilità di essere intercettati. Qui rischiamo di subire un altro touchdown, anziché fare noi il punto. No, loro si aspettano il lancio lungo e proprio sulla sinistra. Lo schieramento va bene, tre ricevitori da quella parte. Ma noi invece dobbiamo cambiare direzione, subito, per disorientarli e coglierli impreparati. Non abbiamo altre possibilità. Sto parlando dello schema shotgun, five-wide, scramble right. Inizierò pompando la palla verso sinistra; invece non lancerò, correrò verso destra, avanzando lateralmente, fino al confine della linea di scrimmage e da lì lancerò al ricevitore che vedrò più libero. Poi sarà affar suo correre quelle poche yards che gli mancheranno per entrare nella endzone.

    Ridgway si rilassò leggermente:

    - Sì, forse rischieremo meno l’intercetto, ma sarà più pericoloso per te. Mentre correrai verso destra, sarai molto esposto nonostante la protezione delle due guardie e del tackle, che ti seguiranno; ti ci vorranno almeno un paio di secondi in più per liberarti della palla e la probabilità che riescano a placcarti prima del lancio è altissima.

    Marston portò lo sguardo rapidamente sui suoi uomini di linea:

    - Voi sarete capaci di trattenerli. Sono nelle vostre mani. Fate un buon lavoro, perché stiamo per vincere.

    Winston Ridgway conosceva quella sensazione. Steve Marston era titolare soltanto da un anno, dopo i primi due passati tra le riserve, ma quel presentimento che sapeva trasmettere a ogni uomo della squadra, quell’assoluta fiducia nelle scelte del quarterback, insieme alla smania di andare incontro a una vittoria imminente, si era ripresentata puntualmente a ogni partita che lui aveva giocato dall’ottobre dell’anno prima, quando era sceso in campo per sostituire il titolare infortunato e aveva dimostrato di sapere fare meglio di lui.

    Ridgway non poteva rompere quell’equilibrio delicato a soli dodici secondi dal termine.

    - Okay - disse commentando laconicamente la tattica di Steve Marston.

    Il quarterback afferrò il casco e se l’accostò al capo:

    - Mi servono sette secondi in tutto, prima del lancio. Taylor, che dal lato sinistro del campo devierà all’improvviso verso il centro, è il favorito. Per sette secondi ho bisogno che riusciate a tenerli buoni. Poi, per altri cinque, è sufficiente che li teniate lontani da Taylor, o dal ricevitore che avrò scelto. Okay? Andiamo.

    Infilò la testa nel casco e, mentre stringeva i lacci, Ridgway lo trattenne afferrandolo per un gomito. Gli altri si stavano già allontanando verso la linea delle quaranta yards. Steve Marston si voltò, con le pennellate di nero che emergevano al di sopra della gabbia della visiera.

    - Fai attenzione! - gli disse Ridgway severo - questa è solo una partita. Abbiamo tutto un campionato ancora da giocare.

    Vide lo sguardo dell’ex riserva distendersi fiducioso, in un

    abbozzo di sorriso:

    - Sarò prudente.

    Ridgway lo lasciò andare e, con un cenno del braccio, avvisò gli arbitri che la partita riprendeva.

    Le due squadre si schierarono, con le linee a contatto, faccia a faccia, pronte ad aggredirsi.

    Il cronometro ripartì per quei pochi secondi che restavano da giocare. La palla scivolò tra le gambe del centro, Marston la afferrò, compì cinque passi indietro, sorvegliando allo stesso tempo lo spazio che gli stava dinanzi. Mancavano dieci secondi. I tre ricevitori di sinistra erano già scattati in avanti e i difensori avversari si erano proiettati sullo stesso lato per ostacolarli. Il quarterback si fermò, staccò una mano dalla palla e fece sfilare l’altra accanto alla guancia. Nove secondi. Il lancio lungo, che tutti si aspettavano, stava per compiersi. Allora vide lo spazio libero alla sua destra, come aveva chiesto. Ritirò il braccio, precipitandosi da quella parte. L’unico ricevitore a destra era già lontano e stava impegnando il cornerback designato a difendere quello stesso lato. Steve Marston proseguì. Vide il numero 37 della difesa avversaria scagliarsi verso di lui: era quello che voleva, in questo modo avrebbe lasciato in pace i suoi ricevitori. Stimò il tempo che aveva a disposizione prima dello scontro. Un secondo e mezzo: gli bastava. Mentre valutava tutto questo, non aveva mai perso di vista i movimenti dei suoi uomini e degli avversari più lontani, a ridosso della endzone. Taylor aveva già abbandonato la traiettoria rettilinea e stava correndo verso la zona centrale, per raggiungere un breve corridoio verticale libero, che si sarebbe chiuso da lì a poco.

    Quello che invece Steve Marston non vide, o forse preferì non vedere, fu che uno dei suoi angeli custodi, Jeffrey Skelton - il più vicino a lui - era stato buttato a terra. Aveva tentato di rialzarsi, ma un altro avversario lo aveva di nuovo rispedito giù; poi Jeffrey si era battuto con quest’ultimo per riuscire a rimettersi in piedi e ci era anche riuscito, ma ormai aveva perso i secondi necessari per riuscire a proteggere efficacemente il suo quarterback. L’avversario con il numero 94, un poderoso defensive end, si era lanciato nello spazio vuoto alle spalle del quarterback dei Mohicans, con il proposito di schiacciarlo in mezzo tra lui e il 37 ed impedirgli così il lancio.

    Marston era sul punto di arrestare la sua corsa e si stava orientando verso il bersaglio. Sette secondi alla fine. Si fermò, liberò il braccio sinistro, portò il peso sulla gamba destra e scagliò la palla proprio verso un punto, lungo la traiettoria di Taylor, di poco più avanzato rispetto la zona che il ricevitore stava calcando in quel medesimo istante. Poi ci fu lo scontro. Il 37 si era appena chinato in avanti, allo scopo di colpirlo con il casco all’altezza del petto e contemporaneamente afferrarlo per i fianchi per trascinarlo a terra, prima che potesse lanciare. Il 94 invece si abbattè contro la sua schiena. Marston aveva ancora il braccio teso in avanti e, per effetto dell’urto dell’uomo dietro di lui, picchiò violentemente il pugno contro il casco del difensore che lo stava caricando di fronte. La testa del numero 37 gli scagliò il braccio teso indietro, mentre il 94 gli spinse il busto avanti. Poi caddero tutti e tre. Steve Marston si riversò sul fianco, l’uomo di 130 chili alle sue spalle rovinò su di lui, mentre la safety di fronte inciampava sui due corpi già a terra e finiva per perdere l’equilibrio al di là di essi.

    Il mastodontico numero 94 fu l’unico a rialzarsi con le sue forze. Il 37 pareva tramortito. Steve Marston, disteso sulla schiena, gridava:

    - Ha preso la palla Taylor?! Ce l’ha fatta?!

    Il 94 gli si accostò e, torreggiando su di lui, fu il primo a dargli risposta:

    - Sì, l’ha presa. È touchdown. Avete vinto.

    L’espressione di giubilo di Steve Marston si trasformò rapidamente in una smorfia di dolore e prese a lamentarsi. Il defensive end si chinò accanto a lui:

    - Volevo fermarti, Marston, non ucciderti. Ce la fai adesso ad alzarti?

    - No, no, io resto qui per sempre.

    Arrivarono gli uomini dell’assistenza di entrambe le squadre.

    Tre di loro si dedicarono al numero 37; con pochi gesti e poche parole lo aiutarono a rimettersi in piedi e, sorreggendolo mentre barcollava, lo condussero fuori dal campo.

    Nell’aria echeggiavano le grida degli spettatori.

    Un uomo vestito con i colori dei Mohicans, occhiali leggeri e capelli grigi, strinse delicatamente il ginocchio di Steve Marston. Altri due erano chinati ai suoi fianchi e osservavano le azioni di quello che pareva essere il più esperto del gruppo.

    - Lasciate perdere il ginocchio - gridò Steve Marston -guardate la spalla.

    Non lo ascoltarono. L’uomo dagli occhiali e capelli grigi continuava a manovrare il ginocchio del quarterback, con sguardo ottimista. Allora il tono del ferito, da vagamente supplichevole, divenne iroso:

    - Guardate la spalla, accidenti! Vi ci vuole tanto?!

    Gli diedero retta. Uno dei due assistenti più giovani cercò di muovere il braccio di Marston, che protestò per il dolore.

    - Riesci a muoverlo? - gli chiese l’uomo.

    - No, sento che mi fa un male cane, ma se cerco di muoverlo non risponde.

    Intervenne il più anziano:

    - Non è niente, Steve, è solo una lussazione.

    - No, non è una lussazione. Mi è già capitata, anni fa, ma questa è un’altra cosa.

    - Lo vedremo. Adesso cerca di rimetterti in piedi, dobbiamo uscire dal campo.

    - No, non è possibile.

    - Dai, su, Steve, non faccio venire fin qui la barella per una semplice lussazione a una spalla.

    - Non è una semplice lussazione.

    Intervenne il terzo uomo:

    - Ti aiutiamo noi, dai, puoi farcela- disse mentre gli cingeva con le mani la spalla sana e cominciava a fare forza per aiutarlo a raddrizzarsi.

    Steve Marston si rassegnò ad accettare l’invito ad alzarsi. Quando fu in piedi avvertì anche il dolore al ginocchio. Compì tre passi, sorretto dagli assistenti. Poi si fermò, riversò la testa all’indietro, cercò di aggrapparsi con la mano sinistra a uno dei due uomini che lo stavano aiutando, per sostenersi, ma fu inutile. Rovinò a terra, mentre i tre assistenti tentavano senza successo di frenare la caduta. Battè ancora la spalla. Urlò.

    - Cosa c’è che non va, Steve? Perché non stai in piedi?

    - Mi fa male la spalla. Ho la nausea. Non ci vedo.

    - Cadi perché non ti sostiene il ginocchio.

    - E fatela finita una buona volta con questa stronzata del ginocchio! Mi è capitato qualcosa alla spalla!

    Il più anziano dei tre uomini ordinò la barella con un gesto della mano.

    Il veicolo partì, si fermò al centro del campo, caricò non senza difficoltà il leader dell’attacco dei Mohicans, si rimise in moto e sparì inghiottito dal tunnel che portava nella penombra dei locali coperti.

    L’ambulanza con a bordo Steve Marston raggiunse il F.B. Hospital alle 17.18 della seconda domenica di ottobre, quando il sole pomeridiano era ancora alto e l’aria al massimo del tepore. Ad accompagnarlo era il dottor Upster, medico della squadra. Lo scaricarono all’interno del nosocomio, trascinarono la lettiga lungo i corridoi e fecero una breve sosta al banco dell’accettazione, dove il medico di turno si limitò a pronunciare poche parole:

    - Lussazione della spalla destra.

    L’infermiera del turno domenicale prese nota. Upster aggiunse:

    - La lussazione è la faccenda più urgente da sistemare. Poi dovrete verificare eventuali altri traumi.

    La donna fece cenno di procedere.

    I primi a raggiungere l’ospedale furono Randall Starr e Tom Flencher, i migliori amici che Steve aveva tra tutti i compagni di squadra. Un’infermiera li invitò ad accomodarsi in una sala d’attesa:

    - Il signor Marston è ancora in area trattamenti di urgenza; appena uscirà, se potrete vederlo, vi chiameremo.

    Dopo dieci minuti sopraggiunse il secondo medico dello staff, il dottor Raymond Villa.

    - Vorrei raggiungere il mio collega dottor Upster - protestò con l’infermiera, che gli ingiungeva di fermarsi nella stessa sala dove stavano già attendendo gli altri due.

    Andrew Skinner, coordinatore dell’attacco dei Mohicans, sopraggiunse cinque minuti dopo.

    - Si sa qualcosa? - chiese mentre varcava la

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