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L’avversario senza nome
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E-book359 pagine5 ore

L’avversario senza nome

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Info su questo ebook

Bob Forester è stato una leggenda del football degli anni ’80, ma dopo il ritiro si è abbandonato all’alcool e ai vizi. Ha un unico figlio, Dylan, che sembra dotato del suo stesso talento.

Ma il ragazzo, costretto ogni giorno a subire gli eccessi e i maltrattamenti del padre, diventa un giocatore dal carattere difficile, indisciplinato e violento. Per breve tempo la sua carriera sembra procedere senza intoppi, finché una serie di complicazioni, dentro e fuori dal campo, lo portano a perdere il suo posto ai vertici dello sport.

Riuscirà a riciclarsi in un campionato minore, in Canada, nella cittadina di Redfall e nella squadra dei Wolves. Qui l’atmosfera più rustica e genuina del football canadese potrebbe aiutarlo a liberarsi dei fantasmi del suo passato.

Ma fuori stagione lo aspetta un avversario ben più pericoloso di tutti quelli che ha affrontato sui campi da football. Nel deserto bianco lontano dalla città, la posta in gioco non sarà una vittoria o una sconfitta, sarà la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2016
ISBN9788898555291
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    Anteprima del libro

    L’avversario senza nome - Isabella Rampini

    metri.

    Capitolo 1

    Possedeva quella villa, situata su quel tratto della 71a Strada che piega leggermente verso il mare, da circa dodici anni. Nel parco aveva fatto costruire una monumentale piscina a forma di otto, rivestita di granito blu ed equipaggiata con due isolotti centrali abbastanza ampi da accogliere una piccola compagnia di bagnanti. C’erano anche una decina di fontanelle ornamentali, quattro scivoli, un trampolino elastico e un enorme galleggiante a forma di coccodrillo. Ai lati della vasca correvano due file di ombrelloni di rafia, con il loro gioioso disordine di lettini, divani, sdraio e poltrone di giunco, lasciati alla rinfusa sul selciato.

    Ma in quella serata di inizio millennio faceva ancora troppo caldo per starsene all’aperto, benché si fosse già alla fine di settembre.

    Bob Forester non aveva ospiti quella notte. Aveva chiuso le ampie vetrate del salone della villa, acceso l’aria condizionata e, ormai ubriaco fradicio, stava assaporando il fresco e l’insolito silenzio della sua dimora.

    Si avvicinò al tavolo, affondò la mano in un vassoio, afferrò una manciata di pillole e se le cacciò in bocca. Ad occhi chiusi trangugiò una lunga sorsata di rhum. Riaprì gli occhi. Vide la stanza ondeggiare tutt’intorno; le pareti, deformate e gonfie, pulsavano come organi vivi. La realtà del mondo lasciava il posto ad un piacere indescrivibile. Bob Forester era esperto di quelle sensazioni. Il più delle volte le viveva in compagnia, con donne facili e schiere di parassiti. Ma di tanto in tanto gradiva assaporare l’ebbrezza in solitudine, come quella sera. Andò a coricarsi sul divano. Le mani avevano cominciato a tremargli talmente forte che non riusciva a tenere ferma la bottiglia. Un po’ del prezioso liquido schizzò fuori, scivolò lungo la pelle candida del divano e finì sul tappeto. Nell’aria si diffuse il profumo intenso del rhum. Oltre alle mani, adesso gli tremavano anche le ginocchia. Strinse più forte il collo della bottiglia e si guardò intorno, verso l’unica parete cieca della grande sala, quella totalmente rivestita di legno. Al centro di essa, una grande apertura ad arco collegava il salone con il retro della casa.

    Lungo la boiserie erano appese decine di gigantografie, che ritraevano lui stesso, Bob Forester, fino ad una dozzina di anni prima, quando era stato uno dei campioni più ammirati, invidiati, osannati e remunerati del football professionistico. I suoi ricordi dei gloriosi anni ’80.

    L’alcool gli dava euforia; il cocktail di pillole gli conferiva una lucidità esasperata. Ed aggressività, troppa aggressività, per questo gli tremavano le mani e le ginocchia.

    Osservò quelle immagini. Era la ragione per cui, raramente, non più di una volta al mese, amava trascorrere quelle serate da solo nella sua casa di Miami. Con quel cocktail in corpo, la memoria gli faceva rivivere il passato con una nitidezza che altrimenti non sarebbe stata possibile. Adesso era meglio di allora. Più esaltante di quando aveva ventitré, ventiquattro, venticinque, fino a ventinove anni, quando finì la sua carriera. Adesso ritornava alle emozioni forti, alle scariche di adrenalina, ai momenti di gloria, ma senza l’ansia per il futuro, senza il tormento dell’attesa prima di ogni partita, senza l’incertezza del risultato. Ora sapeva già come era andata. In tutte quelle occasioni, ritratte sul muro della sua casa, era sempre finita nel migliore dei modi. Ripercorse il sentiero di fotografie con lo sguardo. Una ricezione fenomenale che aveva portato ad un guadagno di 40 yard, un touchdown dopo una presa che pareva impossibile, una breve corsa scartando un difensore per entrare inaspettatamente nella end zone avversaria.

    L’aggressività, indotta dagli allucinogeni, continuava ad aumentare. Mise a fuoco un’immagine precisa, l’istantanea in cui lui colpiva duramente il cornerback avversario, mentre questi spiccava un salto dinanzi a lui per ostacolarlo. Riassaporò il piacere di quel colpo, il grido di dolore dell’altro; non gli bastava, le mani gli tremavano troppo, i ricordi non riuscivano più a calmarlo.


    Nel settembre dell’anno 2000, Dylan Forester aveva appena compiuto tredici anni.

    Quella sera si lanciò in bicicletta sulla ghiaia che ricopriva il viale della villa del padre e con le gambe robuste spinse il mezzo alla massima velocità di cui era capace. Vide il portone del garage farsi sempre più vicino, finché, senza mai rallentare, si ritrovò a meno di un metro di distanza da esso. Dylan teneva una grossa borsa sulla schiena, con la braccia infilate nei manici. Si aggrappò con mano decisa al freno anteriore. La ruota davanti si bloccò istantaneamente, la ruota posteriore descrisse un ampio semicerchio nella ghiaia, sollevando polvere e pietrisco. Si era fermato, come ogni giorno, a pochi centimetri dal portone chiuso del garage. Saltò giù dalla bicicletta, la lasciò andare ed essa si abbatté fragorosamente sul ghiaino. Con un gesto repentino sfilò le braccia dai manici, si liberò della borsa e la scagliò a terra. Il sole era già tramontato da un po’ e una grande luna quasi piena rischiarava la serata, tingendo l’aria di un colore azzurro intenso. Dylan si accostò alla tastiera fissata al muro, accanto allo stipite del portone. Le sue dita robuste, con le nocche leggermente sbucciate, danzarono rapide sui tasti. Con un sibilo il portone iniziò a sollevarsi, rivelando un interno tenebroso. Al ragazzo di tredici anni quell’antro buio suscitava ancora un certo timore. Raccolse la borsa, se la caricò sulla spalla destra e tenendo la bicicletta con la sinistra entrò nel garage. La luce lunare rivelava soltanto il baule di un paio di autovetture. Dylan si affrettò a schiacciare l’interruttore. Una serie di sgargianti luci al neon illuminarono il locale come un palcoscenico. Apparvero la Porsche di suo padre, il SUV di sua madre, l’automobile di scorta, i tagliaerba ed altri macchinari per la manutenzione della villa. Dylan appoggiò la bicicletta al muro e con la borsa in spalla si avviò a grandi balzi verso l’interno della casa.

    «Ecco Dylan Forester, il più grande difensore di tutti i tempi!» ripeteva a se stesso, percorrendo a passo svelto i corridoi. Entrò in lavanderia, aprì la borsa, ne rovesciò il contenuto dentro al recipiente dei panni sporchi e uscì, dirigendosi verso la zona giorno.

    C’era un silenzio insolito quella sera nella sua casa. Si poteva udire il fruscio delle foglie delle palme nel parco e in sottofondo il rumore soffuso delle automobili in corsa lungo la 67a Avenue, parallela all’oceano.

    Si avviò curioso verso il salone. Di solito quella zona della casa non era il suo territorio. Era qui che Bob Forester teneva i suoi festini.

    Il ragazzo attraversò l’arco e gettò uno sguardo verso la sala. Notò le luci soffuse; nel silenzio udì il sibilo dei climatizzatori accesi. Attraverso le grandi vetrate si vedevano gli alberi del parco muoversi sotto l’effetto di una brezza leggera. Non c’erano invitati quella sera, né dentro casa né all’aperto.

    Bob udì i passi del figlio. Si alzò in piedi. Aveva gli occhi lucidi, la bottiglia quasi vuota stretta in pugno e la bocca contorta in un ghigno. Girò su sé stesso finché vide il ragazzino, titubante sull’ingresso del salone.

    «So che oggi hai provato a lanciare e sei andato bene. Potresti fare il quarterback» gli disse.

    Dylan fece due passi avanti.

    «Come fai a sapere che oggi ho lanciato?»

    Bob si schiarì la gola con un rumore cavernoso. Gli sfuggì un rutto.

    «Mi ha telefonato…» accostò la bottiglia alle labbra e trangugiò un breve sorso.

    «Mi ha telefonato Hauer, il tuo nuovo allenatore. Telefona ogni giorno, per informarmi.»

    I suoi occhi luccicavano.

    «Ti ha detto solo questo? Solo che mi ha fatto lanciare?»

    «Mi ha detto anche che hai lanciato bene. Che altro mi doveva dire?»

    «Non ti ha detto che ho fatto nove placcaggi e due sack?»

    «No, questo non me lo ha detto. Mi ha pure sottolineato che secondo lui sei un bravo lanciatore e potresti diventare un ottimo quarterback.»

    «No. Io non voglio fare il quarterback!»

    Il ragazzo si era fermato dinanzi al padre, più alto di lui di circa una spanna.

    «Perché no?!»

    «Perché in una squadra di football c’è un solo quarterback, più due riserve, e tutti vogliono fare il quarterback. E’ troppo bassa la probabilità di riuscire. In tutti gli altri ruoli ci sono più giocatori schierati e meno concorrenza. E io voglio diventare un professionista, proprio come sei stato tu!»

    Bob fece una smorfia. Nell’aria si sentiva la puzza del suo fiato, carico di alcool e sostanze chimiche.

    «Sì… forse. Forse ce la farai anche tu a diventare un professionista… ma scordati di diventare quello che sono stato io! Tu non sarai nemmeno la mezza ombra di tuo padre! Io sì, che sono stato un campione!»

    Bob Forester si stava battendo il petto possente con la mano destra, mentre la sinistra agitava nell’aria la bottiglia quasi vuota.

    «Tu non hai la stoffa che ho io, ti manca il carattere, il mordente! Tu sei un perdente! E io mi vergogno di essere padre di tanta mediocrità! E pensare che le occasioni non ti sono mancate! Io, io te le ho procurate! Per te non è stato difficile come per me. Io ho dovuto conquistare tutto da solo! Nessuno mi ha mai fatto sconti! Nessuno mi ha mai agevolato! Piuttosto la mia famiglia mi è sempre stata di intralcio, con tutti i problemi che mio padre e mia madre, nella loro miseria, mi causavano!»

    Bob bevve un ultimo sorso a collo dalla bottiglia. Fuori era ormai buio. Gli alberi del parco erano sagome nere che si stagliavano nella notte; attraverso le vetrate entrò un refolo di aria carico degli aromi dell’oceano.

    «Io ti ho portato per la prima volta a giocare a football, quando eri ancora un bambino. Io ho parlato con gli allenatori, io ho seguito i tuoi progressi! Io pretendo che diventi un grande ricevitore, come è stato tuo padre, cioè io, io, Bob Forester!»

    Lo afferrò per un braccio, lo trascinò fino al centro della stanza e lo costrinse a girarsi verso la parete rivestita di legno. Il ragazzo lanciò un grido di protesta.

    «Guarda, guarda cosa sono stato io!»

    Bob gli indicò le gigantografie.

    «Ma tu non ce la farai mai a raggiungere il mio livello! Tu svilirai il nome dei Forester, invece di portarlo avanti con onore, proseguendo la tradizione di grandi campioni, di padre in figlio, come vorrei io!».

    Aveva staccato la mano dal braccio del figlio, riprendendo la bottiglia nella destra e per un attimo, mentre trangugiava le ultime gocce rimaste sul fondo, fece silenzio. La bottiglia era vuota; l’effetto delle sostanze eccitanti stava raggiungendo l’apice.

    Riprese il suo monologo:

    «Oppure potresti fare il quarterback e guadagnarti ancora più fama e onori di tuo padre! Ma tu non vuoi fare il quarterback! Tu sei un vile e vuoi nasconderti in un ruolo anonimo! Serve coraggio e temperamento per gestire la palla e afferrarla! Proprio quello che ti manca! Ci vuole stoffa, per diventare campioni! Ed è proprio quello che tu non hai! Perché quella puttana di tua madre ti ha fatto esattamente uguale a lei! Un codardo, un perdente, una vittima! Come lei e la sua famiglia di mezze seghe! Non meriti il cognome che ti ho dato! Perché da me hai preso solo quello!»

    Agitò la bottiglia verso il volto del figlio. Il ragazzino gridò senza riflettere:

    «Questo tu non puoi saperlo! Sarai anche stato un grande ricevitore, ma non sei un indovino! E non hai idea di dove arriverò io!»

    «Ah! E’ così che mi rispondi?! E’ così che rispondi a tuo padre?!»

    «Sì, sì, è proprio così che ti rispondo!»

    «Piccolo idiota, credi che diventerai migliore di me?!»

    «Spero di diventare più bravo di te, ma solo per rinfacciarti tutte le stronzate che mi dici ogni giorno!»

    Dylan aveva afferrato una grossa candela ornamentale, che si trovava al centro della tavola di cristallo insieme a una testa scolpita e a un vaso di foglie di felce. Con rabbia scagliò la candela contro una delle gigantografie, che ritraeva suo padre mentre con un salto acrobatico afferrava una palla impossibile dentro alla end zone avversaria.

    Bob Forester afferrò il figlio, lo trattenne, sollevò la bottiglia e la abbatté con tutta la forza che aveva sulla sua testa. Dylan riuscì a ripararsi con il braccio libero. Nonostante il caldo aveva addosso una maglia con le maniche lunghe e la stoffa assorbì parte del colpo. La bottiglia si spezzò in due tronconi e soltanto qualche lieve scheggia raggiunse la pelle del ragazzo, procurandogli pochi tagli superficiali.

    Bob ruggì come un animale, afferrò il tavolo e lo scagliò a terra. Il ripiano di cristallo si ruppe in migliaia di frammenti, che finirono proiettati ovunque. Sul pavimento della stanza ricadde un’infinità di particelle scintillanti, come una distesa di diamanti.

    Dylan arretrò con cautela, per non tagliarsi i piedi nudi. Bob si era chinato sul tavolo riverso. La struttura portante era costituita da due riquadri di legno, che fungevano da piedi e da sostegni per i due lati corti, più due longheroni di acciaio pieno, che reggevano i lati lunghi. Bob afferrò uno dei longheroni con entrambe le mani e cominciò a tirare. Il legno, a cui era avvitato, si spezzò; le viti schizzarono fuori dalle sedi e il longherone si staccò dal resto della struttura.

    Bob lo sollevò e cercò con lo sguardo il figlio. Il ragazzo stava correndo verso uno dei maniglioni delle le vetrate scorrevoli, con l’intento di aprirla per fuggire all’aperto. Il padre, noncurante dei frammenti taglienti che coprivano il pavimento, si gettò nella stessa direzione, tagliandogli la strada. Si fermò in mezzo tra il figlio e la vetrata apribile, con il longherone in pugno.

    Quella via di fuga era preclusa. Dylan doveva trovarne urgentemente un’altra, verso il retro della casa, prima che il padre lo ammazzasse a colpi di spranga. Doveva trovare una stanza libera, chiudersi dentro e aspettare, per ore, fino a che fosse passata la follia di suo padre.

    Si gettò attraverso l’arco che divideva il salone dalla zona retrostante. Bob Forester lo inseguì, con la bava alla bocca e la sua arma d’acciaio tra le mani. Il ragazzino corse in direzione della porta della lavanderia, che era aperta. Si precipitò all’interno. Il padre era dietro di lui. Dylan afferrò l’uscio con entrambe le mani e lo chiuse sbattendolo. La chiave, doveva trovare la chiave. In lavanderia era buio. Sfiorò con la mano la zona sotto la maniglia. Un pezzo di metallo sporgente: la chiave! In quell’istante sentì il metallo freddo che si abbassava. Suo padre, dall’altro lato, stava cercando di aprire la porta. Cercò di opporsi alla discesa della maniglia con entrambe le mani. Non ce la faceva. Riusciva solo a rallentare la manovra di suo padre, non impedirla. Il vecchio era troppo forte. Dylan mise la spalla sotto la maniglia, cercò di premere verso l’alto con tutto il corpo. Strinse i denti, chiuse gli occhi e spinse con tutto il vigore dei suoi tredici anni. In quell’istante la porta si spalancò. Dylan aveva cominciato a vedere nel buio. La luce lunare filtrava da una finestra. Suo padre si stagliò sul vano della porta. Poi fece un passo avanti e cominciò a menare fendenti con il fendente di metallo. Il ragazzo indietreggiò, finché finì contro il muro. Cadde a terra sotto l’impeto dei colpi. Era incastrato tra la lavatrice e un armadio, non c’era più possibilità di fuga. Suo padre, chino su quello spazio vuoto, picchiava con furore. Dylan teneva sollevate le braccia per proteggersi la testa. Poi sentì un crack e un dolore lancinante. Il braccio destro si era spezzato. Cercò di ripararsi con il sinistro, che schizzò via sotto il colpo del padre e la spranga lo raggiunse per la prima volta al viso. Sentì il sangue caldo colargli dal naso fino alle labbra. Riprovò ad utilizzare ancora il braccio destro spezzato, ma il dolore fu insopportabile. La spranga lo raggiunse ancora alla testa, più e più volte.

    Suo padre lo stava uccidendo.

    "Meglio così pensò Dylan se muoio è meglio, così non sarò costretto a ricordarmi questo episodio per tutta la vita. Voglio morire, voglio morire subito e non pensarci mai più!"

    Abbandonò le braccia ai lati del corpo e rinunciò ad opporre qualunque resistenza.

    In quell’istante Bob si fermò. Ansimava talmente forte che il suo respiro si era ridotto ad un rantolo osceno. Non riusciva nemmeno a pronunciare le parole. Il suo cuore bistrattato stava battendo all’impazzata.

    Puntò il longherone al suolo e vi si appoggiò con tutto il peso. Gocce di sudore denso cadevano sul pavimento, producendo un ticchettio irregolare.

    Si asciugò gli occhi:

    «Figlio maledetto... un giorno mi ucciderai… ho il cuore che mi sta scoppiando nel petto! Oddio! Oddio non ce la faccio! Ahh! Ahh!»

    Aveva raccolto la spranga e si stava spostando verso la porta. Uscì barcollando e ansimando, tornò in salone e si abbandonò stremato sul divano, dopo avere gettato il longherone sul tappeto.

    Dylan era rimasto solo in lavanderia. In quel momento lo colse la paura e fu travolto da tutte le emozioni che lo stato di emergenza aveva tenuto represse. Iniziò a tremare e il tremito divenne così forte che gli sembrò di essere in preda alle convulsioni. Non cercò di muoversi, non voleva trovare soccorso, voleva solo restare fermo lì e morire.

    Percepì che qualcuno si stava di nuovo avvicinando alla stanza. Si asciugò gli occhi imbrattati di sangue e guardò dinanzi a sé.

    «Papà!» gridò «sei tornato a concludere il tuo lavoro?! Dai su, vieni avanti! Io non ho più paura, perché mi hai già fatto troppo male!»

    Mentre pronunciava le ultime parole, la sua voce acuta da ragazzo si era trasformata in un urlo rauco.

    Riconobbe la figura ferma in piedi sul vano della porta.

    Sua madre fece un passo ed entrò nella lavanderia. Tese il braccio sinistro in cerca dell’interruttore, lo schiacciò con le dita sottili. Si accesero i neon del soffitto e tutta la stanza fu illuminata da una sfolgorante luce bianca. La donna avanzò. Era vestita con un abito estivo rosso aderente, senza maniche, che lasciava scoperte le braccia e le gambe sopra al ginocchio. Si chinò davanti al figlio, il suo viso dinanzi a quello del ragazzino, ridotto ad una maschera di sangue:

    «Devi alzarti, Dylan, ce la fai? Dobbiamo andare all’ospedale.»

    Il giovane aveva smesso di tremare.

    «Sì, sì» disse «ce la faccio, adesso mi alzo…»

    Spinse il braccio sinistro contro il muro, fece forza sulle gambe e si mise in piedi.

    Sentì girargli la testa ed ebbe un conato di vomito. Sua madre lo aiutò a sorreggersi:

    «Vieni, andiamo.»

    Il ragazzo cominciò a camminare, con la madre accanto; si inoltrarono lungo il corridoio della zona di servizio.

    «Ho portato la mia macchina qui davanti, perciò dobbiamo uscire dal salone.»

    «Papà dov’è?»

    «In salone.»

    «Ho paura.»

    «Anch’io. Andiamo.»

    Attraversarono l’arco. La grande stanza era rischiarata dalla luce soffusa di un paio di piantane alogene. Il pavimento era coperto di frammenti di cristallo, che emanavano bagliori multicolori.

    «Le scarpe» gli sussurrò sua madre all’orecchio «devi metterti le scarpe, non puoi uscire a piedi scalzi.»

    Sul volto di Dylan comparve un’espressione di sgomento.

    «Vado io a prenderle di sopra» sussurrò «tu aspetta qui, non muoverti.»

    Coricato sul divano Bob rantolava, imprecava e bestemmiava. Suo figlio appoggiò le spalle al muro, lo sporcò con le mani e le braccia insanguinate e guardò sua madre salire le scale due gradini per volta. Non si fece attendere a lungo. Un attimo dopo riapparve con un paio di voluminose scarpe da ginnastica tra le mani. Raggiunse il ragazzo e si chinò ai suoi piedi. Un altro sussurro:

    «Ti aiuto io. Tu cerca soltanto di sollevare il piede.»

    Ci riuscirono. Entrarono nel salone. Pareva di camminare su una spiaggia di ghiaia. Un passo dopo l’altro avevano quasi raggiunto l’uscita. Fu allora che Bob li vide. Si raddrizzò a sedere sul divano. Raccolse la spranga e la strinse tra le mani:

    «Io vi ammazzo entrambi, figli di puttana maledetti; proprio a me dovevate capitare? Proprio a me dovevate venire a guastare l’esistenza?! Ma io vi spacco la testa! Vi faccio a pezzi tutti e due! E mi riprendo la mia libertà!»

    Dylan si era fermato e lo stava guardando, con il sangue che gli scorreva lungo il viso. Sua madre lo afferrò per un braccio e lo tirò a sé.

    «Muoviti, Dylan! Non ti fermare! Dobbiamo uscire!»

    Bob si era alzato in piedi. Continuava ad urlare. Jemina mise una mano sulla schiena del figlio e lo indusse a varcare la soglia della villa prima di lei. Bob gridava alle loro spalle. Madre e figlio adesso erano fuori, all’aperto, nella notte calda della costa. La Land Rover era parcheggiata sull’erba. Jemina si staccò dal ragazzo, mentre si dirigeva verso il posto di guida:

    «Sali» ordinò.

    Finalmente furono a bordo. La donna fece scattare la sicura della portiere, mise in moto, aprì il cancello con il telecomando e raggiunsero la strada. L’automobile correva svelta lungo i viali. Dylan osservò fuori dal finestrino i locali illuminati, la città brulicante di vita, la gente che si divertiva. Le braccia snelle di sua madre reggevano sicure il volante. Dopo quasi mezz’ora di viaggio, raggiunsero l’ingresso dell’ospedale. Un uomo robusto uscì dalla guardiola, si avvicinò al finestrino che Jemina aveva abbassato, pronunciò due parole e lei gli mostrò il viso del figlio seduto lì accanto. Nella tiepida aria notturna l’uomo girò le spalle alla vettura, tornò dentro la guardiola, pigiò un tasto e immediatamente la sbarra che chiudeva l’accesso si sollevò.

    «Aspettami qui, Dylan, vado a chiamare gli infermieri con la barella.»

    «No.»

    Jemina si voltò di scatto verso il figlio, mentre estraeva la chiave dal cruscotto.

    Questi aveva già sbloccato la serratura della portiera e si accingeva a scendere.

    «Io là dentro ci vengo camminando sulle mie gambe.»

    Pochi istanti più tardi, all’interno della clinica apparve una donna afroamericana dalla bellezza straordinaria, vestita con un succinto abito rosso, che camminava tenendo sottobraccio un ragazzino atletico della stessa etnia. Il giovane camminava a testa alta, sostenendo con la sinistra il suo braccio destro sformato ed evidentemente avanzava quasi alla cieca, guidato dalla madre, perché il sangue che grondava dalle ferite sul capo gli colava sul volto, ostacolandogli la visuale.

    Un’infermiera si affrettò a raggiungerli con una barella.

    «Per carità ragazzo, mettiti subito qui sopra!»

    «Perché? Ho rotti solo il braccio e la testa! Non le gambe! Posso camminare!»

    «Sì, puoi camminare, ma grondi sangue dappertutto e stai riducendo il pavimento del nostro Pronto Soccorso a un lago! Questo non posso accettarlo!»

    Obbedì a malincuore.

    In quell’istante tutti gli uomini, presenti a quell’ora del giorno in quella zona della clinica, avevano già raggiunto la coppia madre e figlio. Uno di loro prese la parola per primo, rivolgendo alla donna un sorriso cordiale:

    «Che cosa è successo?»

    «Mio figlio gioca a football e si è fatto male durante una partita.»

    Le parole di Jemina furono seguite da un breve silenzio, carico di perplessità.

    «Strano, di solito in questi casi i ragazzi arrivano accompagnati dal personale della squadra; i genitori li raggiungono poco più tardi.»

    «Stavo assistendo alla partita e ho preferito accompagnarlo io, anche perché… nello scontro si è fatto male anche un altro ragazzo e… così ho lasciato gli assistenti liberi di dedicarsi solo a lui…»

    «Dov’è l’altro ragazzo? Non è qui con voi?»

    «Non lo so… forse dopotutto non si era fatto così male e… forse è stato sufficiente l’intervento dei soccorsi in campo.»

    Uno dei medici distolse a malincuore lo sguardo dalla madre, per chinarsi sulla barella ad esaminare il figlio. Il ragazzino aveva cominciato a tremare e si vedeva che stava tentando, senza successo, di trattenere i singhiozzi. Da quell’immagine trapelava una sofferenza ben più grande del dolore fisico che stava provando e nei confronti del quale aveva già saputo dimostrarsi sprezzante.

    «Signora, è strano che un ragazzo così giovane si faccia tanto male giocando a football. A questa età sono leggeri e gli scontri per lo più sono innocui. E poi non portava il casco?»

    Il medico gli passò una mano, avvolta nel guanto di lattice, tra la lanuggine dei corti capelli neri.

    «Come ha fatto a procurarsi tutte queste ferite multiple in un solo scontro?»

    Il bellissimo viso della donna, dai lineamenti delicati, pareva emanare luce. In quell’istante i suoi splendidi occhi neri si riempirono di lacrime e un paio di esse sfuggirono lungo le guance scure e lisce come seta.


    Dopo un’ora di attesa da sola in una stanza vuota, le riportarono il figlio sulla barella, addormentato e con una fleboclisi nel braccio sinistro. Il destro era ingessato, la testa e gran parte del volto erano fasciati. Tra il naso e il labbro superiore correvano vistosi alcuni punti di sutura.

    «Perché dorme?» chiese con un sussurro.

    «Era in evidente stato di shock. In base alle nostre conoscenze attuali, riteniamo che il sonno aiuti a superare il trauma.»

    Le lunghe ciglia nere di Jemina si abbassarono. Il medico si tolse la mascherina dal volto.

    «E’ il figlio di Bob Forester, giusto?»

    Jemina annuì.

    «Lei è la moglie?»

    Annuì ancora.

    «Avevo udito certe voci… si sperava fossero solo pettegolezzi di gente invidiosa del vostro benessere. E comunque, fino a stasera, non erano affari miei. Non mi permetto di dare consigli, signora, perché so che non sono situazioni facili… L’unica buona notizia, che posso darle, è che i danni fisici non avranno conseguenze. Il ragazzo si rimetterà completamente e anche le cicatrici sul viso…» si interruppe, lanciando un rapido sguardo verso il volto della donna, poi riprese:

    «Anche le cicatrici sul viso con il tempo diventeranno quasi invisibili. Le assomiglia parecchio! Diventerà un bel ragazzo.»

    «Bello, sì, bello. Ma non diventerà mai un uomo normale… come tutti gli altri…»

    Il medico aveva raggiunto la porta.

    «Continui a farlo giocare a football. Gli faccia fare sport.»

    Jemina annuì per la terza volta, mentre l’uomo abbandonava la stanza.

    Lei aveva udito benissimo quello che il ragazzo aveva detto, quando si era affacciata alla lavanderia e aveva sentito nell’aria l’odore del sangue:

    Non ho paura di morire, perché mi hai già fatto abbastanza male!

    Capitolo 2

    Matt Beveridge era l’arma più affilata di cui disponeva l’attacco dei New York Mohicans in quell’inizio di stagione. Il runningback era alto un metro e settantanove, pesava novantotto chili, giocava in quel ruolo da quattordici anni e sembrava avere la capacità di sfondare qualsiasi barriera umana che gli si fosse parata di fronte ogni volta che aveva una palla tra le mani da portare avanti. Infatti, soltanto in quella domenica, aveva già corso per un totale di 68 yard, aveva segnato un touchdown a metà del secondo

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