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Breve guida pratica per erboristi fantasiosi
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E-book328 pagine4 ore

Breve guida pratica per erboristi fantasiosi

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Questo nuovo libro nasce dal rispetto e dall'amore profondo verso le piante e le "semplici" erbe officinali in particolare. Con spirito curioso ed affascinato, Saccavini cerca le leggende, le favole, le meraviglie, le virtù di queste piante, conosciute fin dal profondo passato e che sono oggi spesso confermate da prove scientifiche. Queste pagine vogliono essere un invito, un gentile richiamo, a ricordare i nostri rapporti stretti ed eterni con il mondo vegetale, proprio in questo tempo in cui ci troviamo di fronte ad atteggiamenti distruttivi o di fredda indifferenza verso le piante.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2017
ISBN9788892644076
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    Anteprima del libro

    Breve guida pratica per erboristi fantasiosi - Chiara Saccavini

    fosse.

    Premessa

    L’umanità è nata in un giardino, rigoglioso e armonico, ordinato e fecondo d’ogni erba e frutto. Ma i nostri progenitori non hanno saputo cogliere il frutto giusto, gustarne la vera sapienza.

    Tutto ciò che è poi toccato, nel bene e nel male, a quella stessa umanità, è derivato dalla colpa commessa in quel giardino. E se guardiamo la faccenda da un punto di vista banalmente ‘vegetale’, la colpa fu mangiare dei frutti ed usare delle foglie per fini grettamente materiali e egoistici, senza riconoscere anche alla Natura una sua ratio spirituale. Va da sé, che le avventure umane successive alla cacciata, si possono leggere come un’infinita serie di tentativi di ricostruzione di quel primo paradiso tanto malamente perduto.

    Questo accade forse perché il giardino è ‘un ordine dell’anima’, come lo definisce Rudolf Borchard, che descrive, nel suo famoso saggio, i moti dell’animo del ‘Giardiniere appassionato’. E, forse per lo stesso motivo, è l’anima che diviene un giardino, soggetta alle cure del Giardiniere che dona fiori di estrema bellezza e con i suoi insegnamenti estirpa poco a poco le malerbe dai cuori dei suoi figli.

    È in questo modo, mi piace pensare, che l’umanità apprese a conoscere le erbe buone e a separale da quelle cattive; è così che, anche, ogni pianta iniziò ad assumere in sé dignità culturale come simbolo di una virtù, allegoria del mondo spirituale cui necessariamente appartiene. Nacquero miti e leggende, metafore vegetali che costruirono poco a poco la segreta impalcatura delle lingue e del linguaggio figurato dell’umanità.

    Si diedero strani nomi ad ancor più strane erbe che popolarono con la loro presenza dapprima poemi e favole e poi erbari e, infine, calderoni in cui uomini e donne cuocevano o lavoravano le foglie, le radici ed i fiori di piante dalle proprietà magiche e curative.

    Le piante nascevano, crescevano, scomparivano per poi tornare nella stagione successiva; erano il simbolo più perfetto per esprimere la metafora della ciclicità della vita e del destino delle cose umane.

    A rileggerli oggi, quei simbolismi profondi e duraturi, si sente quanto siano profondamente legati all’inconscio e quanto abbiano permeato di sé la memoria collettiva dell’umanità.

    Questo sentimento mi ha portato a raccogliere nelle prossime pagine le storie ed i miti che riguardano alcune piante, il cui uso frequente sembra farci dimenticare il loro sapore archetipico.

    Scrivere questo libretto è stato come compiere un piccolo iter, un viaggio svolto attraverso un ponte che lega il passato al presente; il ripercorre lo stesso ponte, in senso inverso per cercare di riportare ad altri quando andavo scoprendo, mi ha permesso invece di legare l’esteriorità dell’uso all’interiorità dell’allegoria.

    Ogni piccola pianta mi ha permesso di innescare un processo di recupero della purezza primitiva della Natura; un processo di de-alienazione, di ritorno alla condizione pre-edenica.

    Nulla infatti, si presta al pari di una pianta e del suo fiore, che si avvolge attorno al suo asse centrale, ad esprimere in maniera semplice e facilmente visibile le leggi della vita, l’ordine fondamentale, quel kosmos, tanto caro al mondo greco, che con queste poche lettere rappresentava tanti concetti fondamentali. Era bellezza, ordine, struttura: tutto ciò che l’uomo, dis-ordinato, auspicava di ritrovare e mi auguro che questa tensione permanga nel suo cuore, tutt’ora.

    Ma intanto, l’inesorabile tempo, lavora da sempre assiduamente per far dimenticare tutto questo all’umanità, distratta e superficiale, che si pasce al solito, di usare solo in maniera pragmatica ed utilitaristica le erbe. E le leggende che spiegavano tanto del funzionamento del nostro inconscio, furono dimenticate e pian piano scesero sempre più in profondità, tanto che oggi neppure i nomi di alcune popolari piante ci fanno più rammentare il vero significato che ebbero in tempi remoti.

    Il grande poeta inglese Alexander Pope, scriveva nei primi anni del ‘700 sul ‘The Guardian’, che riteneva che ‘gli uomini d’ingegno e chi ha una maggiore inclinazione per l’arte siano sempre sensibili alla natura, giacché l’arte è fondata sullo studio della natura stessa’¹. Non posso che essere d’accordo, poiché la Natura è capace di trasmettere allo spirito una nobile quiete, e sensazioni irripetibili.

    Vorrei poter far provare a chi è digiuno di piante o a chi le guarda solo come oggetti inanimati, quanto scrisse Jean-Jacques Rousseau con parole che perfettamente esprimono un pensiero- sistema di sentire e di vivere la Natura:

    Più un contemplatore ha l’anima sensibile più si abbandona alle estasi che quest’accordo suscita in lui. Un dolce profondo sogno s’impadronisce allora dei suoi sensi, ed egli si perde con l’immensità di questo bel sistema con il quale si sente identificato. Allora tutti gli oggetti particolari gli sfuggono: egli non vede e non sente niente che nel tutto. Bisogna che qualche circostanza particolare serri le sue idee e circoscriva la sua immaginazione, perché egli possa osservare nelle parti quest’universo che si era sforzato di abbracciare.²

    Parte I

    Le piante tra cielo e terra

    Il fiore, come il Graal simbolizza il segreto oggetto della ricerca.

    (XV sec.)

    Tutte le tradizioni culturali, in ogni tempo e in ogni parte del mondo, hanno espresso il loro rispetto, quasi la loro adorazione per le piante: custodi di forze di rinnovamento ciclico, testimoniavano infatti la continua rigenerazione della vita: perdevano le foglie in autunno, le seccavano in inverno, ma poi rifiorivano in primavera e fruttificavano in estate. Le piante fornivano e forniscono all’uomo cibo, medicinali, ombra per ripararsi, legna per riscaldarsi, cucinare e costruire.

    Le erbe, in particolare, sono sempre state considerate il simbolo di tutto ciò che è curativo e vivificante, tanto che si pregava:

    O Erbe, o voi, madri, vi saluto come dee!

    Era quello il tempo in cui le erbe erano intese come dei benevoli al servizio del genere umano, strumento alchemico di salute nato dal ventre di Madre Terra.

    O erbe potenti, ora a tutte voi rivolgo la mia preghiera!

    Imploro la vostra autorità, voi che la Madre Terra

    ha generato e ha offerto in dono all’umanità:

    ha riunito in voi i rimedi e i poteri curativi,

    affinché siate sempre utilissimo aiuto

    per l’intero genere umano.

    Di ciò vi supplico e prego: venite,

    avvicinatevi più rapidamente con le vostre virtù,

    poiché Lei, che vi ha creato, mi ha concesso

    di raccogliervi; è inoltre propizio colui al quale

    l’arte medica è stata affidata. E nella misura in cui

    la vostra virtù ne ha il potere, assicurate il rimedio

    che giovi alla salute. Vi prego che mi facciate grazia

    per la vostra forza, affinché in ogni situazione,

    qualunque atto avrò compiuto nel vostro nome,

    a chiunque vi avrò somministrato, garantiate successo

    e rapido effetto. Che sempre mi sia lecito,

    col favore della vostra autorità,

    raccogliervi...

    vi farò offerta dei frutti della terra e vi renderò grazie

    nel nome della Madre che stabilì che foste generate. ³

    Abbiamo questo testo grazie alla testimonianza di quattro erbari manoscritti risalenti al VI secolo; è un piccolo grande gioiello di fede che ancora oggi ci commuove, questa Precatio omnium herbarum, grazie alla semplicità delle sue parole, che attestano la devozione dell’uomo antico di fronte al potere terapeutico della natura.

    Esprime una visone magica, animistica di quella Mater Tellus che ha predisposto tutta la natura secondo un preciso ordine cosmico, divenendo arbitra di tutto ciò che è vivo, mostrandosi come colei che genera e rigenera, generosa dispensatrice di doni che divengono rimedi e medicinali. La Madre Terra che sorge dal caos primordiale, che porta la luce e fuga la notte, è riverita dall’uomo con stupore e semplicità.

    Allo stesso modo avvertiamo dalle parole usate, la sensazione che vi sia una comunicazione diretta con ciò che è sacro, che non passa ancora attraverso la forma antropomorfa della divinità; gli uomini si sentono vicini alla pura divinità e imparano a cogliere erbe, accogliendo al contempo il sacrificio del principio divino in esso incluso. E, allora, questa preghiera diviene un tributo di gratitudine verso la divinità stessa e i suoi doni, e forse, chissà, vien da pensare che venisse recitata anche al momento di cogliere le erbe o di utilizzarle. Figlie amorevoli della madre primordiale, le erbe celano dunque nella loro apparente fragilità ed esile presenza, il grande mistero divino della guarigione.

    La letteratura relativa alle invocazioni alle erbe è tanto ricca quanto sconosciuta e si nutre di riferimenti che dai papiri magici egizi spaziano fino alle pagine degli erbari della tarda latinità, dove le preghiere botaniche ancora trovano spazio, residui di un’archeologia sacra sopravvissuta per fortunata casualità tra le righe della nuova medicina razionale. Compare così nel Corpus Medicorum Latinorum un’invocazione attribuita ad Antonio Musa, medico dell’imperatore Augusto⁴, dedicata all’erba bettonica, chiamata ‘magna herbarum’, capace di guarire ben 47 diverse malattie. E ancora, in un’appendice dei codici dell’Erbario dello Pseudo-Apuleio, le erbe officinali sono chiamate a compiere incantesimi (in-cantare), e similmente vengono invocati il cocomero, il basilico, il prezzemolo, l’edera, la menta, l’aneto, la ruta...

    Non stupisce, dunque, che fin dall’inizio le piante venissero idealizzate e che, con loro, si formasse l’idea di un giardino in cui vivere in perfetta beatitudine.

    Nella Bibbia questo luogo ha nome Eden: è lì che i primi uomini vivevano senza peccato in armonia con il Creato, lì che lupo e agnello coesistevano in pace.

    Il giardino trascende il caos e il tempo; è la matrice originaria della vita, alimentato da sorgenti d’acqua che lo definiscono⁵; è lo spazio interiore di potenzialità assoluta, uno stato di innocenza e armonia preconscio.

    Non solo, ma in Genesi è scritto che la vegetazione è nata dalla terra e dall’impasto di terra è ricavato anche l’uomo. Quindi la pianta è, in qualche modo, simbolo dell’uomo stesso, dell’unità fondamentale della vita e ciò viene confermato anche dal versetto del Corano:

    Dio vi fece nascere dalla terra come una pianta.

    La vegetazione di un albero è qui paragonata alla crescita della gnosi (conoscenza) del mistico; l’albero che, nutrito dalla terra e dall’acqua, cerca di raggiungere con i propri rami il Settimo Cielo. Nell’Islam il paradiso è il giardino delle Hurì, luogo di bellezza, armonia e amore. È luogo di beatitudine dove soggiorna ‘Allah il Giardiniere’, luogo in cui il sé interiore torna a fondersi con la sua fonte. Più, forse, uno stato d’animo che un vero luogo, il paradiso è popolato di alberi e acque vive ed erbe che rappresentano un vero e proprio giardino interiore. L’ingresso qui ha otto porte e la chiave che le apre ha otto denti, ma quando si riesce ad entrare si vive nell’armonia perfetta di luce ed eterna primavera ed una sola foglia del giuggiolo che cresce all’ingresso, potrebbe coprire e proteggere tutta la comunità dei credenti. L’otto è numero simbolico evidentemente: è universalmente ritenuto il numero dell’equilibrio cosmico, dato dalle quattro direzioni cardinali e dalle intermedie, e si trova, tanto per fare alcuni esempi, nel numero della rosa dei venti, dei raggi della ruota celtica, della Ruota della legge buddhista, dei petali del loto, dei trigrammi dello I-ching, degli angeli che portano il Trono celeste, dell’ottavo giorno che segue il settimo e segna la via dei giusti.

    Nei Libri della Bibbia sono numerosi i riferimenti alle piante aromatiche. Giusto per citarne alcuni: in Matteo 23, 23, l’aneto, la menta, il finocchio su cui era pagata la decima (tassa); il cumino di Numeri 11,7, paragonato alla manna; la ruta compare in Luca 11, 42; la senape nelle parabole di Matteo e Luca; senza tralasciare il Cantico dei Cantici e i suoi continui paralleli con il mondo vegetale.

    Nella religione di Zoroastro, in Persia, era un giardino di luce ad accogliere i beati, amabilmente profumato di basilico: era questo il pairi daeza, il giardino recintato ove vi era solo pace.

    Per i Sumeri la città di Eridu sede del dio Enki, era colma di piante e fiori e giardini superbi, alla cui bellezza si ispirarono gli Assiro Babilonesi per realizzare i loro Giardini pensili, una delle sette meraviglie dell’antichità.

    La nascita dell’eroe epico compagno e antagonista di Gilgamesh, Enkidu, è così descritta, a dimostrazione di quanto fossero tenute in conto le erbe e le proprietà dei loro estratti:

    Egli si frizionò, lisciò i peli arruffati del suo corpo peloso e li unse con essenze oleose. E assunse l’aspetto di un essere umano. Indossò una veste ed ora ha proprio l’aspetto di un uomo.

    Gli Assiri avevano una conoscenza assai approfondita delle piante medicamentose o odorose; ne elencano e descrivono nei loro erbari circa 250; ‘sammu’, ‘l’erba’ significava anche la medicina che curava la malattia; lo sappiamo da opere come l’erbario del Tempio di Entilbani (2200 a.C. circa) di cui si conoscono circa 600 tavolette di argomento medico che citano piante come pino, cedro, galbano, finocchio, mirto, aglio, alloro, timo, cardamomo, mandragora, rosa, mirra, menta, cipero, cumino, camomilla, nardo. Alcuni dei nomi assiri delle piante sono alla base di quelli arabi, in seguito ripresi dalla nomenclatura occidentale (vedi ‘Lardu’ nardo, ‘Murru’ mirra, ‘Kamunun’ cumino). Allora, si adoperava acqua di rose per lavarsi il capo, sciacquare la bocca; il finocchio serviva per profumare i piedi; per profumare l’alito si usava invece un misto di mirra e menta; per curare il senso di stanchezza dopo libagioni troppo abbondanti erano prescritti infusi di fiori di camomilla e viole.

    Gli Egizi costruivano giardini colmi di piante, disposte in modo perfettamente ordinato a simboleggiare la vittoria di Maat⁷ (divinità preposta al mantenimento dell’ordine cosmico e della verità) sul Caos e con al centro uno stagno a forma di Tau a rappresentare Nun, l’oceano primordiale da cui era nata ogni forma di vita.

    Nel mentre, immaginavano e raffiguravano Osiride resuscitato con la pelle verde poiché come diceva l’inno:

    Il mondo verdeggiava trionfalmente per suo mezzo.

    ‘Fare cose verdi’ era presso gli Egizi, un modo di dire: significava fare azioni positive in contrapposizione alle malvagie ‘cose rosse’. Questa contrapposizione verde-rosso la ritroviamo anche in Grecia: la verde Afrodite è sposa del rosso Ares; in alchimia troviamo il sangue rosso del leone verde e lo stesso famoso vaso del Graal è verde, ma contiene il sangue rosso.

    Verde è anche la pelle della divinità tibetana Tara che siede sul trono circondata da foglie e fiori traboccanti di vita, ma è spesso dipinta sotto ad un Buddha rosso.

    La forza che nella verde miccia spinge il fiore

    spinge i miei verdi anni;

    quella che fa scoppiare le radici degli alberi

    è la mia distruttrice.

    scriveva Dylan Thomas. ‘Green’, il verde in inglese, ha nella propria etimologia il legame con la crescita, derivando dall’antico vocabolo ‘growan’ che significa appunto ‘crescere, coprirsi di verde’ e da sempre il verde induce alla speranza, alla prospettiva di raggiungere i propri obiettivi, al potere creativo; è il colore di Afrodite dea della fertilità; è sacro all’Islam tanto da essere il colore della bandiera di Maometto, della cupola e degli interni della sua tomba.

    Il celebre dipinto Castagno in fiore di Vincent Van Gogh, rappresenta visivamente la ‘benedetta verdezza’ espressa tante volte da Santa Ildegarda di Bingen –che incontreremo più volte in questo nostro viaggio- o la viriditas degli alchimisti.

    Sukhavati è invece, il nome del giardino paradiso buddhista, che secondo il mito si trova nella ‘Terra dell’Ovest’ ed ha al centro il Ficus religiosa, l’Albero del Risveglio del Buddha.

    Meru è il nome che gli danno gli indù. Qui, si narra, hanno origine le piante dalle virtù medicinali, doni del cielo e radici della vita. Nell’Atharva Veda è scritto:

    All’origine erano le acque e le Piante del Cielo: sono loro che hanno abolito dalle membra il male e il peccato… le Piante che appartengono agli Dei, le temibili, quelle che danno la vita agli uomini. Con la vostra potenza, o Piante valorose, e la forza e il vigore, liberate quest’uomo dal male! Che vengano le sapienti alleate della mia parola! Possano le piante dalle mille foglie liberarmi dalla morte, dall’angoscia!

    I Maya onoravano l’albero Yaxchè i cui frutti rappresentavano il cielo; gli Inca adoravano il girasole.

    I Cinesi antichi credevano che il pesco fiorito esprimesse perfettamente l’armonia dell’universo.

    In un poema di Chu Yuan, poeta della dinastia Chu, vissuto tra il 339 ed il 278 a.C., considerato il primo dei poeti della letteratura cinese e eroe patriottico, autore dei ‘Canti di Chu’, leggiamo:

    Nove campi di orchidee ho coltivato…

    E ho mischiato i petali chiari con quelli azzurri della wisteria

    E il meliloto che armonizzava con la dolce cassia…

    Sublime equilibrio di materia e spirito, dunque; H’sien, gli immortali, erano coloro che avevano raggiunto tale meta di armonia, anche grazie all’aiuto dell’elisir di lunga vita, preparato a base di erbe, e raggiungevano il K’un-lun, animato da esseri pacifici; questo luogo era in realtà una montagna sacra, asse del mondo e luogo in cui soggiornano le supreme divinità.

    Nel 1000 a.C., veniva redatto un trattato, il Pen ts’ao, ovvero lo ‘Studio sulle erbe’: secondo la tradizione a scriverlo fu la stessa divinità Shen-Nung, letteralmente tradotto il ‘Divino Contadino’, che era considerato il protettore della civiltà rurale e l’inventore dell’aratro. Era anche identificato col nome di ‘Imperatore dei cinque cereali’ e sarebbe vissuto tra il 2838 e il 2698 avanti Cristo. Non solo di cereali si occupava, però, visto che secondo la leggenda egli sarebbe stato anche l’inventore del tè, nato a quanto si racconta, come rimedio contro alcuni veleni. Nel testo, che è considerato il primo trattato di medicina cinese, sono descritte 365 erbe e piante medicinali, oltre che animali e pietre - ovvero tutti i principi attivi della materia organica ancora oggi al centro della medicina omeopatica-, e disciplinati secondo le regole dello Yin e dello Yang, ovvero tenendo conto dei fattori opposti e contrari. Ogni principio semplice e droga composta, doveva essere raccolto, preparato e consumato seguendo un rigido orario che segnava il momento più propizio per l’operazione.

    Anche nella vita quotidiana si usava bruciare erbe per profumare gli ambienti e allontanare spiriti maligni: si bruciava olio di noce e fiori per preservare gli arazzi e i tendaggi; l’essenza del gelsomino ‘Sambac’ era considerata la più raffinata, ma non mancava quella di Camelia sasanqua, di meliloto, di lillà o di violetta.

    Sakaki è il nome dell’albero sacro dello Shintoismo, l’albero porta-sole, che con i suoi rami verdeggianti è associato alla purezza primordiale, alla rigenerazione e all’immortalità.

    I giardini zen giapponesi si svelano all’occhio del visitatore gradualmente, attraverso sentieri e ruscelli, per indurlo alla contemplazione; ridotti all’essenziale dei sassi e delle pietre, questi giardini riescono a trasmettere un senso di eternità e, grazie alla loro modalità di lavorazione quotidiana, mistica e astratta, conducono il giardiniere all’illuminazione. Questi filosofi- giardinieri ben sapevano che la natura irrompe costantemente nel giardino e che dobbiamo lavorarvi continuamente se vogliamo dargli e mantenere poi, la nostra impronta. Anche Sant’Agostino, in tutt’altro tempo e luogo, paragonava infatti il giardino all’anima umana: difficilmente riusciremo, diceva, ad addomesticare del tutto la nostra anima così come ci sarà impossibile addomesticare del tutto il giardino, sottoposto alla casualità, all’autonomia, agli imprevisti della natura.

    Presso i Greci le piante erano consacrate alle divinità dell’Olimpo: la quercia a Giove, il mirto ad Afrodite, l’alloro ad Apollo, l’ulivo ad Atena; a Roma il fico era sacro a Romolo, poiché la vestale Rea Silvia aveva posto la cesta con i due gemelli sotto la sua protezione.

    Tra gli antichi Germani, che vivevano in un’Europa coperta da foreste immense, gli alberi erano sacri, tanto da condannare chi avesse strappato la corteccia ad un albero, ad essere a sua volta sventrato e legato attorno alla pianta, quasi a diventarne la nuova corteccia.

    I Celti avevano sacra la quercia, gli Scandinavi il mitico frassino Yggdrasill. Verdissima era anche l’isola di Avalon, coperta di alberi di mele; qui l’acqua donava vita eterna e qui soggiornavano i mitici eroi della Tavola Rotonda, nascosti ai non iniziati, da una coltre di fittissima nebbia.

    Nel famoso ciclo mitologico irlandese detto ‘Ciclo delle invasioni’, leggiamo delle grandi battaglie sostenute dal popolo divino dei Tuatha Dè Danaan –un popolo preistorico che, provenendo forse dalla Grecia, colonizzò l’Irlanda, la Britannia e la Danimarca (‘’Regno dei Danai’’) verso la metà dell’Età del Bronzo e che prendevano il loro nome dalla dea Danu - poi mascolinizzata in Donnus- per ottenere il controllo sulle terre d’Irlanda e di come lottarono contro i Fomoriani oppressori, per liberarsi dal loro giogo; nella seconda mitica battaglia di Mag Tuired, leggiamo di come solo insegnando ai Tuatha l’arte della semina e della mietitura e ad usare l’ancora sconosciuto aratro, re Bres ebbe salva la vita. Egli insegnò anche a riconoscere le erbe officinali, che in bretone antico, erano chiamate ‘louzaouenn’, che significa letteralmente ‘rimedio’; e quindi è mitica la loro comparsa, come anche le loro virtù curative, ai giorni della Battaglia di Mag Tuired, narrata dai cantori del XI secolo.

    Giardini dunque, nelle varie tradizioni, come luoghi gradevoli, pieni di cose meravigliose, ideali per meditare, riposarsi, imparare; uno spazio fantastico, intimo e sacro, un grembo chiuso da mura in cui rifugiarsi dalla vita profana di tutti i giorni.

    In effetti, se ci pensiamo, un giardino ha inizio con un gesto intimo: una mano che tocca il terreno vivo, lo rastrella, lo lavora, sparge i semi o interra una pianta. Tutto senza mai dimenticare le esigenze della natura.

    Così accade da secoli; possono cambiare le fogge o i materiali degli attrezzi che utilizziamo, ma l’anima del giardiniere, del vero giardiniere, è rimasta sempre la stessa; tanto che anche un poeta contemporaneo americano come Stanley Kunitz, nel 2005¹⁰, paragonava la creazione di un giardino, alle stanze di un poema: le sue parti esprimono fusione, ‘scambio tra se stessi e l’atmosfera’, ed insieme segretezza, mutevolezza, potenzialità.

    Da sempre, poi, l’uomo che si esprima con onestà, osserva in un misto di stupore e terrore le grandi forze della natura, conscio che non potrà mai riuscire ad imbrigliare tali soverchianti forze. Nell’antichità iniziò a venerarle sotto la forma della Dea Madre, simboleggiando come maternità quella forza che produce la vita, i germogli, i fiori ed i frutti.

    Nanah per i Sumeri, Ecate o Selene per i Greci: era sempre la Luna a dominare e vegliare sulle forme di vita, assaporata come una strana commistione di religione e magia.

    Ecate era la dea della Luna e la signora della notte; presiedeva

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