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La foresta interiore: Viaggio iniziatico tra le piante e gli spiriti dell’Amazzonia
La foresta interiore: Viaggio iniziatico tra le piante e gli spiriti dell’Amazzonia
La foresta interiore: Viaggio iniziatico tra le piante e gli spiriti dell’Amazzonia
E-book380 pagine5 ore

La foresta interiore: Viaggio iniziatico tra le piante e gli spiriti dell’Amazzonia

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Info su questo ebook

Attraverso le molte anime del libro, un po’ diario di una profonda iniziazione allo sciamanesimo dell’Amazzonia, un po’ reportage naturalistico, un po’ manuale di botanica e un po’ saggio, l’autore porta il lettore per mano in un viaggio alla scoperta della cultura ancestrale della foresta, della medicina tradizionale, della mitologia, della magia e della natura incontaminata non senza un ricco corredo di aneddoti divertenti, curiosità e note di costume. Un itinerario dell’anima verso una dimensione più ampia dell’essere, dove i confini tra salute e malattia, bene e male, realtà e illusione si ridisegnano grazie anche a un sapiente contrappunto di temi spirituali e filosofici, citazioni e approfondimenti attraverso un puntuale e articolato apparato di note.
L’ayahuasca è probabilmente la più potente e riverita delle cosiddette piante maestre che insegnano, mostrano il cammino, dispensano doni, poteri e conoscenza. I riti e le tecniche cui il dietero ricorre per entrare in contatto con lo spirito delle piante e beneficiare dei loro poteri non sono concettualmente così diversi da quelli che, in ambiente indiano, il tantrika o il bhakta utilizzano per incorporare le divinità e acquisirne i poteri, le cosiddette siddhi.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2022
ISBN9788863656442
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    Anteprima del libro

    La foresta interiore - Michele Maino

    PREFAZIONE

    di Stefano Manera

    Quando, nel giugno del 2020, durante una cena a casa di amici, ho conosciuto Michele Maino, non immaginavo che quell’incontro si sarebbe tradotto in amicizia e che da quella amicizia sarebbero scaturite esperienze molto importanti per la mia vita sia personale sia professionale.

    Quella sera Michele mi colpì molto per la sua cultura e per la sua abilità di trattare argomenti che per me non erano di facile comprensione. Oltre alla competenza, nei suoi racconti percepivo entusiasmo autentico e coinvolgente. Da allora abbiamo parlato molte altre volte delle tradizioni sapienziali sciamaniche, dell’utilizzo delle piante maestre e delle cosiddette cerimonie, in cui si utilizzano alcune specifiche modalità per entrare in contatto profondamente col nostro Sé e per rinnovare il rapporto di radicamento e di appartenenza con la Natura di cui noi tutti facciamo parte.

    Per questo motivo ho accettato con gioia, gratitudine e onore la proposta di scrivere questa prefazione al suo La foresta interiore. Viaggio iniziatico tra le piante e gli spiriti dell’Amazzonia.

    Il libro si svolge sotto forma di diario intimo scritto durante il viaggio che l’autore ha intrapreso nell’Amazzonia peruviana, ospite per alcuni mesi presso uno sciamano.

    In realtà non si è trattato di un viaggio turistico o di piacere, ma di un vero e proprio "yātrā verso il luogo dove l’essere umano non è ancora completamente posseduto da quello che gli indiani algonchini chiamano wetiko, la pandemia psico-spirituale che ha ammalorato il mondo", come ben descrive lo stesso Michele. Un viaggio non privo di sacrifici e di sofferenza, così come tutti i viaggi introspettivi alla ricerca di un senso.

    Leggendo questo libro mi sono posto tre domande che possono aiutarci a comprendere il senso di ciò che Michele, attraverso il suo diario, ha voluto trasmetterci.

    Qual è stato realmente il ruolo delle medicine locali nel rendere possibile questo viaggio iniziatico?

    La storia di Michele con la medicina ha inizio nel 2016, quando si rivolse ad essa come fosse stato chiamato, per risolvere alcuni problemi di salute.

    Michele mi ha raccontato che ben presto si accorse che quei problemi di salute erano il riflesso di ben altri problemi che lavoravano come acqua sulla roccia a livello dei piani sottili.

    È lì che avvenne l’incontro capace di trasformare la persona, di realizzare in quel momento (una vera e propria epifania) il potenziale trasformativo delle medicine amazzoniche per quanto riguarda l’interiorità, il carattere e la spiritualità.

    Agendo come un solvente intelligente sui blocchi, sulle memorie, sui serbatoi di energia stagnante in tutti corpi che ci compongono, dal soma vero e proprio ai corpi sottili, le medicine ci purgano (l’ayahuasca, ad esempio, viene chiamata anche la purga) dagli acciacchi fisici, ma anche dai pesi morti, dalle convinzioni, dai pregiudizi cognitivi, dagli atteggiamenti appresi, dagli automatismi derivanti dall’educazione e (come anch’io ho scoperto poi) dal peso dei fattori epigenetici e transpersonali. Questa pulizia (che, beninteso, deve diventare una buona pratica consapevole e attenta e non certo un vezzo alla moda da fare una tantum) permette che l’insieme dei corpi di cui siamo costituiti diventi più sensibile, più trasparente e più capace di osservare.

    Michele continua il suo racconto con l’entusiasmo genuino di un bambino, sorseggiando una deliziosa tazza di tè verde e fumando un mapacho: "In questo senso la medicina ha accelerato quel processo che ho iniziato molti anni addietro con la meditazione vipassanā (dal pāli, appunto, «visione profonda»). Ho sperimentato ancora una volta che, proprio come promette questa pratica buddhista, quando la mente è tranquilla, docile e ubbidiente, allora una nuova vista sorge da dentro. L’ignoranza (avijjā) di cui parla il canone buddhista e per il quale è causa di tutta la sofferenza (dukkha) dell’uomo, non si elimina aggiungendo nozioni o altro, bensì togliendo ciò che ingombra la vista interiore e cioè, perlopiù, il pensiero, la reattività compulsiva, le credenze, i desideri grossolani e le ambizioni egoistiche".

    Si compie dunque l’esperienza del lasciare andare anche attraverso una liberazione fisica in grado di riconsegnare significato alla nostra innata sofferenza e di riconnetterci profondamente a tutti i livelli del nostro sentire per riscoprire ciò che possiamo definire come la fonte della nostra autenticità.

    In che modo le medicine locali possono avere un ruolo nella ricerca del sé per l’uomo di oggi?

    Senza dubbio, tra le medicine locali, la più famosa è l’ayahuasca (termine di origine quechua costituto da aya, «morti», «spiriti» e huasca «liana», «corda», ovvero «liana degli spiriti»), una pianta che, secondo la tradizione sciamanica locale, permette il contatto con il mondo degli spiriti e degli antenati.

    L’ayahuasca è un decotto composto appunto da una liana (Banisteriopis caapi) e dalle foglie di una seconda pianta (Psychotria viridis o Diplopterys cabrerana) molto ricco di DMT (dimetiltriptammina), un alcaloide della classe delle triptammine, anche detta molecola dello spirito, capace di produrre effetti di dissociazione e stati modificati di coscienza. L’ayahuasca è utilizzata in molti rituali amazzonici ed è alla base di culti religiosi sincretistici, oltre a rientrare in alcuni percorsi di analisi psicoterapica perché è definita pianta maestra, cioè una pianta capace di insegnare proprio attraverso una percezione non consueta della coscienza.

    Mentre per stato ordinario della coscienza intendiamo la veglia, gli stati modificati sono invece altre modalità di funzionamento della mente come i sogni, i momenti visionari, l’estasi…

    La nostra società ritiene che l’unico stato di coscienza utile sia quello ordinario, e che gli altri siano inutili o patologici. Il problema, anche clinico, del possibile lavoro con gli stati di coscienza è che spesso essi rimangono pericolosamente dissociati, ma durante la cerimonia con l’ayahuasca questo pericolo è ridotto al minimo proprio grazie alle caratteristiche della cerimonia stessa. La grande potenza di queste cerimonie è che la medicina è in grado di far entrare la persona in stati alterati in cui sono presenti visioni, ricordi, materiale inconscio personale, transpersonale o transgenerazionale. È possibile esperire anche intuizioni che, in molti casi, si sono rivelate utili per il cammino conoscitivo individuale.

    L’aspetto molto interessante di questa esperienza è che la persona che assume la medicina all’interno della cerimonia non è inglobata da questa nuova coscienza con un annientamento del Sé, ma è come se divenisse un osservatore esterno (il cogito di trance definito da Georges Lapadasse) che guarda allo svolgersi dell’accaduto, rimanendone completamente consapevole. Proprio per questo motivo, la cerimonia non cancella la memoria, ma l’individuo rimane perfettamente in grado ricordare l’intero vissuto.

    Il pensiero scientifico occidentale propone una divisione netta tra corpo e mente in seno alla quale vige un’idea egoica per la quale ogni individuo ha una sua dimensione, un suo inconscio, una sua mente. Dal punto di vista scientifico sappiamo che non è così: il dualismo corpo-mente è il frutto del pensiero riduzionista, un prodotto culturale neoliberista.

    Oggi sappiamo che questa visione è ciò che di più lontano possa esserci dalla nostra realtà e neuroscienziati come Humberto Maturana, Francisco Valera e Vittorio Gallese ci insegnano che la cognizione è prerogativa di tutto il nostro essere e che non esiste distinzione o differenziazione, ovvero che la mente non è esclusa dal corpo.

    L’uso sapiente e responsabile, condotto da guide esperte, delle medicine tradizionali può essere una risorsa importante di conoscenza del Sé e di liberazione di tutte quelle tossine psichiche che fiaccano o indeboliscono il nostro cammino evolutivo.

    Non per ultimo, proprio l’ayahuasca viene studiata presso il centro Studi e Ricerche J. Bléger di Rimini, in collaborazione con il Centro Takiwasi di Tarapoto, in Perù, dove la cerimonia è parte integrante delle cure per le dipendenze patologiche.

    Quale può essere il male più grande dell’uomo di oggi?

    Questa è senza dubbio la riflessione di maggior interesse ma che, se condotta malamente, potrebbe condurci a disperdere la nostra capacità di comprensione. Credo fermamente che il grande male dell’uomo moderno sia stato quello di voler escludere e negare la Natura dalla propria esistenza. Tutte le tradizioni spirituali, sapienziali o mediche hanno sempre incluso fortemente la Natura all’uomo, essendone quest’ultimo parte intrinseca. Tanto più ci allontaniamo dalla Natura, tanto più la nostra rovina si compie.

    In Amazzonia, coloro che si pongono come tramite tra Natura e uomo sono i curanderos, uomini e donne in grado di interpretare i segni naturali, di canalizzare l’energia fornita dalle piante e renderla utile per i processi purificativi e conoscitivi che si attuano. Anche in Amazzonia, tuttavia, il curanderismo non è rimasto puro, ma è stato colonizzato dalla venuta degli europei, dal cattolicesimo e dal neoliberismo sfrenato. Nonostante questo, ritengo sia importante utilizzare comunque le conoscenze del mondo amazzonico, mantenerle in vita, custodirle come tradizioni preziose.

    Per fare tutto questo è però fondamentale conoscere le medicine in modo approfondito, consapevole e serio: ciò significa che va evitato qualsiasi approccio o atteggiamento superficiale e che è importante la guida di persone esperte che abbiano alle spalle molti anni di pratica in molteplici situazioni. Come sempre, serve tempo, pazienza e dedizione.

    Esistono certamente curanderos che possono definirsi metropolitani, inseriti cioè in un contesto moderno e attuale, e credo sia possibile portare le medicine tradizionali anche in questo ambito, anzi, credo che ce ne sia un grande bisogno, commisurato all’immenso bisogno di riscoprire noi stessi nella nostra autenticità.

    Abbiamo a che fare con energie molto forti e dobbiamo però riuscire a non snaturare questa preziosa tradizione, a non ridurla, a non banalizzarla, a non renderla oggetto di consumo ma, al contrario, proteggerla e rispettarla, tenendo conto di tutte le differenze tra la cosmologia amazzonica e quella occidentale, e questo dipende unicamente dalla nostra volontà di comprendere chi siamo, dalla capacità di approfondimento e dallo studio attraverso un impegno e un lavoro molto lunghi.

    Proprio per questo La foresta interiore. Viaggio iniziatico tra le piante e gli spiriti dell’Amazzonia è un testo che si prefigge questi obiettivi e che ritengo sia davvero prezioso nel cammino di conoscenza di noi stessi. E proprio per questo non posso che essere grato a Michele Maino per averlo voluto scrivere.

    Milano, 2 dicembre 2021

    PREFAZIONE DELL’AUTORE

    Questo libro è nato quasi per gioco come un diario epistolare, un modo per condividere le mie esperienze con gli amici più cari mentre vivevo isolato nel folto della foresta del distretto di Loreto, in Perù, sotto la guida di Don Gardel, il mio maestro sciamano di etnia cocama.

    Scrivevo quasi ogni giorno sull’unico strumento che avevo a disposizione e cioè il cellulare, e man mano che procedevo ho cominciato a pensare che questi appunti di viaggio potessero diventare un vero e proprio libro.

    Lentamente, ma con decisione, si faceva strada in me la consapevolezza del grande privilegio di aver vissuto un’esperienza di apprendistato così significativa e del mio desiderio, quasi un’urgenza, di raccontare la straordinaria bellezza e potenza della selva, dei suoi abitanti, della sua magia e del cammino spirituale che mi ha permesso di compiere: ho ritenuto che, come ex-giornalista, avrei potuto scrivere un reportage di viaggio da condividere con altre persone che hanno i miei stessi interessi proprio in un momento in cui l’attenzione per lo sciamanesimo, l’ancestrale saggezza dei popoli della foresta, le piante maestre e l’ayahuasca è davvero molto vivo e, in Italia, la letteratura su questo argomento è appena agli inizi.

    Ho voluto anche mettere a disposizione il mio paziente lavoro di classificazione delle specie botaniche e animali da cui ero circondato, per ciascuna delle quali ho individuato il taxon appropriato, e spero che questo lavoro sul campo possa risultare prezioso sia per i cultori dello sciamanesimo e delle piante maestre sia per gli appassionati di botanica.

    Rientrato in Italia, ho rivisto e organizzato il libro in capitoli e ho ritenuto che un ampio e articolato apparato di note potesse offrire più livelli di lettura e vari gradi di approfondimento senza appesantire il corpo del testo, dando così anche un valore didattico a una materia complessa e in parte ancora relegata alla sola letteratura accademica.

    La vita nella foresta a contatto con la Natura ancora incontaminata mi ha permesso di approfondire la conoscenza di quel mondo soprasensibile, spirituale che in Occidente, a causa dello stile di vita frenetico e materialista che conduciamo, tendiamo a ignorare o addirittura a negare: il mio più profondo desiderio è quello di svelare, almeno in parte, l’intima grammatica che regola la comunicazione con il mondo spirituale e che nella foresta è ancora viva e significativa, mentre qui da noi è purtroppo quasi del tutto perduta, affinché sempre più persone possano (ri)conoscerla e (ri)appropriarsene.

    Non da ultimo, questo libro è anche una preghiera rivolta agli spiriti delle piante che mi hanno dato e continuano a darmi e a insegnarmi così tanto, e a tutti coloro, oggi come nel passato, che hanno permesso la sopravvivenza di questa tecnologia sacra e l’hanno portata con amore fino a me, fino a noi.

    M.M.

    LA FORESTA INTERIORE

    15 APRILE

    Destinazione Amazzonia

    Non senza una certa dose di preoccupazione, ci avviciniamo all’aeroporto di Linate. L’auto si ferma davanti all’unico ingresso aperto, presidiato da militari nascosti in tute mimetiche e mascherine chirurgiche. A sorpresa, anche mio padre è venuto a salutarci. Lo intravedo in piedi, con la sigaretta in bocca, accanto ai soldati. Ci fermiamo a parlare qualche minuto vicino all’ingresso. «Bisogna essere matti per fare queste cose!», esordisce con un sorriso teso. Simona risponde che i matti mandano avanti il mondo. Segue un confuso tentativo da parte di papà di distinguere matti e pazzi che si risolve indicando i primi come virtuosi e i secondi come pericolosi. Il suo sforzo di risemantizzare la malattia mentale si conclude però velocemente, lasciando a me e Simona l’incertezza di appartenere alla prima o alla seconda categoria.

    «Non ti preoccupare, papà. Sono stato in situazioni molto più pericolose di una pandemia nella mia vita. Ti ricordi quand’ero in Cisgiordania durante la guerra tra Israele e Libano, nel 2007? In confronto l’Amazzonia è una passeggiata…».

    Papà liquida le mie parole con: «Ma che guerra e guerra!».

    Non si ricordava di quel conflitto? O la Covid-19, insidiando molto di più la sua tranquillità, gli sembra più concreta e grave?

    Non c’è tempo per approfondire, l’aereo non aspetta. Ma io riesco a vederlo, sotto i suoi baffi, quell’aspetto nascosto del suo sorriso che tradisce l’orgoglio di un padre di avere un figlio matto.

    Lo abbraccio forte per fargli capire quanto il suo gesto di venire ad accomiatarmi sia stato prezioso per me. Questo dialogo tra cuori, al di là dei formalismi del linguaggio e al riparo dalle trappole del pensiero, segna la prima tappa del viaggio, il mio yātrā¹ verso il luogo dove l’essere umano non è ancora completamente posseduto da quello che gli indiani algonchini chiamano wetiko,² la pandemia psico-spirituale che ha ammalorato il mondo.

    A dispetto del mio paziente lavoro di preparazione dei documenti, delle autocertificazioni e delle giustificazioni, nessuno ci chiede nulla. La polizia, che bivacca in borghese attorno a un tavolino all’ingresso, nemmeno ci degna d’uno sguardo. L’aeroporto è deserto, spettrale, ma i pochi viaggiatori appaiono rilassati. Niente file, niente corse. I controlli avvengono nella massima tranquillità e senza la solita furia. Lentamente, l’aeroporto ci digerisce e la pacifica peristalsi dei suoi tortuosi corridoi degrada e assorbe l’inquietudine.

    Sul primo aereo Simona, la mia compagna di viaggio, e io, abbiamo posti separati. Quindi, quando tutti sono seduti, decide di cambiare posto. «Aspetta, chiediamo all’assistente di volo», le dico. Mi guarda con un velo di compatimento, pensando che avessi bisogno di un’autorizzazione e che mancassi di risolutezza. Lei non mi conosce ancora, io tendo a essere ribelle e a fare senza chiedere, ma questa volta ho avvertito l’impulso di rivolgermi a quella hostess come se fosse la cosa più naturale del mondo, una nota già scritta nella divina partitura di questo viaggio nel viaggio.

    «¡Claro que sí! ¿Ustedes están enamorados?»,³ mi risponde l’assistente di volo, una bella signora sorridente dal castigliano morbido e venato d’un leggero accento dell’Europa dell’Est: «Qué lindo es el amor en estos tiempos en los que todos se odian. ¡Siéntese aquí!»,⁴ continua indicando due posti vicini in una fila più larga, con spazio per le gambe, proprio quei posti che il giorno prima avevo evitato di aggiudicarmi in fase di check-in perché mi sarebbero costati venticinque euro in più.

    A Madrid ci accoglie il ventre cavo del terminal, vuoto, silenzioso. Una bella struttura in legno che ricorda lo scheletro di un rettile copre l’hangar, e questo ci pare presagire l’architettura della maloca, la tipica costruzione amazzonica dove si tengono le cerimonie di medicina.

    Una navetta senza conducente ci trasporta da un non luogo a un altro. Avvicinandoci al gate dobbiamo esibire l’esito del tampone e la declaración jurada richiesta dal governo peruviano per entrare nel Paese. Ci chiamano uno per uno, ma fatico a comprendere il mio nome pronunciato alla spagnola. Ci avvertono che dobbiamo indossare la pantalla, lo scudo facciale in plastica che tanto sudore causerà in seguito.

    Pochissimi i passeggeri, un evento mai visto prima nella mia intera vita! E così ognuno di noi può occupare i quattro sedili centrali e dormire per quelle altrimenti interminabili tredici ore di volo. Niente dolore alle gambe, niente stanchezza, niente jet lag. Una combinazione fortunata. Comincio a rendermi conto che questo viaggio si svolge sotto una buona stella, come benedetto da quegli spiriti che, da lì a qualche giorno, avrei incontrato nella foresta.

    16 APRILE

    Dieteros

    A Lima, attendendo il bagaglio, vengo avvicinato da un poliziotto con un cane. Da sotto lo scafandro anti-Covid, l’agente mi sorride: «No se preocupe. Eso es un perro anti-fruta. ¿Usted tiene fruta?».¹ Apro lo zainetto, estraggo una mela che contavo di tenere per il volo successivo e la consegno, manco fosse quella avvelenata di Biancaneve!

    In poco meno di un’ora cambio i soldi, eseguo, per evitare l’aislamiento,² un ulteriore tampone in un’installazione sanitaria appena fuori dall’aeroporto circondata da militari in assetto antisommossa e acquisto la SIM card peruviana. Ma, naturalmente, perdo la coincidenza per Pucallpa. Ma anche questo problema sembra sciogliersi come neve al sole: non solo mi cambiano il volo senza penali, ma mi mettono accanto a Simona che, più previdente di me, aveva prenotato quello successivo.

    Dall’oblò dell’aereo vediamo allontanarsi sotto di noi la Cordigliera delle Ande quando entriamo in una massa di nuvole che pare infinita: è il respiro della foresta che prende forma.

    Come effetto dei protocolli anti-Covid, ai quali il Perù sembra attenersi rigidamente, davanti all’aeroporto di Pucallpa non c’è la solita ridda di tassisti in motocarro³ che normalmente assale i viaggiatori offrendo i propri servizi. I mezzi devono sostare fuori dal perimetro dell’aeroporto. Ed è lì che attendiamo Foster, il tuttofare di Simona.

    Una città, Pucallpa, fatta di case basse, come una favela di lusso, piena di giardini, ricoperta di variopinti murales dai quali ammiccano colibrì, serpenti e sciamani. Quarantacinque minuti di viaggio, finalmente senza mascherina né schermo, anche se proprio lì, per la polvere, sarebbe stata più utile, su strade di terra battuta, dissestate e dilavate dall’acqua che, in questa stagione, ricopre completamente il suolo della foresta.

    A casa, ad accoglierci, ci sono Edward, il marito di Simona, Mario e Stellina, i loro gatti, e un piccolo gruppo di donne shipibo⁴ loro amiche, venute ad accoglierci.

    Per pranzo, Edward ha cucinato per noi una zuppa di pesce pescato il mattino stesso, una lieta variazione all’eterno bocadillo⁵ che ha funestato la nostra altrimenti perfetta crociera.

    Simona ed Edward abitano in una deliziosa, tipica casetta della campagna amazzonica, un semplice edificio di legno che, in Europa, non potrebbe resistere alle intemperie per più di un paio di mesi. Circondata da un lussureggiante giardino di piante locali, la casetta ha pareti sottili, quasi inesistenti. Effimeri muri capaci di proteggere solo dalle zanzare permettono all’aria e alla luce di inondare a loro piacimento l’interno. Mentre mangiamo, intorno alla casa vedo dei colibrì multicolori svolazzare frenetici tra le piante mentre i due gatti si strusciano affettuosamente contro le nostre gambe.

    La calura comincia a farsi sentire e, quando il sole fa capolino tra le nuvole, la temperatura si innalza vertiginosamente. In pochi secondi sono completamente sudato, una sensazione che non provavo da molti mesi. Il calore non sembra voler mollare la presa sul mio corpo nonostante la doccia, rigorosamente fredda.

    Penso alla visione che George Ohsawa⁶ aveva della malattia: i raffreddori, che in quasi tutte le lingue del mondo sono chiamati freddo,⁷ non sono altro che l’eccesso di freddo accumulato con l’alimentazione durante l’estate e che, conoscendo bene il proprio corpo e come si comporta l’ambiente, si potrebbe evitare, per esempio introducendo alimenti riscaldanti come cereali e zucca cotti già a partire da Ferragosto: tutti i gelati, la frutta, l’alcol, i cibi crudi o ghiacciati consumati durante la stagione calda per rinfrescarsi si accumulano e, ai primi freddi, questo eccesso di freddo, di yin, per usare la terminologia taoista usata dalla macrobiotica di Ohsawa, esce dal corpo sotto forma di muco, lacrime e secrezioni, infiammando le mucose. Allo stesso modo, i problemi respiratori e la febbre della fine dell’inverno e del principio della primavera non sono altro che l’eccessivo calore, lo yang, accumulato durante la stagione fredda per il consumo maldestro di cibi pesanti, troppo caldi, e per l’uso improprio di coperte, maglioni e riscaldamento domestico: ai primi caldi, e per me lo si è visto quando sono partito da Milano dove c’erano appena dieci gradi, tutto questo calore sfiata sotto forma di muco indurito, febbre, dolori articolari, sonnolenza e vampate.

    Nel pomeriggio, mentre fumo finalmente un mapacho, la tipica sigaretta di Nicotiana rustica,⁸ il tabacco selvatico che è anche una potente pianta maestra della tradizione sciamanica locale, tento di recuperare il risultato del tampone eseguito al mattino all’aeroporto di Lima. Ma il sito non vuole riconoscere le mie credenziali d’accesso. Così telefono e, dopo almeno una mezz’ora di musichetta e menu vocali in castigliano, riesco a parlare con un’impiegata che mi aiuta a risolvere il problema.

    Finalmente libero dallo spettro della quarantena, ora posso pensare a come raggiungere tranquillamente Iquitos dove avevo programmato di trascorrere qualche giorno di vacanza da Fabrizio, l’amico di un amico che vive da anni nella foresta di Loreto, prima d’iniziare il lavoro con le piante a Pucallpa.

    Mi avevano parlato di un barco rápido che avrebbe dovuto collegare Pucallpa e Iquitos, attraverso il fiume Ucayali, impiegando solo dodici ore. Ma temo che si trattasse di una leggenda urbana: un barco c’è, anzi due. Uno ci mette tre giorni o più, mentre un collegamento commerciale impiegherebbe ventotto ore. Sono troppo stanco del viaggio per passare un’intera giornata su un altro mezzo di trasporto. Sicché mi collego al sito della Latam, una compagnia aerea cilena molto attiva qui in Perù, per un volo che normalmente dovrebbe collegare le due città in circa quaranta minuti. Ma, complice la Covid e il weekend, l’unico volo disponibile è una combinazione con scalo a Lima, quindi altre cinque e più ore imbavagliato nello schermo facciale e nella mascherina. Comunque, ho fretta. E la fretta ha un prezzo. Ci metto almeno un’ora e mezza per comprare il biglietto online, un po’ perché il sito è farraginoso, un po’ perché la connessione è ballerina: alla fine non sono neanche sicuro di averlo davvero comprato! Per fortuna, dopo un’ora mi arriva una mail con la prenotazione e l’intimazione a procedere con il check-in online che, naturalmente, non riesco a portare a termine! Poco male, i peruviani sono mediamente gentili e disponibili, me la vedrò domattina all’aeroporto. Risolte le incognite legate ai trasporti, ora devo trovare un posto dove trascorrere la notte: Simona ed Edward non hanno un letto per gli ospiti.

    Così mi trasferisco da Jessica, una signora che, una volta, gestiva un famoso albergo specializzato per i dieteros. Il dietero è colui che, nell’ambito del sapere tradizionale della medicina amazzonica, dieta⁹ una pianta: chi, cioè, affronta un periodo di isolamento e di restrizioni alimentari e assume ogni giorno una determinata pianta, perlopiù sotto forma di decotto o di infusione, secondo determinate regole e posologie.

    Con il sopravvenire della Covid e la conseguente assenza di gringos,¹⁰ Jessica aveva perso il lavoro.

    Con il marito Rolando ha costruito un paio di tambos¹¹ nei quali ora può alloggiare i pochi stranieri che ancora si avventurano fino a qui, nella cittadina di Yarinacocha, vicino a Pucallpa. Jessica mi mostra il suo meraviglioso giardino nel quale già riconosco qualche pianta maestra: in mezzo ai fiori, le papaye e le guavas,¹² ci sono l’albahaca,¹³ il piñon colorado,¹⁴ il palillo, cioè la curcuma,¹⁵ e la bobinsana¹⁶ con i suoi caratteristici fiori a ciuffetto che paiono dei pennacchi bianchi e viola.

    Sono molto stanco e non chiedo nemmeno da mangiare. Mi lavo con l’acqua gelida e finalmente, rigenerato e soddisfatto, mi distendo sul letto quando Jessica bussa alla porta. Le apro, vestendomi alla bell’e meglio, e mi presenta un vassoio con cibo e succo di maracujá del suo orto: «Es comida por dieteros, no hay chancho, ni azúcar, ni sal».¹⁷ Non me la sento di dirle che non mangio carne dopo che ha cucinato con amore uno dei suoi polli apposta per me; in effetti, questo suo pollo ha la carne soda e ferma come solo i polli ruspanti hanno, ed è delizioso così come il riso e le verdurine che l’accompagnano. Sazio e riconoscente mi appoggio al cuscino e, nonostante la musica altissima, caratteristica del weekend nei villaggi del Sud America, sprofondo beatamente nel sonno.

    17 APRILE

    Jessica e Testa d’ananas

    Questa mattina mi sveglio all’alba, intorno alle cinque, molto riposato, e mi metto a scrivere. Dopo una doccia sublimemente ghiacciata, sento Jessica che bussa di nuovo alla porta. Questa volta porta un vassoio con un porridge caldo alla banana con una spolverata di cannella in polvere, una macedonia di papaya,¹ banana e piña, cioè l’ananas,² del suo orto, e un bicchierone con l’acqua di due noci di cocco che Rolando ha appena aperto per me.

    Mi avvento sull’acqua di cocco ma poi esito: nonostante sia un alimento eccezionale, ricco di vitamine, sali minerali e praticamente privo di calorie, in effetti è leggermente lassativo se assunto in grandi quantità. Forse non è il caso di berne così tanto prima di prendere un aereo. Però alla fine cedo: è talmente squisita!

    Quando Jessica torna per riprendersi il vassoio capisco che ha voglia di chiacchierare e allora le chiedo delle sue piante, sicché mi invita a seguirla e così ci addentriamo nel suo giardino.

    Mi sembra di immergermi in un quadro di Henri Rousseau, ma senza le tigri. La casa in legno, su due piani, con una veranda aperta e un porticato intorno, è circondata da tre immensi alberi di mango, dei quali i fusti e il portamento mi ricordano molto quelli del nostro noce: però non è la stagione giusta per i frutti. A terra, sotto gli alberi, tra le migliaia di ossi di mango, i voluminosi e inconfondibili semi di questo frutto, stanno acciambellati i numerosi figli di Mister Brown, il cane che un ospite britannico aveva lasciato a Jessica e del quale lei, da allora, s’era presa cura. Ora che, con la Covid, è più facile che avvengano intrusioni di ladruncoli, è felice di avere il suo piccolo esercito di cani!

    Mi conduce fino agli

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