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La coerenza dell'Ordinamento: Il Lavoro come "causa" della Costituzione
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La coerenza dell'Ordinamento: Il Lavoro come "causa" della Costituzione
E-book263 pagine3 ore

La coerenza dell'Ordinamento: Il Lavoro come "causa" della Costituzione

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Info su questo ebook

Il volume raccoglie due articoli di teoria costituzionale: "Il lavoro come causa della Costituzione" verte sul significato della formula «Repubblica fondata sul lavoro», respingendo l'interpretazione classista della stessa: per la quale l'art. 1 sarebbe soltanto un richiamo alla tutela dei lavoratori. Viene ugualmente respinta l'opinione di chi considera la formula costituzionale una mera espressione letteraria. Prendendo spunto dall'insegnamento di Costantino Mortati, è invece proposta una lettura in chiave contrattualistica, dell'art. 1 e dell'intera Carta del '47, in modo da attribuire un preciso significato giuridico al fondamento della Costituzione, dal quale far derivare diritti e doveri reciproci tra Stato e cittadini. "La coerenza come principio generale dell'ordinamento giuridico" affronta invece il tema del confronto tra positivismo e neocostituzionalismo, andando alla ricerca - mediante una rilettura di Kelsen - di una soluzione in grado di contemperare le esigenze della giustizia con la sovranità popolare e la certezza del diritto. L'introduzione, insieme allo scritto su Il giusto per natura secondo Aristotele, abbozza il tema del positivismo di matrice aristotelica.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2018
ISBN9788827833803
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    Anteprima del libro

    La coerenza dell'Ordinamento - Riccardo Delussu

    633/1941.

    Introduzione

    Questo volume raccoglie due saggi scritti nell’estate del 2017. L’elaborazione del primo, Il lavoro come causa della Costituzione, è iniziata nel 2010 traendo spunto dall’intervento di Roberto Nania - Riflessioni sulla costituzione economica in Italia: il lavoro come fondamento, come diritto, come dovere - al Seminario Attualità dei principi fondamentali della Costituzione in materia di lavoro, che si è svolto nel giugno del 2008 presso la Camera dei deputati. Il secondo saggio, La coerenza come principio generale dell’ordinamento giuridico, riprende invece l’argomento della mia tesi di dottorato in Teoria dello Stato, Profili costituzionalistici del pensiero di Norberto Bobbio, discussa nel dicembre 2016 all’Università Sapienza di Roma.

    In tale occasione ho avuto modo di porre in evidenza come sia tornata d’attualità l’idea che il rispetto della legge non sia da solo sufficiente ad assicurare la giustizia. Essa rappresenta il tema principale nella riflessione politico-giuridica del nuovo millennio, caratterizzata dal diffondersi di teorie ispirate al neocostituzionalismo, e dalle inevitabili ripercussioni pratiche delle stesse. Tale approccio teorico pone in evidenza la necessità d’interpretare la legge, in modo da ottenere la «giustizia del caso concreto». Al posto della c.d. applicazione meccanicistica del diritto, che dietro un’oggettività impossibile da raggiungere nasconderebbe la soggettività dell’interprete, si propone di «regolare» tale soggettività: ancorandola al rispetto dei valori costituzionali. In estrema sintesi, queste teorie si basano sull’autodisciplina degli operatori giuridici che, non più tenuti al pedissequo rispetto del testo normativo, sarebbero in grado di trovare la soluzione corretta direttamente nella Costituzione.

    Per raggiungere tale risultato - ammesso e non concesso che sia possibile - assume importanza fondamentale la diffusione della cultura costituzionale. Per lo stesso motivo è ugualmente necessaria, quasi propedeutica, la diffusione della cultura giuridica, dalla quale deriva la Costituzione. Si spiega così la scelta di concentrare l’attenzione sul pensiero di Norberto Bobbio che, pur non affrontando in maniera diretta i temi tipici del diritto costituzionale, rappresenta un punto di riferimento obbligato per chi intenda occuparsene. É infatti innegabile che tutti coloro che oggi insegnano o studiano il diritto costituzionale siano direttamente - o indirettamente - influenzati dagli studi di teoria generale del diritto pubblicati da Bobbio nei primi decenni di vita della Repubblica. Anche in virtù della diffusione extra-accademica del suo pensiero, usando una metafora familiare a chi si occupa di diritto, l’opera di Bobbio si può dunque considerare tra le fonti della cultura giuridica italiana.

    C’è allora da chiedersi come mai, il più volte dichiarato positivismo di Bobbio, non sia d’ostacolo all’affermarsi delle teorie di stampo neocostituzionalistico. Una possibile risposta si può fornire partendo da uno dei passi più celebri della produzione bobbiana, quello in cui afferma: «Per quel che può valere, adduco come esempio il mio caso personale: di fronte allo scontro delle ideologie, dove non è possibile alcuna tergiversazione, ebbene sono giusnaturalista; riguardo al metodo sono, con altrettanta convinzione, positivista; per quel che si riferisce, infine, alla teoria del diritto, non sono né l’uno né l’altro».

    Nel pensiero di Bobbio coesistono dunque un’ideologia giusnaturalista e un metodo positivista, dal momento che l’ideologia dell’interprete condiziona inevitabilmente l’analisi scientifica delle norme giuridiche. Di conseguenza, nel definirsi ideologicamente giusnaturalista, il filosofo torinese sembra aprire le porte all’idea che gli ideali di giustizia possano condizionare l’interpretazione del diritto (come vogliono le teorie neocostituzionalistiche).

    Tale lettura deve però tenere conto del particolare tipo d’ideologia di Bobbio, per il quale gli ideali di giustizia derivano delle norme giuridiche - inizialmente consuetudinarie, in seguito positive - che, a loro volta, derivano dal bisogno di socialità dell’essere umano. In questa prospettiva, nel momento in cui una norma è capace di condizionare il comportamento dell’uomo entra a far parte della natura delle cose, diventando un qualcosa che si può, e si deve, conoscere scientificamente al pari di ogni altro fenomeno. Conoscenza dalla quale si ottengono, per astrazione, i valori su cui Bobbio basa la sua Teoria della giustizia. Incentrata sul valore della convivenza nel rispetto della libertà individuale. Tale teoria funge da parametro di riferimento nei confronti delle norme giuridiche, ritenute più o meno giuste a seconda della loro capacità di soddisfare le esigenze della vita associata. Si tratta, in definitiva, delle norme legate all’ideologia del giusnaturalismo, nei cui confronti il positivismo giuridico, in quanto portatore di valori propriamente giuridici, come quello della certezza del diritto, si pone in rapporto di mezzo attraverso il quale raggiungere il fine. In altre parole, nel considerarsi ideologicamente giusnaturalista, Bobbio non fa altro che affermare la sua preferenza verso le norme giuridiche espressione di tale ideale. Al momento di applicarle non ha però nessuna intenzione di abbandonare il metodo positivistico d’ispirazione kelseniana.

    Di conseguenza, se sotto il profilo ideologico la vera differenza tra Kelsen e Bobbio consiste nella scelta del secondo di non accettare l’ordinamento a prescindere, ma di esprimere la propria preferenza verso disposizioni giuridiche provviste di un determinato contenuto, dal punto di vista metodologico non c’è invece nessuna differenza sostanziale tra i due autori.

    Nonostante ciò, la convinzione che il metodo di Kelsen sia da abbandonare, in quanto la dottrina pura, con la sua irrealizzabile pretesa di escludere tutto ciò che non è giuridico dall’applicazione del diritto, si tradurrebbe in un mero mascheramento della soggettività dell’interprete, sembra risalire ugualmente all’insegnamento del filosofo torinese. Nella raccolta di saggi che porta il titolo Diritto e potere il realismo di Bobbio tende, infatti, a porre l’accento sul secondo termine: in particolare quando sostiene che, nell’applicare il diritto, l’interprete non agisce in maniera meccanica ma compie una serie di valutazioni, inevitabilmente condizionate dalla sua ideologia. Pertanto, si può sostenere che a partire da queste lezioni abbia preso corpo l’esigenza di disciplinare tale potere all’insegna della morale costituzionale. Dalle critiche di Bobbio alla Grundnorm sembra infatti derivare la consapevolezza del primato del potere sul diritto e, di conseguenza, la necessità di adeguare il diritto alla giustizia, che è oggi alla base del pensiero neo-costituzionalista (se il diritto deve cedere, meglio che ceda di fronte alla giustizia, ossia a un potere giusto che non a un potere ingiusto).

    L’idea che il positivismo di Kelsen non offra alcuna guida all’interprete è però estranea al sistema elaborato dal giurista praghese. La dottrina pura descrive senz’altro un contenitore vuoto, la cui esistenza è però giustificata dalla capacità di accogliere i contenuti offerti da ogni ordinamento giuridico. Saranno tali contenuti a guidare l’attività dell’interprete che, pertanto, non dovrà essere irrazionale. A ben vedere, il punto di rottura tra il positivismo di Kelsen e le teorie neocostituzionalistiche non è rappresentato soltanto dalla possibilità, negata dal primo e ammessa dalle seconde, di contaminare il diritto con la morale costituzionale; ma dalla possibilità di ricavare tale morale da materiali extra-giuridici, che vengono immessi nell’ordinamento senza passare per il percorso legislativo previsto dalla costituzione stessa. Ci è allora chiesti se sia invece possibile una sintesi tra l’ideologia del potere e la certezza del diritto, rappresentata dai principi costituzionali intesi come espressione dell’ordinamento vigente, e non come autorizzazione alla ricerca di una soluzione giusta anche a costo di uscire dai suoi confini. Sembra infatti questa l’aspirazione che emerge dall’analisi complessiva del pensiero di Bobbio, per il quale, anche il passaggio dalla struttura alla funzione - nel quale si tende ad individuare l’addio al normativismo - è da intendere come un modo per orientare l’ordinamento verso il raggiungimento degli scopi che esso stesso si prefigge. Per ottenere questo risultato si è dovuto rivedere il giudizio negativo di Bobbio sulla norma fondamentale - da lui ritenuta superflua in quanto di realmente fondamentale ci sarebbe soltanto il potere - anche alla luce di alcune precisazioni dello stesso Kelsen: in merito alla differenza tra norme e regole. In questo modo si è arrivati a sottolineare il carattere di regola della Grundnorm, che si affianca e per certi versi prevale su quello di norma.

    Tali considerazioni rappresentano l’oggetto principale della ricerca, con la quale si è cercato di dimostrare come l’insegnamento di Bobbio - e talvolta la sua distorsione - continui a influenzare la dottrina costituzionalistica. In particolare, si sono poste in evidenza le ricadute pratiche che l’affermazione delle teorie neo-costituzionaliste stanno avendo sotto il profilo della teoria della sovranità, intesa come potere di creare la legge, e le relative ripercussioni sul versante della certezza del diritto: due aspetti fondamentali del rapporto stato-cittadini disciplinato dalla costituzione.

    Nel saggio su La coerenza come principio generale dell’Ordinamento giuridico mi sono concentrato su alcuni di questi aspetti, sviluppando il tema del confronto tra neocostituzionalismo e teorie che continuano a ispirarsi al positivismo giuridico. Nell’eterna contrapposizione tra giusnaturalismo e positivismo giuridico, magistralmente descritta da Bobbio, il primo sembra oggi tornato alla ribalta: sia in ambito teorico che nella prassi dei tribunali. Uno degli elementi fondamentali di queste teorie, la creazione giurisprudenziale del diritto, è però difficilmente compatibile col principio della sovranità popolare. L’essenza della sovranità consiste infatti nel potere di trasformare le opinioni in legge. Potere che, in democrazia, viene esercitato dal popolo tramite i propri rappresentanti. Nell’ottica dell’ennesimo ritorno del diritto naturale che prende il nome di neocostiuzionalismo, il sacrificio di tale principio viene giustificato in base a presunte inadeguatezze del positivismo, ritenuto incapace di dare risposte alle esigenze di giustizia espresse dai principi costituzionali. Concentrando l’attenzione su alcuni aspetti finora trascurati della dottrina di Kelsen, in particolare per quanto riguarda il duplice aspetto - di norma e di regola - della Grundnorm, questo saggio intende dimostrare come sia possibile applicare la costituzione senza abbandonare il positivismo giuridico (di cui, del resto, la Costituzione rappresenta la massima espressione). In quest’ottica, per assicurare la fisiologica evoluzione del diritto in sede giudiziaria, si è proposto di valorizzare il ruolo delle parti, che a differenza del giudice rappresentano una frazione del popolo sovrano, al quale la costituzione assegna il potere d’iniziativa legislativa. Ricalcando lo schema della separazione dei poteri, si potrebbe infatti pensare a una più rigida distinzione tra la legittimazione - riservata alla parti - a proporre soluzioni inedite (equiparabile all’iniziativa legislativa) e il potere decisionale del giudice: anche per evitare la particolare forma di conflitto d’interessi in cui può trovarsi chi, da un lato, è chiamato a difendere la coerenza dell’ordinamento e, dall’altro lato, tende inevitabilmente a sostenere la soluzione da lui proposta.

    Di coerenza si può parlare se esiste un parametro al quale fare riferimento che, nel caso della Costituzione italiana sembra essere il lavoro, espressamente indicato come fondamento dell’intero edificio repubblicano nell'art. 1 della Costituzione.

    A cogliere tale peculiarità della Carta del ’48 fu Costantino Mortati, che però non poteva stabilire un collegamento tra quella che chiamava supernoma - capace di condizionare l’intero ordinamento - e la Grundnorm di Kelsen: anche perché il giurista austriaco ha atteso le sue ultime lezioni per porre in evidenza gli aspetti contenutistici della norma fondamentale.

    L'opinione di Mortati non ha avuto però fortuna. Il dibattito sul significato dell’ultima parte della formula l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro ha visto sin da subito contrapporsi degli schieramenti legati alle varie contingenze politiche. Lo scontro principale è tuttora quello tra chi intende la formula costituzionale come un richiamo alla classe lavoratrice - alla quale riservare specifiche tutele - e chi la considera una mera espressione letteraria. La prima interpretazione ha ispirato lo Statuto dei lavoratori, che però riguarda soltanto una porzione - tra l’altro sempre meno numerosa - di chi è impegnato nella produzione di beni o servizi. Il lavoro come fondamento è però un concetto diverso da quello di lavoro come diritto individuale. Anche per questo motivo si è imposta l’idea che l’art. 1 della Costituzione non abbia valore giuridico, ma si limiti a richiamare il compromesso tra le varie culture politiche che diedero vita alla Repubblica.

    Nel saggio si cerca di recuperare l'insegnamento di Mortati. Dall’analisi dei suoi scritti in materia, tutto lascia infatti pensare che il costituzionalista calabrese abbia visto nell’art. 1 il punto d’incontro tra il realismo delle sue tesi e il positivismo kelseniano. Attratta nell’orbita giuridica, la nozione di fondamento si confonde con quella di funzione economico-sociale, ossia di causa del patto costituzionale. Emerge così il valore giuridico della formula che, al pari di ogni altro elemento essenziale, rappresenta una condizione di validità del patto dalla quale derivano, nei confronti del rapporto tra lo stato e i cittadini, diritti e obblighi reciproci. Per formulare queste conclusioni si sono posti in evidenza i punti di contatto tra la teoria della costituzione materiale di Mortati e quella del contratto sociale, di cui la prima può rappresentare una variante all’insegna della concretezza.

    Nella formula che apre la Costituzione repubblica si può inoltre individuare un punto di contatto con la filosofia positiva di Norberto Bobbio - con particolare riferimento alla svolta funzionalista con la quale il filosofo torinese ha concluso i suoi studi dedicati alla filosofia del diritto per passare a quella della politica - ugualmente ispirata a una concezione ascendente del potere, che rende possibile una lettura in chiave contrattualistica della Costituzione italiana.

    La decisione di porre il lavoro a fondamento della Repubblica si può infatti ricondurre allo stesso ragionamento che ha portato Hobbes a ritenere la tutela della vita come scopo del patto sociale che ha dato vita allo Stato. In entrambi i casi, il rispetto del valore posto a fondamento è da considerare come condizione di validità del contratto. Tale scelta irrevocabile - alla quale, nel caso italiano, tutti i cittadini hanno potuto partecipare tramite l’elezione dell’Assemblea costituente - vincola allo stesso modo i singoli e lo Stato.

    L’ordinamento giuridico, anch’esso frutto di tale scelta, dev’essere conseguentemente improntato alla tutela del lavoro, dal quale gli altri diritti discendono e verso il quale tendono. Riprendendo l’insegnamento di John Locke, si può porre in evidenza come per lavorare sia necessario essere liberi e in salute, e che lo stato, oltre ad assicurare la difesa di questi diritti, difenda i frutti dell’impegno dei propri cittadini. Perché tale sistema funzioni è dunque necessario il contributo di ognuno, in una sorta di cortocircuito virtuoso incentrato sul lavoro: nel quale al dovere del singolo di contribuire allo sviluppo sociale - nel rispetto dei diritti altrui - corrisponde quello dello stato, di creare le condizioni che gli permettano di farlo.

    Il lavoro come fondamento si colloca dunque al di sopra del bilanciamento tra opposte esigenze, ugualmente meritevoli di tutela, al quale è invece sottoposto il lavoro come diritto fondamentale dell'individuo. La tutela del lavoro del singolo non dovrebbe avvenire a scapito di altri diritti fondamentali, sia della collettività (compreso quello al buon funzionamento del mercato) che del singolo stesso o degli altri lavoratori (si pensi alle tematiche connesse alla tutela della salute dei lavoratori e/o di chi abita nei pressi di attività inquinanti). A tale risultato si potrà arrivare prevedendo, a carico dello stato, degli obblighi risarcitori nei confronti di ogni forma di disoccupazione involontaria (dando così attuazione all’art. 38 Cost.). In tal modo sarà possibile evitare ogni conflitto tra i diritti fondamentali riconosciuti ai cittadini e, allo stesso tempo, garantire il buon funzionamento di un sistema fondato sul lavoro.

    Evitare il conflitto tra i diritti consente inoltre di salvaguardare la coerenza dell’ordinamento. Sotto questo profilo, la decisione di porre un valore a fondamento della Repubblica equivale a stabilire una norma di chiusura. Sono dunque da respingere le ipotesi di considerare quello costituzionale come uno spazio aperto a soluzioni contrastanti.

    La chiusura del sistema non ne implica infatti la staticità. L’evoluzione dell’ordinamento dovrà però tener conto della sua coerenza e avvenire, pertanto, con modalità compatibili col principio della sovranità popolare. L’introduzione di nuovi diritti non dovrebbe pertanto prescindere da una qualche forma di legittimazione popolare, in modo da coinvolgere anche i portatori degli interessi destinati a soccombere di fronte a nuove esigenze di tutela (sia che si tratti di privati sia che si tratti di questioni inerenti l’ordine o la finanza pubblica).

    Queste ultime riflessioni mostrano l'intima connessione tra i due saggi, il cui denominatore comune è il positivismo di matrice aristotelica, vale a dire la descrizione del procedimento di formazione del diritto che si può estrapolare dai passi dell’Etica Nicomachea dedicati alla Giustizia. Contrariamente all’opinione comune, che ritiene tali brani una sorta di anticipazione delle teorie sul diritto naturale, ritengo infatti quella di Aristotele una teoria del diritto di stampo positivistico, dalla quale derivano, in maniera più o meno diretta, sia la dottrina pura di Hans Kelsen, sia le sue correzioni all'insegna della concretezza, come quelle di Bobbio e di Mortati.

    Questa convinzione deriva dall’applicazione del metodo aristotelico - come descritto negli Analitici secondi - alla scienza giuridica: dall’osservazione empirica si ricavano i principi primi della conoscenza che andranno a comporre il principio generale, da utilizzare per spiegare la realtà. In definitiva si tratta di un metodo circolare: inizialmente ascendente (per ottenere i principi primi attraverso i quali comporre il principio generale) e poi discendente, per applicare il principio generale alla descrizione scientifica.

    Per Aristotele principio generale del diritto è il giusto per natura, che ispira direttamente alcune norme e indirettamente tutte le altre: «Del giusto civile una parte è di origine naturale, un’altra si fonda sulla legge» (Etica Nicomachea 1134 b 18).

    Da questo passo si ricava solitamente l’impressione che il Filosofo avesse in mente un diritto naturale, distinto e superiore rispetto a quello umano. Si legge infatti poco dopo che, a differenza di quanto accade agli dei, gli uomini vivono sotto il dominio della natura. Pertanto, sia la legge umana che quella naturale andranno inquadrate alla luce dello stesso principio generale. Anche in virtù del principio di non contraddizione la legge umana dovrebbe, dunque, rispettare quella naturale.

    Le leggi possono infatti essere più o meno giuste: «È retta poi la legge stabilita rettamente, peggiore quella improvvisata» (Etica Nicomachea 1129 b 25); intendendo molto probabilmente la legge improvvisata come quella che non corrisponde alla natura umana. La vera differenza, tra il giusto civile che ha origine naturale e quello che si fonda sulla legge, risiede dunque nel fatto che nel secondo caso è possibile l’errore.

    In base a questi indizi si è portati a ritenere Aristotele come precursore delle teorie incentrate sul diritto naturale. Chi volesse percorrere questa strada si troverebbe però di fronte un ostacolo difficilmente superabile. Per Aristotele è infatti: «evidente che tutte le cose legali sono in certo modo giuste: infatti le cose stabilite dal potere legislativo sono legali, e noi diciamo che ciascuna di esse è giusta» (Etica Nicomachea 1129 b 12).

    L’uomo giusto deve perciò rispettare anche la legge improvvisata. Rispetto alle teorie del diritto naturale manca qualsiasi riferimento alla possibilità di seguire l’esempio di Antigone, ossia trasgredire alle leggi umane in nome di quelle divine o naturali. Se così non fosse la filosofia del diritto di Aristotele non si potrebbe distinguere da quella di Platone. Il suo metodo ascendente dovrebbe cedere il passo all’idea di giustizia calata dall’alto: una giustizia superiore rispetto alle leggi ingiuste che hanno portato alla morte di Socrate.

    Nel sistema aristotelico non c’è niente di tutto questo. Di fronte alla legge anche il filosofo

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