Studium- Psicologia e lavoro: Nuove prospettive per l’orientamento e la gestione delle competenze nello scenario attuale: Rivista bimestrale 2017 (4)
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Diego Balducci
Diego Balducci, medico, è autore di numerose pubblicazioni. Con Più sani, più ricchi ha dato seguito ad un recente volume dal titolo Sempre in forma, edito da Lindau, per ribadire il molto che ciascuno di noi può fare, correggendo lo stile di vita e l’alimentazione, per vivere più a lungo e, quello che più conta, conservare il benessere.Per il 2013 è attesa, inoltre, l’uscita di Problemi di biopolitica in una società di longevi sani (ebook).Opere pubblicate:1949 - Laurea con Lode in Medicina e Chirurgia dell’Università di Roma,La Sapienza1950 - Specializzazione con Lode in Pediatria dell’Università di Roma, La Sapienza.1952 - Incarico dal Ministero della Sanità di organizzare il Centro di Virologia presso l’ospedale di S. Camillo per isolare i primi virus influenzali e valutare le risposte dei primi soggetti vaccinati.1955 - Assistente in Batteriologia e Malattie da Virus presso l’Università di Sheffield in Inghilterra per eseguire i primi isolamenti di virus in colture di cellule umane e animali.1956 - Classificato primo al concorso di assistente di Microbiologia dell’Istituto Superiore di Sanità con l’incarico di progettare e dar vita al Laboratorio di Virologia. Ha diretto questo laboratorio per undici anni, rendendo possibile in Italia la produzione e il controllo dei vaccini contro l’influenza e la poliomelite.1957 - Libera Docenza in Microbiologia dell’Università di Roma,La Sapienza.1966 - Libera Docenza in Virologia dell’Università di Roma, La Sapienza.1967 - Ha fondato e diretto l’Italdiagnostic per produrre e vendere, primo in Europa, colture cellulari e diagnostici per le malattie da virus esportati in quarantadue Paesi.1970 - Specializzazione con Lode in Patologia dell’Università di Roma, La Sapienza.1975 - Ha fondato e diretto l’ISMUNIT (Istituto Immunologico Italiano), come espansione dell’Italdiagnostic, che ha prodotto il vaccino contro l’influenza a virus intero e a sub unità (Miniflu). Le prime gammaglobuline per uso endovenoso brevettate(Venogamma) e l’interferon con leucociti umani (Alfaferone) che è stato il primo farmaco che ha guarito le epatiti da virus.1991 - Presidente onorario e consulente scientifico della Schiapparelli Diagnostici Ismunit.1996 - Consulente scientifico della Analyzer Medical System di Guidonia (Roma).2003 - Ha fondato la Life Line Lab di Pomezia (Roma).Autore di sessantacinque pubblicazioni scientifiche e dei seguenti volumi:1954 - “I 40 ANNI”, ed. Raggio.1960 - “LE COLTURE DEI TESSUTI IN BIOLOGIA”, ed. Il Pensiero Scientifico (tradotto anche in inglese).1963 - “TISSUE CULURE IN BIOLOGICAL RESEARCH”, ed. Elsevier.1993 - “L’INDUSTRIA DELLA SCIENZA”, ed. Il Mulino.2007 - “I MICROARRAYS PER LO STUDIO DELLE BASI CHIMICHE DELLA VITA”, ed. Life Line.2008 - “SEMPRE IN FORMA”, ed. L’Età dell’Acquario.2010 - “L’ITALIA POSITIVA”, auto pubblicazione.1949 - Laurea con Lode in Medicina e Chirurgia dell’Università di Roma,La Sapienza1950 - Specializzazione con Lode in Pediatria dell’Università di Roma, La Sapienza.1952 - Incarico dal Ministero della Sanità di organizzare il Centro di Virologia presso l’ospedale di S. Camillo per isolare i primi virus influenzali e valutare le risposte dei primi soggetti vaccinati.1955 - Assistente in Batteriologia e Malattie da Virus presso l’Università di Sheffield in Inghilterra per eseguire i primi isolamenti di virus in colture di cellule umane e animali.1956 - Classificato primo al concorso di assistente di Microbiologia dell’Istituto Superiore di Sanità con l’incarico di progettare e dar vita al Laboratorio di Virologia. 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Anteprima del libro
Studium- Psicologia e lavoro - Diego Balducci
Tre.
LA SCIENZA COME VOCAZIONE
Vincenzo Cappelletti
La scienza della quale tutti parlano, per diffonderne le nozioni e indicarne l’esemplarità, è spesso una scienza mistificata. La mistificazione scientifica incomincia dall’isolamento del sapere naturalistico e dalla sua identificazione con il sapere scientifico. Ma la scienza c’è, perché il reale ha una struttura costituita da una gerarchia di momenti, più o meno necessari, nel senso che alcuni, i meno necessari, implicano gli altri. La natura non è il solo momento della realtà, che debba essere pensato alla luce di un altro presupposto: non è, dunque, l’unico possibile oggetto della conoscenza scientifica. La scienza mistificata pretende di trarre la propria giustificazione dal risultato sperimentale, mentre, come tutto il sapere scientifico, deve trarla dalla simmetria alla struttura della realtà. La realtà è fatta di cause formali e di cose: e le prime sono conosciute non dall’esperimento, ma dalla ragione.
Un altro modo nel quale si mistifica la scienza, nasce dalla pretesa di far derivare i princìpi dai fatti: ciò che è necessariamente e sempre da ciò che è così . L’esperimento cerca di sostituire la sua evidenza alla ragion pura, e dà origine, come nel Teilhard e nel Monod, a teorie irte di contraddizioni. Dati e risultati frammentari, anche se significativi, sono trasposti in categorie oscure e lacunose. L’evoluzione, anzi molto meno , diventa evoluzionismo, ossia definizione del divenire; una situazione, d’interferenza tra osservatore ed entità osservata, talora di equivalenza fra stati diversi di quest’ultima, si ritorce contro la causalità, cioè contro la relazione formale tra legge e fenomeno o, peggio, tra premessa e conseguenza. Attorno ad affermazioni che nessuno riuscirebbe ad applicare neppure un sol giorno, nella vita, si crea clamore, e il clamore è convertito in certezza. La scienza mistificata è polemica, e rifiuta ogni censura. Chi vuol criticare le teorie scientifiche dovrebbe non soltanto capirne il linguaggio, ma aver fatto o ripetuto certi esperimenti. Unica via aperta è quella divulgativa: divulgare significa diffondere certezza con parole diverse dal messaggio originario. L’alleanza di mistificazione e divulgazione è ferrea: e dovrebbero associarvisi la storiografia e la filosofia della scienza, che cercano invece nella legge scientifica la traccia del principio razionale e il suo esplicitarsi, coerente o no, dall’intuizione originaria alle ultime analogie, e da queste a quello.
Rinascono, così, dalla scienza, dogmatismi e scetticismi, che trovano davanti a sé la scoperta scientifica e l’interpretano, alla luce delle proprie premesse, come qualcosa che si aggiunge dall’esterno al pensiero, o vi resta per breve tempo. Accanto alla scienza positiva che misconosce il contributo della ragione, c’è un’epistemologia che ne corregge le tesi più ingenue in senso empiristico e formalistico, rivendica l’anonimìa del conoscere, e la corregge con l’elogio di singole personalità. La scoperta deriverebbe dall’osservazione o, al contrario, consisterebbe in una creazione progressiva e collettiva di schemi e di linguaggio. Quel che rende illuminante e duratura la scoperta scientifica, anzi certe scoperte: la vocazione a conoscere e la costruzione razionale, si attenua e tende a scomparire.
Vincenzo Cappelletti
IL PUNTO
GIUSEPPE DALLA TORRE - Diritto canonico
Ricorrenza particolare quella che induce a toccare un tema probabilmente non appassionante, almeno a prima vista, per la maggioranza dei lettori; un tema che può essere percepito dai più come lontano rispetto ai propri interessi: quello del diritto della Chiesa cattolica, ordinariamente chiamato diritto canonico.
La ricorrenza è data dal centesimo anniversario della sua prima codificazione. Il 27 maggio 1917, infatti, con la costituzione apostolica Providentissima Mater Ecclesia Benedetto XV promulgava il codex iuris canonici, che sarebbe poi entrato in vigore il 19 maggio dell’anno seguente. Ma la decisione di dotare l’istituzione ecclesiastica di uno strumento nuovo, modellato sulle moderne codificazioni civili, a loro volta paradigmate sul codice napoleonico del 1804, era stata del predecessore di papa Della Chiesa, e cioè Pio X, Giuseppe Melchiorre Sarto, che con il motu proprio Arduum sane munus, del 19 marzo 1904, istituì un’apposita commissione di cardinali incaricata di redigere il testo, con l’aiuto di esperti e la consultazione dell’episcopato.
Il codice, che dai nomi dei due Pontefici viene anche detto pio-benedettino, era il punto di arrivo di un processo di lungo periodo che aveva preso le mosse nell’Ottocento, dinnanzi alla situazione di disorganicità e di disordine che caratterizzava il diritto ecclesiale così come accumulatosi nel corso della storia, in particolare dall’età della Controriforma. Molto si era discusso per decenni, a cavallo dei due secoli, di come aggiornare il venerando corpus dei canoni per renderlo maggiormente rispondente alle esigenze che la modernità poneva alla Chiesa. La questione era stata presente anche nei dibattiti svoltisi in seno al Concilio Vaticano I, che però venne interrotto a seguito degli avvenimenti del 20 settembre 1870, con la presa di Roma da parte del Regno d’Italia, la fine dello Stato Pontificio, il costituirsi di una situazione giuridica e di fatto nuova per la Santa Sede.
Quelle discussioni si erano sviluppate sostanzialmente attorno a due ipotesi fondamentali: una più rispondente alla tradizione, l’altra decisamente innovatrice. La prima guardava in sostanza alla esperienza passata del Corpus Iuris Canonici, insieme di materiali giuridici provenienti dalla grande stagione della canonistica medievale: sostanzialmente una sorta di consolidazione, nella quale erano sistematicamente raccolte – oltre al famoso Decretum di Graziano (1140) – le fonti del diritto pontificio dell’età di mezzo. La seconda guardava, invece, all’esperienza moderna delle codificazioni; pensava cioè al codice come a una legge unica, organica, potenzialmente senza lacune, facilmente accessibile anche da non esperti. La prima posizione teneva l’occhio al passato e si muoveva nel senso della continuità; la seconda scrutava il futuro e si muoveva nel senso di una rottura col diritto previgente. I novatori erano affascinati dalle teoriche e dalle tecnicalità della moderna giurisprudenza, ma anche dalla praticità della codificazione; i tradizionalisti erano tormentati dall’idea di introdurre all’interno della compagine ecclesiale uno strumento, il codice appunto, frutto del pensiero illuministico, affermatosi con l’avvento degli Stati laici, espressione di un diritto secolarizzato e di una concezione positivistica; quindi uno strumento non neutrale, ma ideologicamente caricato, affatto compatibile col diritto della Chiesa, ancorato sui fondamenti del diritto divino, naturale e positivo.
La scelta, decisa, fu appunto di Pio X: un Pontefice che parrebbe non ascrivibile alla schiera dei novatori, ma che invece ebbe l’audacia di compiere il gran passo. In sostanza l’abilità dei codificatori fu quella di servirsi dello strumento della codificazione, nel quale riversare ordinatamente il diritto antico ancora rispondente alle esigenze del tempo ma aggiornato con le necessarie innovazioni, rifuggendo contestualmente dall’ideologia codificatoria. Col senno di poi si può dire che sostanzialmente questo rischio fu evitato, anche se derive di positivismo giuridico, in qualche modo indotte dal codice, si poterono constatare qua e là nella esperienza giuridica che, per decenni, ne seguì.
Giova notare che, per quanto attiene alla cultura ecclesiastica ed alla stagione culturale che il cattolicesimo veniva allora vivendo, la decisa scelta per la codificazione volle, più o meno consapevolmente, essere una risposta alle inquietudini che il modernismo alimentava nel corpo ecclesiale. Non è un mistero la sensibilità dei modernisti per la grande tradizione storica dello spiritualismo, specie nella realtà del francescanesimo; in particolare il fascino che su di loro avevano figure dell’età di mezzo quali ad esempio Pietro di Giovanni Olivi o Gioacchino da Fiore, nella misura in cui con il loro pensiero sembravano indicare il superamento della Chiesa di Pietro per la Chiesa di Giovanni, la sovversione della disciplina con l’amore, il superamento del diritto ed il ribaltamento dell’istituzione con la carità. Tematiche che nella modernità erano state riprese dalla Riforma e poi nuovamente arate dalla speculazione teologica e giuridica protestante tra Ottocento e Novecento: come non pensare, ad esempio, a Rudolf Sohm ed alla sua provocatoria contrapposizione tra Legge e Vangelo
!
La scelta della codificazione non solo veniva a riaffermare con decisione la tradizione cattolica per cui tra diritto e carità, tra legge e Vangelo, non c’è opposizione; ma veniva più ancora ad irrobustire ed implementare l’esperienza giuridica nella vita ecclesiale, tra l’altro accentuando ulteriormente la riduzione del diritto canonico a diritto pontificio e, quindi, alla assoluta affermazione di un diritto universale.
In questo passaggio, però, c’è un elemento interessante. Perché si dà il caso che a volere questa riaffermazione del diritto nella Chiesa e questa svolta pro-codificazione fu un Papa non giurista, ma un pastore puro. Pio X non aveva alle spalle specifici studi canonistici, non aveva insegnato il diritto canonico nelle università ecclesiastiche, non aveva lavorato nei Dicasteri della Curia romana, e neppure proveniva da quelle file della diplomazia pontificia in cui la formazione giuridica, e non solo internazionalistica, è per tradizione e necessità particolarmente accurata. A prescindere dal periodo in cui era stato cancelliere della Curia di Treviso, papa Sarto aveva percorso la via ordinaria dello stato clericale, dunque del pastore: dalle prime mansioni di collaboratore parrocchiale a quelle di parroco; era poi giunto alle responsabilità dell’episcopato e, infine, del pontificato. Eppure avvertiva fortemente la sussistenza e al tempo stesso la necessità del diritto nella Chiesa, il senso profondo del suo finalismo, l’esigenza di un sostegno per l’ordinaria attività pastorale, onde organizzarla e non renderla né precaria né eventuale.
È interessante notare che anche per la seconda codificazione latina, quella post-conciliare del 1983, avvenne in qualche misura la stessa cosa: sia perché voluta da un Papa pastore e non giurista quale fu Giovanni Paolo II (ma prima ancora da Giovanni XXIII), sia soprattutto perché la codificazione venne in qualche modo ad attuare giuridicamente i deliberati di un Concilio che fu inteso e definito come pastorale
. Come ebbe premura di indicare lo stesso papa Wojtyła nella costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges, con cui promulgò il codice, «lo strumento, che è il Codice, corrisponde in pieno alla natura della Chiesa, specialmente come viene proposta dal magistero del Concilio Vaticano II in genere, e in particolar modo dalla sua dottrina ecclesiologica. Anzi, in un certo senso, questo nuovo codice potrebbe intendersi come un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico [n.d.r.: corsivo nel testo latino] questa stessa dottrina, cioè la ecclesiologia conciliare». Il Pontefice si premurava di sottolineare poi che «il Codice non ha come scopo in nessun modo di sostituire la fede, la grazia, i carismi e soprattutto la carità dei fedeli nella vita della Chiesa. Al contrario, il suo fine è piuttosto di creare tale ordine nella società ecclesiale che assegnando il primato all’amore, alla grazia e ai carismi, rende più agevole contemporaneamente il loro organico sviluppo nella vita sia della società ecclesiale, sia anche delle singole persone che ad essa appartengono». E quasi a replicare allo spirito antigiuridista che negli anni successivi al Concilio si era levato nella Chiesa, talora riprendendo antichi e più recenti modi spiritualisti, il Papa teneva a sottolineare che il codice era «fondato nell’eredità giuridico-legislativa della Rivelazione e della Tradizione».
In effetti in un passo di uno dei più importanti documenti del Concilio Vaticano II, la costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, si parla di una non debole
analogia esistente tra l’Incarnazione , cioè il centro del dogma cristiano secondo cui Dio si è incarnato in un uomo, Gesù Cristo, e la Chiesa, realtà spirituale, Corpo Mistico, che si incarna in un corpo sociale che vive nella storia. Dice, infatti, il documento conciliare che «come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a Lui indissolubilmente unito», così «allo spirito di Cristo, che la vivifica, per la crescita del corpo» serve «l’organismo sociale della Chiesa». Questa realtà divino-umana della Chiesa è organicamente congiunta alla realtà divino-umana di Cristo stesso: è in certo senso la continuazione del mistero dell’Incarnazione, così come induce a riflettere san Paolo quando parla della Chiesa come Corpo di Cristo (1 Cor 12, 27; Ef 1, 23; Col 1, 24).
Dunque come il Corpo del Signore, nella sua umanità, non era sottratto alle leggi biologiche e fisiologiche proprie dell’essere uomo (qui è tutta la grandezza dell’alto mistero dell’Incarnazione), così la Chiesa che si incarna in un organismo sociale non è sottratta, per il fatto di essere Chiesa, alle leggi biologiche
e fisiologiche
che sono naturalmente proprie delle formazioni sociali, tra cui il vivere giuridicamente. Si vuol dire in altre parole che se è del tutto naturale che ogni gruppo sociale umano si organizzi, e quindi si dia un complesso di regole giuridiche, è altrettanto naturale che la Chiesa che vive nel tempo e nella storia, in quanto gruppo umano organizzato, produca diritto e viva secondo diritto. Ciò non toglie, naturalmente, che ci siano differenze, ed anche profonde, tra il diritto canonico ed i diritti secolari: nelle finalità, nelle forme, e prima ancora nell’origine delle norme.
Ma torniamo a Pio X. La sua volontà di giungere ad una codificazione canonica era motivata da ragioni eminentemente pastorali. Come altri ecclesiastici del suo tempo, era consapevole della ignoranza del clero, specie in materia giuridica; una ignoranza in parte dovuta al decadere della formazione seminaristica, ma in parte anche al fatto che da troppo tempo – talora da alcuni secoli – materie naturalmente rientranti nella competenza della Chiesa e del suo diritto erano state arbitrariamente sottratte e fatte proprie dalle autorità civili. Si pensi solo agli enti ed ai beni ecclesiastici, ma anche alla materia matrimoniale, che il giurisdizionalismo degli Stati confessionisti prima e degli Stati laici poi aveva avocato alla competenza secolare, nell’ambito di quel settore dei saperi giuridici che per distinguerlo dal diritto canonico venne chiamato diritto ecclesiastico, vale a dire il diritto dello Stato in materia ecclesiastica.
In effetti con il codice si dette al clero non solo uno strumento agile e chiaro per la quotidianità del governo pastorale, ma si fornì anche un formidabile testo di studio della Chiesa, della sua natura, dei suoi compiti, delle sue competenze esclusive, delle sue finalità ultraterrene. In qualche modo il codice canonico fu per il clero ciò che, per tutti i fedeli, fu il Catechismo (1905) che da papa Sarto prese il nome. E non è un caso che nelle istituzioni formative ecclesiastiche lo studio del diritto canonico fu sviluppato nella cosiddetta schola codicis attraverso l’utilizzo rigoroso del metodo esegetico: canone per canone. Fu la grande canonistica laica italiana – da Jemolo a Giacchi, a Del Giudice, a Fedele, a Petroncelli, a Ciprotti, per ricordare solo alcuni – che traghettò negli studi canonistici il moderno metodo dogmatico.
La scelta della codificazione fu anche provvidenziale per traghettare nella realtà del tempo la Chiesa, ormai chiamata davvero ad essere cattolica
dal punto di vista geografico, facilitandone l’ultima, grande espansione missionaria.
Agli occhi della storia, però, la codificazione pio-benedettina assume anche un altro significato: quello di una riorganizzazione del diritto della Chiesa dopo la temperie laicista che, nel XIX secolo, lo aveva estromesso dagli ordinamenti giuridici statali. La tradizionale solidarietà ed alleanza fra ius civile e ius canonicum, che per almeno un millennio aveva costituito il tessuto normativo della societas christiana, erano venute meno. Il diritto canonico non poteva più appoggiarsi al diritto dello Stato né servirsi, laddove necessario, del braccio secolare per la sua effettività; nel compenso si emancipava dai lacci e lacciuoli che le pregresse politiche giurisdizionaliste degli Stati gli avevano imposto. La Chiesa del diritto poteva riappropriarsi degli iura nativa propri, chiarire l’ambito ed i confini della propria giurisdizione: dall’ una societas christiana retta da due distinte fonti giuridiche, il diritto civile e il diritto canonico, si passò a distinguere due società, la civile e l’ecclesiastica, rette a loro volta dal diritto secolare e dal diritto sacro. Si trattò di un passaggio che significò molte cose: una più moderna attualizzazione del principio dualista cristiano, per il quale occorre «dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio» ( Mt 22, 15-22; Mc 12, 13-17; Lc 20, 20-26); una più matura elaborazione del concetto di laicità dello Stato, non ostile ma collaborativa nella distinzione, non più de combat, secondo gli antichi stilemi francesi, ma aperta e positiva.
Quel passaggio contribuì pure notevolmente alla configurazione dei rapporti tra la Chiesa e gli Stati in termini internazionalistici, dando via alla grande stagione concordataria iniziata col successore di Benedetto XV, Pio XI, e tuttora inaspettatamente in corso. E da questo punto di vista il codice canonico costituì pure un inimmaginabile strumento di opposizione e resistenza della Chiesa nei confronti dei totalitarismi che hanno caratterizzato il XX secolo e delle dure prove che, nei diversi Paesi, seguirono per i cattolici e per le istituzioni ecclesiastiche.
Giuseppe Dalla Torre
PSICOLOGIA E LAVORO
LAURA GALUPPO- Nuove prospettive per l'orientamento e la gestione della carriera nello scenario attuale
Introduzione
Le trasformazioni che attualmente caratterizzano il mercato del lavoro rendono il tema della carriera e della sua gestione assai problematico. Con un tasso di disoccupazione stabile al 12% (dati ISTAT dicembre 2016) ed una percentuale preoccupante di cosiddetti inattivi
(a dicembre 2016, il 34% di italiani tra i 15 e i 64 anni), sembra oggi che la semplice possibilità di un lavoro, prima che il suo mantenimento, rappresenti una prospettiva lontana per molti, e non solo per i più giovani. Da un punto di vista psicologico, un’opportunità centrale di espressione e realizzazione della propria identità adulta appare dunque fortemente a rischio oggi, ed urgenti sono le misure necessarie per accompagnare le persone in crisi a costruire e ricostruire il proprio progetto lavorativo e di vita.
Nell’immaginario di giovani ed adulti, il sogno di una carriera è ancora dolorosamente forte e pressante. Esso appare tuttavia ancorato a significati e valori non più attualizzabili. Il lavoro è immaginato come il posto, e la carriera è un ’agognata forma di progressione lavorativa entro la medesima organizzazione, garante di stabilità ed identità. Nel contesto attuale queste immagini si sgretolano di fronte alle mutate condizioni sociali e del mercato. Crescono lo sconforto e la paura, associate all’idea che l’assenza di un posto
e di una possibilità di avanzamenti lineari corrispondano all’assenza di lavoro tout court, e alla conseguente rinuncia ad un progetto professionale coerente e significativo.
Da tempo sociologi, economisti e psicologi concordano sul fatto che lavorare oggi non significhi più essere impegnati in un processo produttivo e organizzativo stabile e garantito: le traiettorie di carriera sono sempre più imprevedibili, discontinue, frammentate. Il lavoro non si trova, si perde, si cambia, e la possibilità di riconoscersi in una storia professionale
coerente e sostenibile rappresenta una sfida di difficile gestione, mai risolta una volta per tutte.
E tuttavia è anche in questo scenario critico che sorgono nuove opportunità. La fluidità dei sistemi organizzativi e sociali, le possibilità di mettersi in rete, la molteplicità delle fonti e dei canali di conoscenza disponibili rappresentano risorse reali, che, se viste e colte opportunamente, sono in grado di arricchire le traiettorie lavorative di individui e gruppi professionali.
Per la psicologia, sapere intercettare tali opportunità e sapersi orientare in uno scenario complesso per gestire la propria carriera rappresenta dunque una competenza fondamentale. La riflessività, le capacità