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Giustizia e conflitto: Ermeneutica delle situazioni conflittuali della giustizia in Ricoeur
Giustizia e conflitto: Ermeneutica delle situazioni conflittuali della giustizia in Ricoeur
Giustizia e conflitto: Ermeneutica delle situazioni conflittuali della giustizia in Ricoeur
E-book187 pagine2 ore

Giustizia e conflitto: Ermeneutica delle situazioni conflittuali della giustizia in Ricoeur

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Info su questo ebook

«…giustizia e conflitti – come Brugiatelli sollecita a pensare – sono i due termini da discutere nel loro comporsi e opporsi, opporsi nella negazione dell’essentia actuosa col conflitto, comporsi all’insegna del “conflitto delle interpretazioni”, all’insegna del concreto quotidiano domestico esistere della libertà che partecipa all’essere suo nell’ordine suo, fragile e capace come la canna di pascaliana memoria, che è giustizia. Il libro di Brugiatelli riesce a presentare i termini essenziali della riflessione ricoeuriana che appaiono difficilmente trascurabili per chi voglia discutere la giustizia nella società contemporanea. Riuscire a cogliere la profondità del pensiero di Ricoeur e la sua specificità è certo merito di Brugiatelli, studioso attento e sensibile che fornisce al dibattito e alla ricerca uno strumento capace di sollecitare ulteriori riflessioni» (dalla Prefazione di D. M. Cananzi, Università “Sapienza” di Roma).
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2014
ISBN9788864589633
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    Anteprima del libro

    Giustizia e conflitto - Vereno Brugiatelli

    p. 113)

    Prefazione

    Trattare il tema della giustizia è sempre una impresa e, come tutte le imprese, espone chi si applica al rischio di trovarsi davanti non a una delle questioni ma alla questione: enorme, infinita, inesauribile e misteriosa. Del resto, non riduce il senso dell’impresa concentrare l’attenzione sul percorso esistenziale e filosofico svolto da Paul Ricoeur; da un lato perché Ricoeur avverte la problematicità della giustizia come questione esistenziale prima che come tema filosofico e dall’altra parte perché vive tanto la questione tanto il tema con originalità inusuale, segnando – come è solito – modi e contatti inediti, direi, per un tema come questo.

    Merita dunque molta attenzione il contributo di Vereno Brugiatelli che richiama opportunamente l’attenzione sulla giustizia in Paul Ricoeur rintracciando nel conflitto l’elemento cardine per svolgere la sua ricerca e che affronta l’impresa portandola a compimento con risultati pregevoli.

    Come Brugiatelli nota iniziando il suo percorso, «si parla di giustizia in molteplici ambiti e settori della vita umana»1 ma Ricoeur offre innanzi tutto una prospettiva direi rara perché riesce, cosa non facile in ottica soprattutto francese, a rilevare l’essenzialità e la centralità del diritto, assieme mantenendo compresenti tutti i molteplici ambiti e settori dell’esistenza appunto. Questa mi sembra anche una caratteristica della meditazione ricoeuriana sulla giustizia. Quando, in Le Juste, osserva che il giusto è lo «statuto specifico del giuridico»2 avvia quella differenziazione che porta a una giustizia non limitata nell’amicizia e che non si esaurisce totalmente nel fenomeno politico. Una giustizia che può ricomprendere entrambi e che è nell’esistenza proprio perché colta assieme come istanza e rivendicazione pratica e come questione teoretica, scorta nella sua qualificazione giuridica. Come scrive lo stesso Ricoeur, nella tradizione filosofica «il diritto occupa uno spazio permanente, senza dubbio, con la forte convinzione che esso costituisca un luogo concettuale, normativo e speculativo irriducibile, a un tempo, al morale e al politico. Al morale, poiché il diritto rappresenta, in rapporto all’interiorità dell’obbligo, l’esteriorità […] e, di più, presuppone la legittimità della coercizione […]. Irriducibile al politico, nella misura in cui la questione della legittimità non si lascia mai assorbire da quella del potere. Il potere stesso è in cerca di legittimità»3.

    Rilevante proprio perché, colmando la «mancanza stupefacente», Ricoeur indaga il giusto non passando «direttamente dal morale al politico»4 o viceversa né, come dicevo, astrae dal vissuto e dalla concretezza del quotidiano la questione.

    È nell’indignazione davanti all’ingiusto che «si forma e si educa il desiderio di giustizia»5 ponendo assieme la questione che si avverte nella concretezza del momento ma che si ambienta nella dimensione umana, un «cogito integrale»6 attorno al quale Ricoeur non ha mai smesso di lavorare.

    Come sottolinea anche Brugiatelli, l’antropologia ricoeuriana si riallaccia a quel «fondo di essere, a un tempo potente ed effettivo»7 del quale si discute in Soi-même comme un autre e la giustizia si può cogliere nel momento di corto circuito tra struttura antropologica che si afferma nel fondo di essere e che viene negata con l’atto ingiusto.

    Andando all’essenziale, si può dire che l’ingiustizia si consuma sempre in questo corto circuito, ogni volta che viene negato l’essere e la sua libertà, per nominare termini che hanno un ruolo centrale nella riflessione ricoeuriana, ogni volta che la libertà pensa di poter negare l’essere.

    Ecco come e perché Ricoeur è capace di mantenere unite questione teoretica e istanza pratica, è capace di mantenere la giustizia contemporaneamente presente a tutte le sfere che la rendono così molteplice ma sussistente nell’unità che la qualifica e la attesta in quella molteplicità.

    In questi termini coglie bene Brugiatelli quando, introducendo il suo lavoro, avverte come Ricoeur discute la giustizia assumendola come questione e, come tale, sempre aperta alla costante interrogazione schiva verso sistematizzazioni o definizioni.

    E proprio in questi termini che pare particolarmente opportuna la scelta di affiancare giustizia e conflitto, anzi conflitti.

    La giustizia, assunta da Brugiatelli come dimensione sociale, è all’insegna del riconoscimento volta al superamento dei conflitti ma è anche quella modalità per affrontare i conflitti di senso nascenti dall’incontro tra universale e particolare, norma e caso.

    Su queste due direzioni l’analisi di Brugiatelli riesce con chiarezza mirabile a discutere quel chi dell’azione che costituisce – come in più occasioni ha rilevato Jervolino8 – l’unità della riflessione ricoeuriana.

    Distese nei quattro capitoli nei quali vengono svolte, queste due linee di ricerca svelano anche da subito la loro stretta connessione. Brugiatelli, infatti, rintraccia proprio nella questione del chi? l’elemento centrale per cogliere le tante sfumature nelle quali trova un senso non banalizzabile il rapporto tra giustizia e conflitti.

    Nel primo capitolo Brugiatelli evidenzia la posizione ricoeuriana attraverso il confronto con modelli teorici di giustizia come quelli di Rawls e Sen e approcci al tema come l’aristotelico e l’habermasiano; ne risulta il riconoscimento come momento e dimensione nel quale la giustizia si fa esperienza e non semplice teoria. La posizione di Ricoeur viene subito segnata all’insegna di una certa concretezza contro utopiche modalità di pensare il giusto per astrazione, finendo così per teorizzare un modo che spesso lascia nella precomprensione il fenomeno. La costante attenzione per il tragico dell’azione rende la posizione di Ricoeur da subito orientata verso l’uomo capace, agente e paziente di giustizia.

    E al chi dell’azione è dedicato il secondo capitolo nel quale Brugiatelli, ripercorrendo alcuni dei passaggi più intensi di Sé come un altro, evidenzia l’identità narrativa alla luce dell’imputazione e della responsabilità. Il giusto, riferito all’umano, implica una iscrizione e una attestazione di responsabilità che non cogliere porta a sviare il discorso, misconoscendo la profondità della giustizia nell’esistenza.

    Per questa via è possibile giungere, nel terzo capitolo, a discutere la piccola etica ricoeuriana per quanto può dire in termini di giustizia e violenza, di universalità e particolarità. E con opportuna attenzione Brugiatelli segue Ricoeur tanto nella versione verticale del tripode etico (vivere con e per l’altro in istituzioni giuste) quanto in quella circolare (dall’etica fondamentale alle etiche regionali). La prudentia acquista così quel valore e quel significato della saggezza pratica che non si fa contingente e relativistica ma rintraccia le proprie ragioni – ancora una volta – nell’unità e nell’indivisibilità della persona.

    Dato il percorso tracciato, nell’ultimo capitolo Brugiatelli può guardare la giustizia dal lato dell’amore, seguendo pagine particolarmente intense dell’opera ricoeuriana. Intense nella misura in cui esprimono quel fondamentale entro cui si muove la saggezza pratica, intense perché dell’essere umano colto in tutta la sua umanità, dunque nel fellible e nel capable, rende tutto il «senza assoluto» di Thévenaz, tanto caro a Ricoeur.

    Proprio quest’ultimo tratto dell’analisi consente di scoprire, in fondo, la prima parola entro la quale si può comprendere bene il senso e il fondamento della dimensione di giustizia secondo Ricoeur: la gratuità.

    Tanto una teoria della giustizia, quanto la soggettività, tanto la socialità quanto la normatività possono essere disfunzionali, ovvero possono essere concrete ed effettive e contemporaneamente non abbandonate a semplici rapporti di forza, quanto si presentino sempre nell’ambito di una gratuità di sottofondo; l’alternativa è così – nei termini kantiani – quella tra mezzo e fine. Lo sforzo di Ricoeur, bene rappresentato da Brugiatelli, è quello di una giustizia che si faccia sempre più giusta9, secondo le parole che chiudono il libro.

    E questo non è solo un auspicio, ma è una via praticata da Ricoeur uomo e filosofo del quale Brugiatelli con piana trattazione indica i punti salienti e centrali.

    Posso così tornare alle mie considerazioni iniziali e a una loro parziale precisazione e chiarificazione.

    Quella ricoeuriana è una modalità particolarmente sofisticata di intendere la giustizia; innanzi tutto perché non la categorizza e non la frammenta ma ne mantiene l’unitarietà, e l’unitarietà della giustizia è colta nella sintetica struttura ontologica misteriosa, direi con Marcel, per la quale l’essere umano è sempre in cammino e nel suo cammino rimane quell’essere «già posto nell’essere» che costantemente iscrive nuovo senso al proprio essere mediante l’esercizio della libertà. Questione che merita una breve riflessione.

    Ricoeur afferma che «Il punto di partenza […] non può non trovarsi nella nozione di libertà. Ma se la libertà si pone, essa non si possiede […]. Direi che la libertà non può attestarsi che nelle opere ove essa si oggettiva» tanto che «Io non posso vedere la mia libertà, nemmeno posso provare che io sono libero: posso solo pormi e credermi libero» […] «come può realizzarsi una libertà che non si possiede per se stessa, che può quindi manifestarsi solo attraverso il lungo rigiro del suo fare?»10.

    A me sembra che si possa dire della giustizia in termini analoghi; perché la giustizia non si può possedere ma si può solo fare esperienza di giustizia (o di ingiustizia) e di qui allora anche per la giustizia vale la domanda: come può realizzarsi una giustizia che non si possiede ma che si può solo esercitare, in termini più corretti, amministrare? E ancora, cosa significa amministrare la giustizia e cosa esercitare la libertà?

    Parafrasare Ricoeur che parla della libertà per dire cose sulla giustizia non è solo un esercizio ermeneutico. In realtà ritengo – ulteriormente confortato dall’analisi di Brugiatelli – che giustizia e libertà siano strettamente connessi e che trovino proprio nel chi dell’azione, nell’essere umano il termine di contatto che è comune riferimento. In questo la critica alle giustizie astrattamente teoriche o a quelle procedurali e a quelle che non intendono la necessaria concretezza dell’universalità. In una aporia, forse, ma forse apparente; in un paradosso forse, che, se esistente, appartiene però paradossalità dell’umano in quanto tale.

    In questo senso il diritto, dal quale sono partito. In questo senso la particolare posizione di Ricoeur in merito, che pure ho evidenziato iniziando.

    Perché il diritto può essere restituito alla giustizia o, se si preferisce, la giustizia può essere restituita la diritto, solo se non considerato né astrattamente, né proceduralmente né funzionalmente ma come condizione esistenziale.

    Non si tratta di pangiuridismo, anzi al contrario. Si tratta di cogliere come la struttura alterizzata del se stesso, delineata da Ricoeur, sia la concreta modalità attraverso la quale l’essere umano si dà e dandosi esiste. Significa individuare tra le modalità di questa esperienza e di questo darsi esistenziale alcune che sono rispettose di quella struttura alterizzata e altre che non lo sono, ascrivendo alla giustizia le prime e all’ingiustizia le seconde.

    È in base a questo che la giustizia si rende giusta distanza e che il riconoscimento, la libertà, la vita buona non rimangono aspettative ma diventano situazioni effettive, diventano diritti. È per questa via che la libertà e la giustizia sono diritti, da rispettare perché obbliganti e obbliganti non in ragione di amicizia o di potere.

    Perché un aspetto nella gratuità della libertà e della giustizia non si sottolinea mai abbastanza, l’indisponibilità, ovvero proprio quell’aspetto che – stando alla riflessione ricoeuriana – risulta dal combinato disposto tra indagine verticale del tripode etico e circolarità dal fondamento alla pratica attraverso la quale Ricoeur propone la sua piccola grande etica, completata nella stesura di Le Juste 2.

    I termini essenziali sono proprio quelli dell’essere e della libertà. Sono i termini entro i quali una giustizia umana e solamente umana cerca le proprie ragioni con atteggiamento umile e propositivo, ermeneutico direi. Una giustizia non solo non assoluta ma anche fragile, in fondo, proprio perché e in quanto umana, troppo umana; ma una giustizia che proprio in questa fragilità trova l’elemento di maggiore forza teoretica e pratica. La giustizia si lega, infatti, alla comunità, all’aristotelica relazione che non costituiscono l’umanità ma che la qualificano esistenzialmente nel doppio movimento che relaziona il sé e l’altro e che Ricoeur ha come pochi colto nella sua concretezza ontologica. Ecco perché è profondamente giuridico il senso dell’espressione ricoeuriana: «come cittadini noi diventiamo più umani»11 ed ecco perché è esistenzialmente che il diritto è destinato ad avere un senso e a manifestare le ragioni del giusto, suo statuto.

    In questa direzione mi sembra di cogliere l’accento – bene rilevato da Brugiatelli – col quale Ricoeur osserva la centralità delle stima di sé nella giustizia.

    La giustizia è innanzi tutto misura, giusta distanza, giusta relazione, giusta ragione, ecc. Ma misura che non è esauribile nel senso del bilanciamento, della retribuzione e della equivalenza secondo una possibile interpretazione dell’agio dare a ciascuno il suo. Misura – ben prima – la giustizia è come rispetto: della legge, dell’altro, di se stessi.

    In questi termini, infatti, la legge non si confonde con il comando e con il potere, l’altro non è inteso come mezzo, il sé è riconosciuto nella sua interezza e nel suo non isolamento egocentrico.

    Una misura che appartiene all’essere e a quel sì di gioia al quale Ricoeur fa riferimento essenziale nella Philosophie de la volonté12. Un sì che è assenso partecipante all’essere ed esercizio di una libertà che non si possiede ma che si svolge, un sì che è essentia actuosa, secondo la formula spinoziana cara a Ricoeur.

    La giustizia sarebbe quella misura che consente il legame di riconoscimento, un «orthos logos»13, misura di ogni altro legame.

    Come scrive Brugiatelli all’insegna di una poetica della giustizia, la

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