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La tigre sotto la pelle: Storie e parabole degli anni della morte
La tigre sotto la pelle: Storie e parabole degli anni della morte
La tigre sotto la pelle: Storie e parabole degli anni della morte
E-book155 pagine2 ore

La tigre sotto la pelle: Storie e parabole degli anni della morte

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Info su questo ebook

La prima fiction in lingua inglese sull'Olocausto è tornata disponibile in italiano. Un testo per capire la forza dell'ebraismo e la sua storia ultramillenaria
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2017
ISBN9788827536254
La tigre sotto la pelle: Storie e parabole degli anni della morte

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    Anteprima del libro

    La tigre sotto la pelle - Zvi Kolitz

    Pinto

    La maledizione del rabbino di Rytzk

    Quante volte si spegne la lucerna degli empi, o la sventura piomba su di loro, e infliggerà loro castighi con ira?

    Giobbe 21,17

    Il rabbino di Rytzk, Issachar Reitznes, benedetta sia la sua memoria, non fu un famoso rabbino d’Israele, ma fu importante per insegnamento e buone azioni. Il numero dei suoi discepoli era esiguo, ma loro seguivano ogni sua sillaba con timore reverenziale, onorandolo e venerandolo come un santo. Era molto vecchio, quasi ottantenne, ed era cieco dalla gioventù. Trascorse i suoi ultimi giorni seduto a ripetere i capitoli del Pentateuco e della letteratura chassidica, che conosceva a memoria.

    Era pago della sua cecità, che considerava un dono di Dio. Soleva dire che, non a caso, il Talmud aveva definito il cieco come «un uomo dalla molta luce»; dato che, per via della cecità mondana, poteva scorgere la gran luce dell’eternità con gli occhi dello spirito. A volte – diceva il rabbino – vedo così tanta luce che mi sembra che bruci intorno a me il fuoco dell’Onnipotente.

    Pur essendo cieco, era il rabbino di Rytzk; i suoi occhi ispiravano timore e obbedienza. Erano più grandi e più larghi del normale, e il forte pallore della loro cecità brillava puro come l’argento. Era come se vivessero grazie alle sorgenti profonde del pensiero nella testa del rabbino. Il colore delle sue lunghe ciglia nere, quasi bordate di dolore, era il grigio del carbone trasformatosi in cenere, e solo una fiammella continuava ad ardervi: la bianca fiammella della purezza interiore.

    Il viso del rabbino era sempre roseo, come quello di una statua bianca illuminata da una lampada rossa. Il suo capo era cinto da una massa di capelli bianchi come la neve, su cui era appollaiata una kippah nera appuntita, simile a un alto campanile eretto sopra una vecchia torre. Anche la sua barba e i suoi baffi erano bianchi e folti. Alto e robusto come una quercia, era così imponente che i suoi concittadini, i gentili come gli ebrei, si allontanavano da lui con silenzio reverenziale ogni qualvolta attraversava le strade della città per la sua passeggiata quotidiana a passi lenti e misurati e con posa eretta. Insieme a lui camminava a braccetto il suo compagno di sempre, Reb Jacob, il sagrestano, gli occhi sul mondo del rabbino di Rytzk.

    Il rabbino, la cui moglie era morta senza figli quando erano entrambi giovani, non lasciò mai la sua città, né in tempo di pace, né in tempo di guerra. Quando i suoi discepoli lo spronavano ad andarsene per una vacanza, diceva loro: «La mia casa è il mio asilo». Quando, in tempo di disordini, lo spronavano ad allontanarsi dal pericolo, lui diceva: «La mia casa sarà la mia tomba». E quando, con le legioni naziste sempre più vicine a Rytzk, i suoi discepoli si radunarono a casa sua implorandolo di fuggire, lui si rifiutò fermamente di andarsene.

    «Voi, fratelli miei», disse, «dovete fuggire il più presto possibile, perché siete responsabili non solo di voi stessi, ma anche delle vostre mogli e dei vostri bambini. È vostro dovere continuare a vivere per amore di quelli che dipendono da voi. Ma io – io sono senza figli. Nacqui nudo dall’utero di mia madre e nudo ritornerò alla terra da cui sono stato preso. Sono un uomo solo e vecchio – indipendente e senza alcuna responsabilità. Per questo non posso fuggire al mio destino. Debbo dunque rinunciare all’opportunità, da sempre agognata, di santificare il nome dell’Onnipotente con il mio corpo?»

    Il rabbino insistette vigorosamente affinché i discepoli lo abbandonassero al suo destino. La partenza dei suoi confratelli fu movimentata come quella dei figli dal proprio padre. I discepoli piansero e gli baciarono mani e piedi. Anch’egli pianse, e i suoi occhi ciechi furono attenuati e oscurati dal flusso di lacrime. «Andate in pace, figli miei», disse con voce tremante, «e siate decisi, perché coloro che confidano in Lui non saranno mai umiliati». Allora, percependo la loro riluttanza ad andarsene, ordinò loro di lasciare immediatamente la casa e la città; i confratelli obbedirono. Solo Reb Jacob, anch’egli vedovo e senza figli, rimase col rabbino.

    Quando i discepoli lasciarono l’abitazione, il rabbino e il sagrestano, su indicazione di quest’ultimo, indossarono i loro lunghi abiti bianchi da festa e gli scialli da preghiera. Si misero a sedere e Reb Jacob lesse dei salmi. Sedevano molto vicini uno accanto all’altro, come se si unissero insieme. E mentre il frastuono dei fucili e delle bombe riempiva l’aria, i due uomini fluttuavano all’unisono, meravigliosamente calmi, a ritmo cadenzato dei dolci e sacri canti d’Israele.

    Il sole si era nascosto dietro gli alti alberi del vecchio cimitero ebraico di Rytzk quando le legioni naziste occuparono il villaggio. Al tramonto, tre soldati tedeschi, pazzi per la vittoria ed ebbri di desiderio, irruppero nella casa del rabbino, fermandosi bruscamente solo dinnanzi a ciò che videro. Restarono in silenzio davanti ai due vecchi, coperti di bianco come gli angeli di un quadro, seduti uno accanto all’altro, che non si alzarono o non si mossero per scappare. I soldati tornarono di corsa dall’ufficiale in comando e gli descrissero ciò che avevano visto. Questi rise di loro e si recò lui stesso nell’abitazione. Inizialmente, anch’egli fu un po’ sorpreso, ma, dopo essersi ripreso, indurì il suo viso e disse con voce aspra: «Uscite!»

    Il rabbino rimase seduto e rispose tranquillamente: «No, io morirò qui!». Ma Reb Jacob, il sagrestano, si gettò ai piedi dell’ufficiale, iniziò a baciarlo e ad abbracciarlo gridando: «Non toccarlo! È un uomo di Dio! Un uomo di Dio!»

    L’ufficiale rispose subito al suo appello. Prese ripetutamente a calci il sagrestano sulle tempie con i suoi stivali da marinaio, tanto che il vecchio morì sul posto senza emettere altri suoni. Il rabbino si gettò ai suoi piedi, allungò le braccia di fronte a lui, come se avvertisse l’oscurità, e gridò: «Reb Jacob! Reb Jacob!»

    L’ufficiale tedesco, osservando le gesta di quest’uomo dallo sguardo innaturale, che esprimeva un’incomprensibile sensazione d’inquietudine, chiese di sobbalzo con tono assolutamente pacato: «Sei cieco?»

    «Sì», rispose il rabbino, «Sono cieco, ma vedo molto di più di te».

    «E che cosa vedi?»

    «Ciò che tu ora non vedi».

    «Cioè?»

    «La tua amara fine».

    Come risposta, l’ufficiale assalì il rabbino e lo colpì con un pugno in un occhio. Il rabbino rimase tranquillamente in piedi e l’ufficiale, scosso da ciò che aveva appena fatto e allontanatosi di qualche passo, vide qualcosa di nuovo sul suo viso. Non era più serio, ma, con sua gran sorpresa, sembrava che si stesse trattenendo dal ridere. Gli occhi ciechi, che non fissavano un punto particolare, sembravano trafiggere i suoi; e l’occhio sinistro, che aveva ricevuto il colpo, assunse un aspetto sempre più spaventoso. Inizialmente apparve una macchia di sangue al centro. Era piccola e tonda, simile a una pupilla insanguinata, che si andava progressivamente allargandosi. Poi apparve un terribile occhio rosso splendente davanti all’ufficiale, dai cui angoli fluivano e scendevano costantemente piccole lacrime di sangue sul viso e sulla barba. Il rabbino restò per parecchi istanti fermo in un silenzio agghiacciante, poi aprì improvvisamente la bocca, si sistemò, mise la mano destra sul suo ampio petto e disse intenzionalmente con voce rauca, quasi salmodiando:

    «Anche se sono cieco, vedo molto di più di te. L’occhio che hai intinto nel sangue del mio capo ti vede come tu sei adesso e vede anche il tuo futuro sino alla fine dei tuoi giorni. Sappi allora che il Cielo ha decretato che tu non cadrai in battaglia come un soldato, né come un criminale braccato dopo che la guerra si concluderà con la vostra sconfitta. Il Cielo ritarderà la tua dipartita affinché tu possa vivere per testimoniare la vendetta del Dio della Vendetta sui malfattori della terra. Le guerre e le battaglie cui parteciperai con distinzione ti porteranno sempre maggiori onori. I criminali tuoi complici vedranno in te un eroe e invidieranno le tue gesta e la tua eccezionale buona sorte nello sfuggire a tutti i pericoli. Perché non sapranno che Dio ti sta preservando solo per vendicarsi ripetutamente su di te non appena giungerà la tua ora. Nessuna pallottola ti colpirà e nessun disastro ti annienterà, perché gli angeli della distruzione ordineranno la tua salvezza ovunque tu andrai. Ma presto, molto presto, diverrai conscio della verità di questa visione, e la vita ti diverrà insopportabile. Perché allora saprai – e soltanto tu lo saprai – perché vivi e che cosa ti attende. Allora cercherai disperatamente di morire, ma non ci riuscirai. Cercherai di ucciderti, senza riuscirci. E il Signore ti castigherà con la follia del timore, e non sarà il timore di Dio, o della morte, o dell’uomo – ma il timore di vivere e di te stesso. Il timore ti consumerà con appetito, succhiandoti il midollo dalle ossa. Dio dirigerà verso di te la spada a due lame della sofferenza dell’anima. La tua anima ti diverrà insopportabile; cercherai a lungo di ucciderla insieme a te, ma rimarrà dentro di te, finché non espierà il tuo peccato. Le tue sofferenze ti porteranno alla follia, ma non potrai morire. Non sfuggirai al tuo destino, né troverai rifugio da questo decreto, perché questa è la volontà dell’Onnipotente e non c’è scampo».

    Il rabbino aveva faticosamente terminato di parlare quando cinque pallottole dalla pistola automatica dell’ufficiale lo trafissero alla testa e al cuore, e cadde a terra, morto.

    Alla fine del 1941, il giovane ufficiale tedesco Werner von Helgard, che combatteva sul fronte russo, fu promosso al rango di colonnello. Il comandante di divisione, nell’annunciare la sua promozione – coeva all’onorificenza della Croce di Ferro al valor militare – dichiarò che le gesta di Helgard erano degne d’orgoglio per l’intera divisione. Gesta come le sue, disse il generale, accelereranno la sicura vittoria della Germania, e questa vicenda occuperà un posto di primo piano nella storia gloriosa dell’esercito tedesco vittorioso.

    Il generale aveva appena terminato di parlare quando improvvisamente Helgard, che era rimasto in piedi sull’attenti, gridò e cadde a terra svenuto. Fu portato in ospedale, dove il medico gli diagnosticò un brutto esaurimento nervoso dovuto all’eccessiva tensione. Il paziente aveva la febbre alta e fu piegato in due per ore da convulsioni dolorose inspiegabili. La gola emetteva strani rumori, come se il sangue gli stesse ribollendo. Il suo sguardo era stravolto, e durante la notte delirò. Con gran fatica riusciva a sollevare la parte superiore del suo corpo febbricitante; i suoi occhi rossi si dilatavano come se davanti a lui ci fosse una visione raccapricciante, e tutto il corpo rabbrividiva come a dire con voce tremante: «Nessun proiettile ti colpirà e nessun disastro ti distruggerà... Il Cielo ritarderà la tua dipartita affinché tu possa testimoniare la vendetta del Dio della Vendetta... La vita ti farà ribrezzo e cercherai disperatamente di morire, ma non ci riuscirai... e il Signore ti castigherà con la follia del timore... e il terrore ti consumerà fino a succhiarti il midollo dalle ossa... Le tue sofferenze ti porteranno alla follia, ma non potrai morire...».

    E scoppiava in un pianto selvaggio, allungando la mano verso qualcosa d’invisibile dicendo: «L’occhio! L’occhio sanguinante! Ferma l’emorragia! Fermala! Fermala! Fermala!»

    La sua voce cresceva di tono fino a concludersi con uno strillo. Poi indietreggiava esausto, implorando e piagnucolando con voce sommessa, stanca e disgraziata: «Voglio morire! Voglio morire!»

    Questi attacchi proseguirono per molte settimane. L’ufficiale fu poi ricoverato. I medici decisero che ciò di cui aveva bisogno era un lungo riposo in casa di cura. Ma quando gli furono comunicate tali intenzioni, Helgard si oppose col massimo vigore e insistette perché fosse rispedito al fronte. Questa volta, più che mai, voleva morire in combattimento. Sapeva bene ciò che gli stava accadendo, e già tre mesi dopo aver ucciso il rabbino-prodigio di Rytzk avvertiva la maledizione su di lui. Ne aveva avvertito la forza opprimente e irresistibile già dopo l’uccisione del rabbino. Non appena aveva attraversato la soglia di casa sua, fu colpito dalla sensazione che qualche tremendo cambiamento stesse avvenendo dentro di lui, che qualcosa di vitale si fosse spento. Sentì che le

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