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Le ammaliatrici
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Le ammaliatrici
E-book444 pagine6 ore

Le ammaliatrici

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Info su questo ebook

Di quanti destini straordinari si sono perse le tracce nei secoli?
Di quante storie di cui abbiamo smarrito memoria rimangono come unici e muti testimoni i luoghi in cui sono segretamente avvenute: i tavolacci delle vecchie osterie, i muri scalcinati delle chiese, le algide sale di tribunale, le celle conventuali, i manicomi, i bordelli, gli ostelli di santità e poi le valli ombrose, i campi di grano, gli anfratti più silenti delle caverne?

Così, quando un bizzarro condannato a morte di nome Bargniff si siede sul ceppo dove dovrà appoggiare il capo per ricevere il colpo ferale del boia e racconta le incredibili vicende di Maria del Maté, la giovane musa ispiratrice dei carnevali di Milano e di Maddalena de Buziis, la Madonna-strega dei baliaggi svizzeri, capita che nessuno gli creda.

Perché il Bargniff è un ladro, un truffatore, un volgare casciaball ed è bene che la sua vita sbandata finisca lì, nel campo del Nebbiano, il giorno del Signore 12 novembre 1664; prima che qualcuno prenda per buoni i suoi farneticamenti da ubriaco, prima che il mondo scopra che in un tempo indefinito di fine Seicento, a cavallo tra il Ducato di Milano e le più impervie valli prealpine, un gruppo di disperati e sognatori dava vita alla leggendaria Compagnia dei campi, e che uno spietato manipolo di persecutori di streghe e creatori di sante avviava una caccia ottusa e feroce per cancellarla dal mondo, insieme al piccolo Paradiso terrestre che era riuscita a creare tra i verdi spiracoli della pianura che attraversa il confine.

Completando la trilogia iniziata con “Il ladro di ragazze” (2015) e proseguita con “Latte e sangue” (2019), con “Le ammaliatrici” ancora una volta Carlo Silini ci regala una narrazione sorprendente e visionaria della storia nascosta, svelando la fine di un’era arcaica e selvaggia, tra amori, vendette e perdizioni, col ritmo forsennato di un thriller che tiene i lettori incollati ad ogni pagina. Un testo che commuove, agghiaccia, diverte, indigna e fa riflettere in una luminosa via di mezzo tra l’opera buffa e la tragedia.

LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2021
ISBN9788831285490
Le ammaliatrici
Autore

Carlo Silini

Carlo SiliniNato a Mendrisio nel 1965, laureato in teologia a Friburgo nel 1989, sposato, un figlio.Editorialista e giornalista responsabile delle pagine di Primo Piano (approfondimenti) del Corriere del Ticino, il maggior quotidiano svizzero in lingua italiana.Sul piano locale ha curato reportages e inchieste sociali e culturali (il Ticino magico, l’Islam di casa nostra, i movimenti religiosi alternativi nel Cantone, i Duecento anni del Cantone, la pedofilia online in Svizzera, il razzismo elvetico, le condizioni di lavoro nei cantieri AlpTransit, il Sessantotto in Ticino e molte altre).Sul Corriere del Ticino commenta regolarmente avvenimenti religiosi e sociali.Nel 1999 ha firmato con Giovanni Vigo il saggio “Dal mille al futuro”, ed. San Giorgio.Nel 2005 ha vinto il premio di “giornalista svizzero dell’anno” per la Svizzera italiana, attribuito dalla rivista Schweizer Journalist.Nel 2015 e nel 2017 ha vinto lo “Swiss Press Award”, il più importante premio svizzero di giornalismo.

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    Anteprima del libro

    Le ammaliatrici - Carlo Silini

    Antefatto

    Negli anni Settanta del Milleseicento il vento della follia non smette di spazzare impetuoso le praterie e le colline svizzere a Sud delle Alpi, attraversando i verdi spiracoli della pianura lombarda. Storie d’amore e di perdizione si rincorrono di qua e di là del confine, dove Maddalena de Buziis riesce in un qualche modo a scappare dai mostri e dagli incubi che l’inseguono fin dalla nascita. Scampata ai piani cruenti del nonno, il cosiddetto Mago di Cantone, sfugge pure agli agguati dei briganti incaricati di catturarla da Giovan Battista Ciceri, l’Uomo dei Trii Böcc. Il Ciceri, allievo prediletto del Mago, l’aveva vista fremere nella caverna davanti al nonno, pronto a pugnalarle il cuore. Eppure era riuscita a salvarsi. Per vendicare il proprio mentore, l’Uomo dei Trii Böcc riesce a farla processare dagli inquisitori del convento di San Giovanni in Pedemonte a Como con la falsa accusa di stregoneria. Ma Maddalena sopravvive misteriosamente al rogo e svanisce tra gli umori nebbiosi del Lario. Si dà alla macchia in compagnia di Giacomo, il drudo¹ sciupafemmine di cui è innamorata, della Rina, l’ex prevadessa² che da sempre fa da madre a Giacomo, e del piccolo Vittore, il figlio che Giacomo ha avuto prima di conoscere Maddalena³. Con loro cerca un impossibile ritorno alla vita normale. Ancora non sa che il suo destino si incrocerà con le esistenze non meno tortuose di un corpulento casciaball ⁴ di Milano e di una ragazzina bleniese odorosa di cenere.

    Indice

    12 novembre 1664

    Campo del Nebbiano, Baliaggio di Mendrisio

    «Bòia dala dumèniga, t’é giá sbagliaa.»

    Mentre attendeva che il mastro di giustizia lo uccidesse, tanto per cambiare il Bargniff aveva da ridire. Il sole era appena spuntato, luminosissimo e insolitamente caldo, sopra il campo brinato del Nebbiano, lucido come un vetro, dove i membri della Confraternita della buona morte l’avevano accompagnato in catene biascicando le preghiere di rito. Biascicando, perché per un orecchio allenato alle musiche di chiesa, o anche solo ai suoni grammaticali, non c’era un salmo che somigliasse a se stesso. Il povero latino delle orazioni a favore delle anime dei disperati volgeva a un cacofonico miscuglio di desinenze misteriose, rutti e proverbi in dialetto. Mi sa che ieri sera questi qui hanno tirato il collo alla bottiglia, ragionò il Bargniff, osservando la sagoma sghemba di uno dei suoi angeli custodi dell’ultima ora, un angelo grasso, il cappuccio calato malamente sul capo, le gambe bitorzolute e instabili sotto la pancia tonda e gonfia. Barcollava. Anche gli altri suoi compari, soprattutto uno alto e secco che pareva un cipresso dentro una tunica, a stento si reggevano in piedi.

    Ciucchi, pensò. Ciucchi marnati. Da dove vengono, si chiese, dalla fiera di San Martino?

    Ipotesi plausibile, i giorni erano quelli. Le punte dei cappucci degli uomini della scorta oscillavano come se tirasse un forte vento, ma non c’era un filo d’aria: uno spettacolo indecoroso. Quasi certamente era il goffo esito di una sbornia collettiva dei confratelli – ai margini del celebre mercato delle vacche – consumata la sera prima con religiosa dedizione e alto spirito di fratellanza.

    Ma sì, meglio andare al patibolo fra gente allegra piena di vino che in mezzo a una pattuglia di tristi bigotti, tutti Pater Ave e Gloria, si consolò il Bargniff.

    Se li osservava bene non c’eran santi: gli veniva da ridere.

    Ma quando, spostando lo sguardo dai confratelli al boia, aveva visto che l’esecutore di giustizia stava affilando la lama della scure in senso inverso, cioè passando la pietra dall’esterno del filo verso l’interno e non viceversa, tornò di colpo consapevole della propria condizione di essere umano a un passo dall’Inferno. E visto che doveva lasciare lì la pellaccia, la lama dell’ascia doveva essere affilata come Dio comanda.

    «T’é giá sbagliaa, hai già sbagliato» tradusse, colto dal sospetto che il boia venisse dal Nord delle Alpi, come spesso succedeva, e non capisse il dialetto. «Dall’interno verso l’esterno» urlò. «La pietra si usa in quel senso lì, se no è meglio che vai a pascolare le capre sui pascoli todeschi, amico. O sei ciucco anche te?»

    Il boia si era fermato un attimo, interdetto: gli girava la testa, la sera prima aveva bevuto anche lui, eccome, e se non fosse che in un momento del genere doveva mostrare sicurezza di sé e padronanza dei propri strumenti, gli avrebbe chiesto scusa. Mai scannare cristiani nei fumi del vino. Non è che non sapesse affilare la lama, è che si era distratto. Anche perché tra la folla c’era una donna che era uno spettacolo. Tornò in sé. Finse di continuare l’operazione alla sua maniera (in quel frangente, potendo, il Bargniff gli avrebbe strappato volentieri di mano e la scure e la pietra e ci si sarebbe messo lui a far le cose per bene) ma poco dopo, quando gli parve di non avere più addosso gli occhi di tutti, diede retta al condannato e invertì il movimento.

    «Che è questo falso sembiante?» urlò il Balivo⁷ di Mendrisio, David Gerwer, credendo di tradurre dal francese la parola messinscena, senza che gli astanti capissero cosa volesse dire. Seppure fosse bernese, il Balivo era stato abituato a pensare in francese, perché nelle corti che contano quella era la lingua regina. Capirono però che era d’umore storto e si chiesero se la sua indignazione avesse per oggetto il condannato che irrideva il boia, il boia che gli dava retta o il corteo ubriaco dei confratelli. «Che la serimonia comminci!» aggiunse con un tono più conciliante.

    Dalla folla avanzò allora a larghe falcate un piccolo frate francescano sudaticcio e tutto calato nel proprio sacro ufficio, l’espressione del volto corrucciata.

    «Son qui per confessarti, figliolo» disse rivolgendosi al condannato. «Ti chiedo un fervente e vero atto di contrizione per i tuoi molti peccati e devo ricordarti che questa è l’ultima occasione per farlo.»

    Il Bargniff prima lo squadrò con aria serafica, poi sputò per terra.

    Il fratino abbozzò un rapido segno della croce senza darsi per vinto.

    «Guarda che non avrai altra possibilità di guadagnare indulgenze sulle tue pene!»

    «Ma perché...» reagì il condannato, «si fanno sconti di pena anche all’Inferno?»

    Il religioso sobbalzò. Non sapeva cosa rispondergli. Teologicamente parlando l’Inferno è eterno, se finisci lì non si prevedono tormenti ridotti, tuttavia «Se ti confessi e ti penti» argomentò, col naso che sembrava ancora più appuntito per lo sforzo di restare concentrato nel proprio ruolo «ti si possono aprire le porte del Purgatorio e allora sì che potrai contare su qualche abbuono temporale alla tua pena.»

    «Ecchisenefrega» rispose sorridendo il Bargniff.

    Gliel’avevano detto, al frate, che non sarebbe stato facile gestire quel tizio. La faccenda era particolarmente irritante: era la prima anima che accompagnava al patibolo e ci teneva a far bella figura. Diligente, aveva studiato a tavolino la parte, sfogliando voluminosi manuali per confessori. Nessuno era più preparato di lui. In teoria.

    Nella pratica, invece, adesso era lì a sudare senza ritegno davanti all’ostica pecorella. Doveva rimangiarsi i gesti solenni che aveva immaginato leggendo i sacri tomi: lui che faceva baciare il crocifisso prima del congedo dal mondo; lui che ricordava ad alta voce al condannato e agli astanti l’obbedienza di Cristo al divin volere che, anche nel caso del Bargniff, aveva disposto quel modo di migrare nell’aldilà per il maggior bene dell’anima sua; lui che faceva recitare al giustiziando gli articoli del Credo; lui che lo induceva a chieder perdono al popolo per lo scandalo seminato; lui che l’accompagnava nella recita dell’ultima Ave Maria, a bassa voce, veloce, perché la gente capisse che non intendeva prolungare inutilmente l’afflizione di quel poveretto. Lui, lui, lui. Lui che adesso non sapeva che pesci pigliare al cospetto del ghigno beffardo del Bargniff.

    Decise di andare al sodo, alle preghiere finali che precedono l’esecuzione.

    «Padre di misericordia e Dio dell’anima mia» pronunciò a gran voce, «è giunta l’ora nella quale quest’ingrato e disobbediente figliolo ha da comparir davanti alla vostra divina presenza...»

    «Magari più tardi, reverendo» s’intromise il condannato. «Prima credo di avere ancora il diritto di rivendicare un ultimo desiderio, o no?»

    Il cappuccino avrebbe voluto voltare i sandali e andarsene con plateale disappunto. Mi hai rovinato la scena? E va bene, muori pure senza il conforto della religione, scellerato. Peggio per te. Invece si limitò a volgere uno sguardo interrogativo in direzione del Balivo che annuì rassegnato ricordando a quel disgraziato di non fare il furbo (Gerwer aveva detto «non fare il malino», da malin, ma tutti intuirono) e di esprimere senza pretese eccessive (disproporzionate) il suo ultimo desiderio. Il fratino sparì contrariato tra gli astanti e il Balivo lo osservò senza commentare. Poi si rivolse al condannato.

    «Che vuoi? Acqua? Vino? Un morso di pane?»

    «Donne non ne hai?»

    Femmes? Ah, ça alors... E si limitò a scuotere la testa divertito.

    «E allora il mio ultimo desiderio è questo: voglio raccontarvi una storia.»

    «D’accord, como se dice? D’accordo, conta la tua storia» rispose a sorpresa il Balivo, incuriosito dal bizzarro personaggio. «Ma non tirarla troppo per le lunghe.»

    «Ci proverò» rispose il condannato.

    Il Bargniff si sedette sul ceppo dove più tardi avrebbe appoggiato il capo in attesa del colpo di mannaia, scrutò soddisfatto la piccola folla accorsa per l’esecuzione, si grattò la testa e prima di parlare pensò che la vita è una cosa strana, stupenda e piuttosto bastarda.

    Era una giornata mite, per essere l’inizio di novembre, ma succedeva spesso in quel periodo: la chiamavano l’estatella di San Martino. La gente era quasi felice di quello sviluppo inatteso. Alcuni si sedettero per terra. Il Balivo si fingeva indifferente ma in realtà era intrigato dal fuoriprogramma di un giustiziando che si metteva a dar spettacolo prima di crepare.

    Il boia appoggiò la mannaia su un sasso oblungo e piatto e si sfilò il cappuccio. Era biondo come il mais e in cuor suo gioiva di poter guardare con tutta calma la ragazza che aveva attirato la sua attenzione. Abbozzò un sorriso, ma lei non ci fece caso.

    «Mí sun de Milán» esordì il Bargniff declamando il nome della sua città lentamente, con infinito rispetto, pronunciando a stento la a e lasciando planare sugli astanti la magia che quella parola, Milán, poteva esercitare sulla gente semplice di campagna, che nella capitale del Ducato non c’era mai stata ma di cui aveva sentito narrare la magnificenza, i lussi e le stranezze dai compaesani che c’erano andati per lavoro come facchini, venditori di marroni o – in tempo di peste – come monatti.

    «So tutto del mondo, so niente di Dio. Ma ho conosciuto due donne speciali che mi hanno cambiato la vita. Anzi. Se oggi sono qui ad attendere il colpo del boia è colpa loro, vaccaladra

    Si fermò un attimo, forse per cercare con gli occhi qualcuno tra la folla. Probabilmente non lo trovò. Tirò il fiato e guardando verso il cielo scosse la testa sconsolato.

    «Signur, Signur! Ma proprio a me doveva capitare di incontrarle?» disse a una nuvola grigia che si spostava sopra il Nebbiano. Poi tornò a gettare sguardi nel popolino, sputò di nuovo per terra e cominciò il suo racconto.

    «Le ho amate tutte e due. E tutte due le ho odiate. Facevano quell’effetto lì. Bastava guardarle che...» ma non finì la frase.

    «Una era una santa, l’altra una strega.»

    Indice

    Prima parte

    Cose da pazzi

    In un bosco della Vallemaggia, sei mesi prima

    Sarà stato il fumo, saranno state le urla.

    O forse era solo stanca. Stanca di portare il sacco che aveva riempito di notte, prima di scappare via. Stanca di correre, di nascondersi, di scivolare tra le rocce e le piante, di far su e giù tra il fiume e il bosco, il cuore in gola, la paura nelle vene, i pensieri stonati che le esplodevano in testa.

    La ragazzina non era in grado di capire cosa l’avesse spinta a bloccarsi proprio lì, a nascondersi tra le fronde e ad osservare ogni cosa senza staccare gli occhi da quanto vedeva, invece di fuggire come un capriolo fiutato dai lupi.

    Mi fermo qui. Mi fermo e guardo, aveva pensato. Nient’altro.

    E ciò che aveva visto non era bello. C’era del fumo prima di tutto, un fumo bianco che si impigliava tra le foglie, confondeva la vista e bruciava gli occhi. Qualcuno doveva aver dato fuoco a un po’ di paglia e ad altre erbe aromatiche che impestavano l’aria. In mezzo al fumo avanzava lenta una processione di donne che camminavano in fila dietro un uomo giovane, esangue e alto che cantava con voce acuta e dolente, come un bambino che avesse perso la mamma e disperasse di ritrovarla. Ecco, ragionava ora, forse a farle decidere di fermarsi lì era proprio quella voce penetrante e ferita da piccolo orfano dentro un corpo da adulto.

    Lui cantava in falsetto e le donne lo seguivano piangendo nel fumo, anzi urlando.

    «Dove va il corpo vada anche lo spirito» gridavano.

    «Dove va il corpo vada anche lo spirito» salmodiava il giovane con voce di testa, intonatissima, angelica e pungente.

    La ragazza era così concentrata su quel canto che quasi non si era accorta che l’uomo stringeva tra le mani la testa di un morto.

    E allora sì, rendendosene conto, scappò. Alla cieca, incurante del fracasso della fuga, del crepitio dei rami e delle foglie sotto i suoi passi impazziti che la precipitavano dal bosco al fiume a capo basso, il terrore che martellava le tempie, ostruiva il respiro.

    Maledetto fumo.

    «Dove va il corpo» si ripeteva correndo, «vada anche lo spirito.»

    Voltandosi vide il giovane che mollava la testa e le correva dietro.

    Aveva un buon vantaggio su di lui e sarebbe riuscita a sfuggirgli, ma di colpo si era fermata ansimando. No, non poteva andare avanti. Non doveva.

    Il sacco.

    Aveva dimenticato il sacco e non poteva abbandonarlo. Dentro c’era... Non poteva abbandonarlo e basta.

    Quando venne arpionata dall’inseguitore, sbucato da una nuvola grigia che galleggiava tra i cespugli, capì che era finita.

    Giunsero anche le donne. Erano furibonde. Strillavano come aquile.

    Milano, Porta Tosa

    L’Uomo dei Trii Böcc, al secolo Giovan Battista Ciceri, non era tipo da farsi gli affari degli altri. O meglio: se li faceva di continuo e in modo imbarazzante quando si trattava di ottenere informazioni utili alla propria causa: pubblicamente la caccia alle streghe, segretamente la persecuzione delle donne. Quelle che usavano i loro naturali poteri per sovvertire le leggi divine che stabiliscono il sacrosanto primato di Adamo e i suoi discendenti maschi su Eva e le sue discendenti femmine.

    Ne aveva fatte catturare tante, di tentatrici, nell’oscura carriera di agente inquisitore della Suprema congregazione del Sant’Uffizio. E le aveva fatte punire come meritavano.

    Lo strumento principe per mettere le mani su di loro era sempre lo stesso: la costante attenzione alle voci, ai sussurri, ai si dice che; la raccolta paziente e sistematica di frammenti di testimonianze, sensazioni e pettegolezzi che aleggiavano attorno a Tizia o a Caia e la pedante ricomposizione delle tessere del mosaico, un quadro generale di perversità, da cui tutte uscivano quasi sempre colpevoli e legalmente perseguibili. Perciò, anche se la Chiesa negli ultimi tempi si era rammollita e molte scriteriate evitavano il patibolo per il risibile scrupolo di un inquisitore stanco o dubbioso, i vecchi metodi di indagine per lui restavano dogmi divini. Ma al di fuori della sua benedetta missione di fiutatore professionista del diavolo e dei suoi accoliti, al Ciceri dei chiacchiericci sugli e degli altri non interessava nulla. Perché gli altri, per lui, non erano importanti, considerava il loro bla bla un fastidioso rumore di fondo che interferiva coi propri pensieri. Quella volta, però, non resistette alla tentazione di ascoltare.

    Era sceso in strada per sgranchire le gambe, una pratica abituale da quando si era trasferito dai Baliaggi svizzeri a Milano, e si stava chiedendo quanto fosse soddisfatto di vivere in una grande città dove godeva di una certa considerazione, e quanto gli mancassero, invece, il villaggio di Riva San Vitale, dove nessuno sapeva chi fosse, e l’eremo roccioso dei Trii Böcc sopra Mendrisio, dove si ritirava per meditare al riparo dal mondo.

    Venne strappato alle sue considerazioni interiori da uno scambio di confidenze tra un carraio e una venditrice di verdure che parlavano in modo concitato dandogli le spalle. Si fermò per un automatismo da buon inquisitore: chi parla dandoti le spalle non vuole farsi sentire, ed era proprio sul terreno delle parole che non devono essere sentite che si costruiscono i processi alle streghe. Infatti non urlavano, parlavano come due che si incrociano normalmente lungo la via. No: sussurravano. Fu più forte di lui: si impose di interrompere il filo dei pensieri e decise di ascoltarli, perché dove si sussurra c’è quasi sempre un segreto, e dove c’è un segreto c’è quasi sempre un peccato.

    «L’è scapaa.»

    «Ma l’è minga pussibel. Nissün l’è bun de scapá dal bòia

    «Te disi che l’è scapaa. Sunt sicurissim, l’u vist cunt i mè öcc. Iér l’éra gió ala Vétra n mèzz al füm e al fögh, incöö l’éra in gir cumè un papa in campagna. L’éra lüü, el cugnòssi tròpp bén. E pö el gh’avéva indòss el sòlit mantèll verdesín. Quant che l m’a vist, l’a tiraa drizz e l’è scapaa de prèssa. L’a capii sübet che l’avéva ricunussüü.»

    «Scusate se vi interrompo» era intervenuto il Ciceri. «Ma chi sarebbe questo tizio che è scappato dal boia?»

    Il carraio e la verduriera si guardarono interdetti. Come mai quel signore – quasi certamente un prete, a giudicare dal vestiario – si interessava ai loro discorsi? Dovevano aver ragionato in fretta e stabilito, ognuno per conto proprio, che per quella volta non c’era nessun pericolo nel dire la verità. Dopo un primo momento di smarrimento risposero in coro: «El Bargniff».

    «Chi?»

    «Viene da fuori, monsignore? Lo sanno tutti chi è il Bargniff, qui a Milano.»

    L’Uomo dei Trii Böcc stava per perdere la pazienza, ma ormai il ragno della curiosità aveva iniettato il suo veleno.

    «Vivo qui, ma vengo da fuori» abbozzò. «Ma chi è questo... Come l’avete chiamato?»

    «El Bargniff» disse la donna. «È un disgraziato che per anni si è fatto le palle d’oro, con rispetto parlando, truffando la gente con false cure e portando bambine ai ricchi per farli divertire, se capisce cosa intendo dire.»

    Il Ciceri la fulminò con lo sguardo. Come si permetteva quella venditrice di cavoli e verze di insinuare che non cogliesse l’allusione all’ampio giro di meretrici sotto i dieci anni, un male che da uomo di Chiesa sarebbe stato tenuto a combattere con furore e severità? Ma lasciò correre.

    «Bargniff, avete detto? E com’è che sarebbe scappato dal boia?»

    Questa volta fu il carraio a schiarirsi la voce. «Guardi reverendo, io il Bargniff lo conosco bene. Siamo nati tutti e due sotto Porta Tosa e abbiamo più o meno la stessa età. Ieri è stato portato alla Vetra per essere ammazzato dal boia. Prima l’hanno fatto spogliare, poi gli hanno dato qualche colpo di tenaglia rovente, poi l’hanno legato al palo...»

    «Mmmmm» grugnì il prelato. «Quindi l’hanno bruciato.»

    «Sì, cioè no, non lo so. Ieri l’hanno visto tutti mentre si squagliava nel fuoco attaccato al palo, però...»

    «Però?»

    «Però io non c’ero, durante l’esecuzione ero fuori città, quindi non posso dire che l’ho visto morire.»

    «Neanch’io» s’intromise la verduriera. «Ero a casa quando lo bruciavano. Non mi piacciono quegli spettacoli lì.»

    «Ma l’uomo mandato al rogo era lui?»

    «Sì» dissero.

    «Quindi?»

    La verduriera allargò le braccia come a intendere: «Non so che dire».

    «... Quindi, è una diavoleria» concluse dal canto suo il carraio. «Perché lui è un mago. Quando eravamo ragazzi ci fregava sempre, appariva e scompariva come un fulmine. Sì, ho sempre pensato che fossero dei trucchi, ma il diavolo esiste, no, monsignore?»

    «Che domande: certo che esiste! Però, tu prima stavi dicendo un’altra cosa a questa donna.»

    Il carraio si massaggiò la mascella accarezzandosi la barba sale e pepe. Era un uomo del popolo, abituato a non sbottonarsi troppo con i nobili e i religiosi perché non potevi mai sapere se ti potevi fidare o se una tua frase buttata lì non si sarebbe ritorta contro di te.

    «Vengo da fuori, ma guarda che lo capisco il dialetto. E non sono sordo» lo incalzò il prete.

    Allora ruppe gli indugi: «Sì, reverendo, le stavo dicendo che quando stamattina sono uscito dalle mura per andare a raccogliere delle patate in campagna l’ho rivisto.»

    «Il Bargniff?»

    «Il Bargniff. Era lui, vivo e vegeto, e camminava spedito verso Nord.»

    «Magari era solo uno che gli somigliava.»

    «No monsignore, aveva anche su un mantello verde chiaro pieno di ghirigori rossi che indossava sempre...» E se non si fosse trovato di fronte un monsignore avrebbe aggiunto: «Ghe scommètti i ball»⁹.

    Giovan Battista Ciceri li congedò frettolosamente, anche perché la verduriera cercava di convincerlo a comprare delle zucche o, in alternativa, un mazzo di cicoria, e lui – che era già infastidito per quel contatto con gente volgare e ignorante – non vedeva l’ora di liberarsene.

    Prima di rientrare fece un salto da Gian Enrico Pallavicini, un notaio molto sveglio col quale aveva regolari frequentazioni perché apparteneva alla sua stessa Congregazione. Uscì dopo pochi minuti con scarse informazioni: sì, il giorno prima avevano mandato al rogo alla piazza della Vetra un mago-medico-mentitore – soprattutto un casciaball, aveva specificato l’uomo di legge – che tutti conoscevano come Bargniff, ma in realtà si chiamava Isidoro Strongoli e veniva da Binasco, un paesotto tra Milano e Pavia.

    Quando gli aveva chiesto se fosse possibile, in linea del tutto teorica, fuggire dal patibolo della Vetra durante un’esecuzione, il notaio gli aveva rivolto un sorriso sarcastico.

    «No. A meno di essere il re della fuga, ma io di gente così non ne ho mai conosciuta.»

    Tu no, ma io sì, pensò il Ciceri.

    Rientrando a casa non poté evitare di tornare con la mente alla ragazza che aveva fatto bruciare a Como qualche anno prima, Maddalena de Buziis. E ricordò il soprannome che le aveva dato fino a pochi minuti prima che morisse incenerita: vipera bianca. Provò una profonda inquietudine che crebbe insopportabilmente quando si rese conto di essersene andato dalla scena del rogo prima che si esaurissero le ultime fiamme.

    Cevio, Baliaggio di Vallemaggia e Lavizzara

    Quando le furono addosso, le donne smisero di urlare e la circondarono senza toccarla. L’uomo alto l’aveva presa per un braccio ma, contrariamente a quanto si sarebbe aspettata, non stringeva forte, il suo era un tocco lieve, come di chi ti accompagna, non come di chi ti cattura. Ma quel cerchio di donne che la fissavano ostili non lasciava spazio al dubbio circa le cattive intenzioni che le animavano.

    «Cosa ci fai qui, ragazza?» le aveva chiesto qualcuno, ma non seppe dirsi chi. Aveva la voce di un bambino, ma lì di bambini non ce n’erano. Guardò l’uomo e osservò le donne ad una ad una chiedendosi chi le avesse rivolto la domanda.

    «Rispondi!» strillò una delle donne.

    «Io... Io ero qui» si limitò a dire.

    «Ma perché eri qui?» le venne chiesto ancora una volta dalla voce di bambino.

    Solo in quel momento si rese conto che a parlare era stato il tizio alto che le cingeva il braccio, lo stesso individuo che cantava come un angelo nel bosco e aveva mollato la testa del morto per rincorrerla.

    «Mi sono persa» buttò lì.

    «Nessuno si perde nel bosco dei morti, nessuno è così scemo da perdersi qui» reagì un’altra donna.

    «Ma io non sapevo che...»

    «Tu hai rovinato il rito!» disse freddamente la donna.

    «Quale rito?»

    «Noi qui accompagniamo i morti infelici» spiegò, calma, la voce da bambino. «Quelli che non trovano pace perché se ne sono andati troppo presto, perché si sono ammalati da piccoli o perché muoiono lasciando dei figlioletti, perché sono stati uccisi, giustiziati, o perché li ha sbranati un orso, o sono precipitati dai dirupi e gli è caduto un masso addosso. Li seppelliamo in questo bosco e qui la loro anima si consola perché questo è il loro paradiso per sempre.»

    La ragazza annuì lentamente.

    «Allora questo è il posto giusto» sussurrò.

    «Che cosa hai detto?»

    «Allora questo è il posto giusto» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Poi si divincolò dalla debole presa, attraversò il cerchio delle donne, andò a raccogliere il sacco che aveva dovuto abbandonare durante la fuga, tornò indietro e lo gettò tra i piedi del tizio con la voce da bambino.

    «Aprilo e capirai.» Poi si sedette per terra fissando i rami degli alberi che oscillavano dentro il vento che scendeva ululando dalle montagne.

    Uno spiffero gelido attraversò i capelli della ragazza diffondendo nell’aria un sentore di fumo.

    Milano

    Quella notte l’Uomo dei Trii Böcc faticò ad addormentarsi. Continuava a ripensare alla sagoma della vipera bianca che si dibatteva tra le fiamme legata al legno del supplizio a Como, alcuni anni prima. Era un giorno nebbioso, c’era molto fumo. Alla vigilia del rogo aveva consegnato un’ampolla di cristallo al boia – l’unico che avesse accesso diretto alla condannata – pregandolo di riempirla del sangue di Maddalena. Debitamente pagato, il carnefice aveva soddisfatto l’insolita richiesta e la notte stessa lui aveva potuto ingurgitarne il contenuto. Per la foga si era macchiato il mento. Era stato bellissimo, ma ora stringeva nervoso i pugni osservando la pelle bianca, quasi trasparente, tesa sopra le nocche.

    Maledizione, non riusciva a ricordarne il sapore. Forse aveva bevuto troppo in fretta.

    Aveva lasciato colare lentamente il sangue nella gola, aspirandolo subito, con violenza, ansioso di placare una volta per tutte la sete feroce che lo animava da anni, dal giorno in cui la maledetta era fuggita dalla grotta dove sarebbe dovuta morire.¹⁰ Lui c’era, lui l’aveva vista salvarsi da una fine segnata e certa. Ma si era tormentato perfino di più vedendo che da lì in avanti, quando la sua fine pareva ineluttabile, era riuscita a salvarsi moltissime altre volte.

    Altro che strega, era il demonio.

    Catturarla e ucciderla con le proprie mani era stato per anni il suo imperativo, la conditio sine qua non della propria possibilità di essere felice. A farla fuori di persona non ci era riuscito, purtroppo, però dopo infiniti e snervanti contrattempi, l’aveva consegnata al tribunale dell’Inquisizione perché cancellasse la sua ossessione dal mondo e la trasformasse in urla e cenere, in cenere e nulla.

    Inginocchiato sul pavimento a occhi chiusi, ora cercava di far riemergere dalla memoria il sapore del suo sangue, il gusto ultimo di lei che neppure il suo amante aveva mai assaggiato mentre le mordeva la pelle nelle notti d’amore.

    Ora il Ciceri sondava coi denti la punta della lingua, cercando nella saliva tracce di quel sentore acre che per lui era stato dolcissimo.

    Possibile che di lei non mi rimanga più nulla? si chiedeva. Davvero la scomparsa della nemica l’aveva reso più felice?

    Quella, però, non era la notte delle risposte, era l’ora dei dubbi. Perché da quando aveva origliato lo scambio di confidenze tra il carraio e la verduriera, un tarlo ancora più terribile aveva cominciato a rodergli il cervello: che la sciagurata fosse riuscita a beffarlo perfino mentre si scioglieva strillando sui carboni del rogo.

    Non è possibile, si ripeteva, non è possibile.

    Per calmarsi decise che appena fosse sorto il giorno avrebbe fatto preparare la carrozza e sarebbe tornato a Como e, già che c’era, fatto un salto nei Baliaggi svizzeri dove tutti gli avrebbero dato del matto per un sospetto così farlocco. Ne avrebbe riso e poi, di nascosto, ne avrebbe pianto. Ma solo così si sarebbe perdonato il delitto di aver dimenticato il gusto sapido di quel sangue di vipera.

    Cevio

    Lo sguardo dell’uomo alto era identico alla sua voce, pensava la ragazzina mentre lo guardava tremando: uno sguardo assoluto e severo, da bambino triste. Sotto quegli occhi si sentiva nuda. Ma non erano le sue forme piacevolmente acerbe o i suoi segreti di rosa che l’uomo vedeva dalle pupille grandi e liquide. Era la sua anima. Perciò lei provava paura, una paura folle perché se uno ti vede dentro non hai più nulla per difenderti. E infatti non trovò di meglio che dirglielo: «Non guardarmi così!».

    L’uomo era arrossito, come se fosse stato scoperto, come se quella fanciulla avesse stanato il suo segreto, e si coprì la faccia con le mani. «Non voglio farti del male» sussurrò.

    «E allora perché mi hai preso? E perché quelle donne mi odiano?»

    «Quali donne?»

    La ragazza si guardò attorno: non c’era nessuno.

    «Dove sono finite?»

    Lo spilungone tolse le mani dalla faccia e sul suo volto apparve un ghigno che poteva sembrare sia un sorriso che una smorfia di dolore. In realtà era tutte e due le cose.

    «Sono partite, non te ne sei accorta? Dopo averti presa ho chiesto loro di andarsene.»

    «Ma tu non hai neanche parlato. Gliel’hai chiesto in silenzio?»

    «Sì, in silenzio.»

    «E loro ti hanno capito?»

    «Certo. E comunque non ti odiano, erano solo arrabbiate perché hai interrotto un rito sacro, tutto qui.»

    «Tu parli anche quando stai zitto?»

    «Tutti possono farlo, se vogliono.»

    Era sempre più confusa. In che razza di posto era finita? Che persone erano, quelle? Perché le donne se ne erano andate? Ma soprattutto: perché l’avevano lasciata da sola con lui?

    «Perché io posso aiutarti» rispose telepaticamente lui.

    La ragazza fece un salto all’indietro, spaventata.

    «Lo vedi? Anche tu parli in silenzio.»

    Ma lei non ascoltava più le sue parole, non riusciva a concentrarsi sul loro significato. Ne sentiva unicamente il suono e non si capacitava che dalla bocca di un adulto uscissero tonalità così alte, limpide e acute. Tornò subito in sé e provò a recuperare le frasi perse.

    «Cos’hai detto, scusa?»

    «Niente, ti stavo spiegando perché ho questa voce... strana.»

    Era fatto così quell’uomo magro e bislungo: non avevi bisogno di dirgli nulla, ti leggeva dentro. Ma lo faceva con discrezione, con naturalezza. Vedeva cos’avevi dentro così come la maggior parte delle persone vede come sei fatto fuori.

    Si sedette accanto a lei e cominciò a raccontarle la sua vita.

    «Non ho mai cambiato la voce, io. Come l’avevo da bambino ce l’ho anche adesso. E sì, lo so, non è normale, visto che ho trentadue anni. Ma un giorno di molto tempo fa, metti che di anni ne avevo appena dieci, ero andato a falciare l’erba alta con mio padre. Ce l’hai un papà?»

    La ragazza fece cenno di no con la testa.

    «Ma certo che l’hai, ce l’hanno tutti un papà.

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