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Fiorirà L'annunciazione?
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E-book242 pagine3 ore

Fiorirà L'annunciazione?

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Info su questo ebook

Nella grande diocesi di Firenze nessun sacerdote vuole andare alla parrocchia dell'Annunciazione. La ragione è semplicissima: esiste solo sulla carta e bisogna sobbarcarsi vent'anni di debiti per costruire e pagare la chiesa con annesse opere parrocchiali. Solo don Giacomo -detto donGia- è felice e desideroso di andarci, vedendo in quello che per altri è buio, un potente faro di luce. Quella decisione sarà sufficiente a cambiare per venticinque anni la sua vita. Il regalo più grande che la Provvidenza di Dio gli abbia mai fatto: una comunità di tremila persone. Però essa si rivela anche il luogo della sofferenza più pungente. Ma donGia in ogni ombra trova una luce nascosta e alla fine sarà vincitore a modo suo. Secondo un tema caro all'autore della "Letteratura Teologica o spirituale".
LinguaItaliano
Data di uscita17 mag 2013
ISBN9788898517022
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    Anteprima del libro

    Fiorirà L'annunciazione? - Leonardo Bruni

    DELL’EPILOGO

    CAPITOLO I

    Il campanone del Duomo batté, greve, le sei. Nel suo ufficio in Curia, ricavato da un soppalco in una mansarda, don Giacomo Alberti - donGia per gli amici - ultimo rampollo d’una famiglia di artigiani votati alla dispersione, sentì tremare i vetri ai colpi del grande batacchio. Infatti il suo ufficio era a dieci metri, in linea d’aria, dalla grande campana. Emise un sospiro di tristezza, pensando ad un altro giorno passato tra quelle scartoffie. Fremevano i vetri, ma fremeva anche il suo animo. Era dunque per questo che era diventato sacerdote? Per starsene ad ammuffire in un ufficio curiale, o meglio in questa specie di soffitta, a catalogare gli inserti dei matrimoni e dei funerali, a scorrere tutte le pagine di quei registri per apporvi un timbro?

    I rintocchi più lontani delle altre chiese non fecero altro che ricordargli lo strascico d’un altro giorno perso. Perché la Curia non l’adoperava? Perché il vescovo l’aveva relegato in quell’ufficio, a compiere quel lavoro? Lui aveva sognato un bel altro ministero! Erano ormai passati due anni dal giorno sfolgorante della sua consacrazione, da quella domenica pomeriggio - solennità di Pentecoste - dove il santo crisma disceso dall’alto l’aveva riempito di splendore. Quello interno dell’anima durava tuttora, acceso dal sacro fuoco di salvare le anime; ma quello esterno durò solo una giornata: quella della festa. Dopo, tutto ristagnò nel tran-tran quotidiano. In Curia certi discorsi lo facevano arrabbiare: non si faceva altro che parlare della penuria, della mancanza di sacerdoti. Di don Albino che mercoledì era stato ricoverato in ospedale, di don Tarcisio che venerdì aveva avuto un infarto; per cui bisognava prendere provvedimenti, in quanto in seminario erano rimasti solo quattro gatti: quattro di numero. Allora perché quella atroce mancanza del mandato? L’aspettava da tanto, ma il vescovo non l’aveva nominato in nessuna parrocchia.

    DonGia fece uno sforzo, per stirarsi e drizzarsi con la schiena. Chiuse il grande librone dello stato di anime, che gli rispose con un pesante tonfo. Di malavoglia si diresse verso la ripida scala di legno, chinò la testa per non sbattere nella trave della porta, e scese facendo attenzione a non inciampare. Arrivato da sotto, nel grande ufficio curiale, salutò don Franzoni il vecchio arciprete navigante verso i novant’anni e con movimenti veloci conquistò l’uscita. L’idea di finire come quel povero prete lo faceva rabbrividire: lo disgustava più del peccato. Avrebbe fatto anche lui la stessa fine? Dalle grandi promesse del Cristo risuonanti nelle pagine del Vangelo: «Tu Giacomo vieni e seguimi, che ti farò pescatore di uomini»., a dover fare il topo di scartoffie! Gli era bastato un’occhiata, prima di passare il vano della porta, per provare compassione per don Franzoni. Per la sua figura esile e ingobbita dal compilare per trentine d’anni i registri diocesani; per quelle mani rinsecchite, che se ne uscivano dalle maniche d'una talare completamente lisa; per il di dietro della veste, di gabardine nera consunta e reso lucida dall’uso, con gli orli sdruciti. Per non parlare delle scarpe: d’un colore indefinito, con le suole finite. Tutto questo lo disgustava. Il tutto manteneva dignità solo perché don Franzoni andava sempre pulito e ordinato. Fosse stato sciatto e malandato si sarebbe potuto paragonare a Salvatore, il poveraccio che stazionava nell’androne della Curia.

    Avrebbe fatto anche lui la stessa fine? D’accordo adesso aveva mamma e babbo sempre validi. Ma quando fosse invecchiato? Sarebbe diventato un altro don Franzoni? Sentì una fitta al cuore e gli ritornarono alla mente le parole di suo padre: «Diventerai prete? Allora il mio cognome morirà con me. Una famiglia votata all’estinzione».. Ma che colpa ne aveva lui se era l’unico figlio maschio di babbo Giovanni? Lui era stato chiamato a lavorare non per una ditta qualsiasi, ma per la vigna del Signore stesso! E s’era lasciato convincere, aveva risposto con tutto il suo cuore, con tutte le sue forze e con tutta la sua mente: Sì, prendi me!. Al presente non aveva nessuna voglia di tornare a casa, ma non aveva altra scelta. Già sapeva come si sarebbe svolto l’andazzo della serata. A parte mamma Gina nessuno l’avrebbe difeso. Non che avrebbero arricciato il naso, o l’avrebbero apertamente accusato. Per l’amor di Dio! Egli era sempre un consacrato: noli me tangere. Ma dalle rapide occhiate che si sarebbero lanciate suo cognato, sua sorella e il babbo ci voleva poco a indovinare dove si sarebbe andati a parare.

    Fatto stava che il marito di sua sorella, artigiano tessile, doveva andare in pensione e allora tutta l’attrezzatura dei telai che fine avrebbe fatto? Sua sorella, una donna, non poteva fare quel mestiere: da che mondo è mondo il tessitore l’hanno sempre fatto gli uomini. E lui che aveva lavorato con suo cognato per diversi anni, prima d’entrare in seminario, era l’erede designato della baracca, stante che loro non avevano avuto figli.

    Scendendo dall’autobus, prima d’entrare in casa, fece scorrere sullo stanzone della tessitura, a lato della casa, uno sguardo d’avversione impotente. Detestava, in quel momento tutte le tessiture del mondo, e quella in modo particolare. Era faticoso pensare a tutti i discorsi che sarebbero seguiti tra poco: che l’officina del Fabbri non solo non voleva pagare niente dei telai, ma voleva addirittura un compenso per portarli via. Un pasticcio, una situazione opprimente -da carcere- che lo imprigionava. Sentiva già la frase abituale di suo padre: se solo tu avessi continuato a fare il tessitore… Si mosse deciso verso casa, passandosi la mano sul mento. Era il suo gesto abituale d’ogni mattina, quando si radeva. DonGia era un uomo d’un aspetto imponente, alto più d’un metro e ottanta, con una testa ricoperta di riccioli neri posta su un torace possente. Emettendo un altro sospiro, l’ultimo della giornata, entrò in casa.

    * * *

    Quella mattina mons. Melani, vicario generale della diocesi di Firenze, girando e rigirando quel foglio scritto che aveva davanti pensò che era un bel pasticcio. Una bella faccenda non c’era che dire. Il vescovo gli aveva lasciato quella grana sul tavolo, avvisandolo di trovare una soluzione. Si preannunciava per lui una gran brutta giornata: per il tempo e per le circostanze. All’idea di dover telefonare e parlare con quattro o cinque sacerdoti papabili per quell’incarico ebbe un moto di disgusto e di repulsione. Sapeva ben lui come sarebbe andata la faccenda. Che non avrebbe trovato nessuno disponibile: chi se la sarebbe sentita di andare parroco nella nuova parrocchia dell’Annunciazione? La magagna vera e propria, infatti, non risiedeva nella parrocchia in sé, ma nel fatto che esisteva solo sulla carta. E il passaggio per far sì che dalla carta si passasse alla realtà aveva un nome ben preciso: la nuova chiesa da costruire e da pagare. Un enorme edificio tutto in cemento armato, una specie di enorme conchiglia rovesciata, disegnata dall’architetto Baldacci con annesse opere parrocchiali e canonica per il prete.

    Alzando lo sguardo incontrò, sullo scaffale a vetri, i diversi bozzetti virtuali disegnati dall’architetto. Su una bella chiesa, circondata da prati verdi su cui giocavano i bambini, svettava un moderno campanile. L’edificio poggiava in declivio, come su un piccole colle, adagiato all’incrocio di quattro strade. Sul disegno si vedevano coppie giovani, che passeggiando additavano ai loro bimbi la chiesa. Come a dire: vedi là che bellezza? Distolse lo sguardo disilluso da quella idilliaca rappresentazione, pensando a quell’altra bellezza, stavolta reale che aveva fatto gettare la spugna a don Giorgio. Anzi gettare la spugna era un’espressione colorita, visto che s’era preso un solenne esaurimento nervoso. Ora era ricoverato a Careggi mangiato da una profonda depressione. La ragione? Presto detta: mezzo miliardo di debiti. A tanto infatti ammontava il costo dell’opera a cui quella porzione del popolo di Dio doveva, con le proprie offerte, provvedere. Ma in due anni don Giorgio non aveva tirato su che venti milioni di lire, per cui - avvilito e scoraggiato dal peso del debito - era caduto in depressione. E lui ora guardava e riguardava la lettera delle sue dimissioni irrevocabili. Una gran brutta faccenda. Una gatta da pelare.

    Guardò fuori dalla grande finestra a vetri: spruzzi d’acqua si attaccavano alle vetrate e cominciava a tirar vento. Il cielo, coperto e plumbeo, non prometteva niente di buono, e l’acciottolato di piazza del Duomo cominciava - per la pioggia - a luccicare. Sul muro sbirciò il calendario: mercoledì, 18 Ottobre S. Ignazio d’Antiochia, vescovo e martire. «S. Ignazio, pregò mentalmente, pensaci tu».. Così cominciò a scorrere dall’elenco dell’annuario diocesano i nomi di tutti i preti. Man mano che qualcuno gli sembrava adatto alla bisogna ci faceva un cerchietto con il lapis. Dopo essere partito da don Abati ed essere arrivato a don Zini, alla fine contò i cerchietti: quattro. Nella migliore delle ipotesi. A meno che… ma scosso' il capo per non pensarci più. A meno che si potesse nominare un prete terzomondiale: pakistano, indiano, africano, filippino, polacco, rumeno, albanese… Ma S.E. il cardinale era stato chiaro: come primo parroco ci voleva uno del posto, uno che conoscesse gli usi e costumi della gente di Firenze, un fiorentino insomma. Dopo, ma solo dopo a chiesa fatta e pagata, si sarebbe potuto… ma solo dopo. E monsignore riconosceva la fondatezza di tale decisione.

    Prima di cominciare il giro di telefonate volle sgranchirsi le gambe e si alzò dal tavolo. Sapeva benissimo trattarsi d’una scusa: una specie di escamotage psicologico per rimandare le telefonate. Davanti al suo ufficio, al di là della piazza, guardò quell’orribile scritta sul cornicione del palazzo dirimpetto: «Per vivere sani bevete china Campigiani».. Su altri palazzi del quadrilatero svettavano altre scritte. Le conosceva tutte, e ora era contento che gli rimanessero fuori di vista. Si domandò quale progresso cristiano avesse fatto questa società, passando dalla cupola del Brunelleschi e dal campanile di Giotto del 1200, per approdare otto secoli dopo al ritratto d’una umanità traboccante di becero ottimismo con quei grandi tabelloni pubblicitari. «Se vuoi il fegato sano bevi acqua di Rinciano».. Scosse il capo, si rimise a sedere e chiuse gli occhi - meditando per qualche secondo; poi alzò la cornetta del telefono.

    «Carissimo, don Marco buon giorno. La pace del Signore sia con te.». 

    «E con il tuo spirito». rispose don Marco, con la voce sempre impastata dal sonno.

    «Gradirei parlare con te, se oggi hai un minuto.». 

    «Per cosa?» 

    «È una faccenda importante, ma mi piacerebbe parlarne di persona. Tu capisci…». 

    «Sì capisco perfettamente, ma gradirei anch’io sapere per cosa. Dato che devo partire dall’Istituto Teologico Fiorentino, più vicino a Fiesole che a Firenze.». 

    «Il fatto è, vedi don Marco, che la costituenda chiesa dell’Annunciazione è rimasta - per così dire - scoperta.». 

    «Perché?» 

    «Perché don Giorgio, poverino, ha preso l’esaurimento nervoso.». 

    «Monsignore, con tutto il rispetto, credo che sarebbe venuto anche a lei. Col peso di mezzo miliardo di lire da pagare e con una comunità di poco più di mille persone, provenienti da luoghi diversi, che manco si conoscono…». 

    «Allora?» 

    «Monsignore lei sa benissimo quanto mi impegna la scuola di teologia. Scusi come faccio a fare il parroco e continuare ad insegnare Cristologia? Non mi posso mica dividere!». Il vicario rimase un attimo bloccato con la cornetta all’orecchio, poi disse mesto: «Don Marco per ora lasciamo fare, altrimenti ti ritelefono.». Riattaccò, sapendo benissimo che non gli avrebbe più telefonato.

    Nell’angolo a sinistra vide la pianta di limone, che gli avevano regalato anni prima, completamente spoglia e denudata. L’arbusto e i ramoscelli rinsecchiti erano la fotografia precisa del suo animo: spoglio e triste.

    Certo avrebbe telefonato anche agli altri tre. Ma sapeva già la risposta: ognuno bene o male aveva un ministero da svolgere, e se anche non erano impegnati a tempo pieno, vattela a pesca chi si sobbarcava quel debito sul groppone.

    * * *

    Don Giacomo, detto donGia, allungò il passo, e scendendo dal marciapiede oltrepassò via S. Francesco per entrare nel grande portone della biblioteca Roncioniana. Quella mattina era rimasto d’accordo con don Franzoni, stante i pochi documenti da vagliare in Curia, che sarebbe arrivato più tardi per andare alla Roncioniana: la sua passione. Si deve sapere, infatti, che egli era un amante, un estimatore del libro. Ma non di tutti i libri, bensì di quelli antichi, di codici miniati: dei volumi di patrologia greca e latina, sui cui avidamente i suoi occhi bevevano le massime che irroravano il suo animo dell’acqua viva: l’acqua dello Spirito. Nella sala vera e propria, elegante, in stile barocco, piena di capitelli, fregi e orpelli si mise a rimirare le costole dei grossi volumi lì esposti. Erano migliaia e donGia pensò alla sapienza millenaria della madre chiesa che li aveva catalogati e suddivisi, perché i suoi pastori fossero culturalmente più preparati; così da conseguire più facilmente il fine sublime per cui la sposa di Cristo esisteva: la salus animarum. Siccome era S. Ignazio d’Antiochia chiese al bibliotecario dove si trovassero i suoi scritti, e segnatamente i suoi discorsi ai cristiani di Smirne e di Magnolia. L’esempio di questo martire costretto a viaggiare dalla Turchia fino a Roma per essere preda della fiere l’aveva sempre commosso. Che uno - invece di lamentarsi della fine che il Signore gli aveva fatto fare - si galvanizzasse durante le varie tappe dei viaggi, incontrando le diverse comunità cristiane; arrivando fino al punto da implorare i fedeli a volergli bene, pregandoli non perché fosse liberato, ma perché diventasse pasto dei leoni del circo - o come diceva lui pane per il cielo - lo riempiva di commozione. "Supplicate Cristo per me, perché per opera di quelle belve io diventi ostia per il Signore. È vicino il momento della mia nascita. Abbiate compassione di me fratelli. Non impeditemi di morire, non vogliate che io viva. Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò veramente un uomo. Se subirò il martirio ciò significherà che mi avete voluto bene. Se sarò messo in libertà, sarà segno che mi avete odiato. Meditando sull’altezza sovrumana di tale causa, di fronte alla quale le altre cause umane, pur chiamate nobili" sbiadendo impallidivano, non si rese conto del tempo che passava. Lo stridore dei freni d’un autobus, e il suono concitato d’un clacson lo riportarono alla realtà, o meglio a quella che così chiamano gli uomini. Dalla finestra vide la circolare scivolare sull’asfalto, gettando un pennacchio di fumo di scuro gasolio. Il tubo di scappamento finiva sul tetto dell’autobus, per cui il vento - sferzante - in un attimo spazzò la nuvoletta. Accennando ad un sorriso ironico pensò che i Verdi, adesso, sarebbero stati contenti. Avevano ingaggiato una battaglia, per diminuire l’inquinamento, facendo spostare i tubi di scappamento degli autobus da sotto al tetto. Chissà che cambiamento, pensò. Con passo svelto si stava dirigendo in Curia. Intorno a lui mulinava incessantemente un turbinio di foglie secche, giornali lasciati per terra e pezzi di cartone. Sentiva il vento che prendeva forza, mugghiare, violento: «Questo è l’assaggio, il primo brontolio del tramontano invernale».. Ma ben altri pensieri avvertiva dentro di sé. I cinque versetti del primo inno cristologico si agitavano, da tempo, nella sua mente e lui si sforzava di penetrarne e sondarne tutto il significato, tutto il succo.

    Abbiate in voi gli stessi sentimenti, che furono in Cristo Gesù.

    Il quale pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso…

    … Ma spogliò se stesso. Gesù di fronte alla gioia che gli veniva posta innanzi, preferì l’annientamento della croce. Egli disprezzò l’ignominia… Disprezzare l’ignominia, pensava donGia; fare conto che tutto il male che ti si riversa addosso sia meno di queste folate di vento, che torvo e minaccioso tenta di farti cadere. «Spogliò, annientò». questo è il nocciolo, il verbo principale. Questo è una fregatura per l’orgoglio umano, per la personcina cosiddetta perbene. Da che mondo è mondo, fin dai tempi più remoti, tutti hanno sempre sudato sette camicie per conquistare e comandare sugli altri. Come? Con la forza, il potere e i quattrini. Gesù invece gli chiedeva di lottare con un metodo completamente opposto. Con la mortificazione, per bere fino all’ultima goccia il calice del dolore; col darsi completamente, rinunciando totalmente a sé. Facendo divenire il sacrificio olocausto… Non sarebbe diventato forse una specie di masochista? Non era forse questo il senso, nascosto in filigrana, di qualche discorso di suo padre, quando rigirando il cucchiaio nella minestra borbottava: «ma chi te lo fa fare?» Certo lo diceva per un malinteso senso d’amore. Perché voleva vederlo ricco e realizzato in altro modo.

    Con il viso sbiancato dal freddo, a grandi passi stava avvicinandosi alla Curia. Ritto sul cornicione d’un enorme palazzo d’angolo un grande cartellone pubblicitario barcollava: i tiranti stridevano. DonGia fissò il bambino paffutello e la mamma ridens. «Il biscotto Militello rende il bimbo paffutello.». Fece un’alzata di spalle e si diresse verso il portone del palazzo diocesano. Dentro l’androne, nella penombra, prima d’arrivare al salone da dove iniziava l’ampia scalinata, qualcuno se ne stava accucciato per terra.

    Salvatore, ironia della sorte portava lo stesso nome del Cristo, però era salvatore di nome e non di fatto. Stante che non aveva salvato neppure se stesso. Poté vedere di sghembo due bottiglie di birra, per terra, vicine al poveraccio. Si mise ad osservarlo attentamente: era ormai un uomo distrutto, senza alcuna rispettabilità, di età indefinita - tra la maturità e la vecchiaia -, scarpe slacciate, abiti sporchi, barba incolta. Un rudere alla deriva nel mare della vita. Notò che aveva un’aria dimessa, quasi colpevole. Sapeva che a quell’ora nel portone non poteva starci. Ci passava la notte al riparo dalle intemperie, ma al mattino doveva smammare. DonGia gli scrutò meglio la faccia: emaciata, pallida, sgraziata, con delle borse scure sotto gli occhi. Non è che ne avesse paura: lo conosceva benissimo e Salvatore gli voleva bene. Solo si trovava davanti al solito dilemma: amore o giustizia?

    Amarlo dandogli qualcosa per tirare avanti, sapendo che al novanta per cento sarebbe andato a finire in birra, o scrollarlo fortemente per la giubba intimandogli di trovarsi un lavoro? Salvatore lo vide, gli sorrise e gli porse la mano aperta, stile mendicante. Lui si frugò in tasca, e senza proferire parola gli dette mille lire. Adesso il suo animo era abbattuto, un po’ sul depresso, in quanto gli pareva - mentre a due a due saliva i gradini della grande scalinata - che questo benedetto cristianesimo più di tanto non incidesse sul mondo. Arrivò al primo piano, dove si trovavano i grandi saloni di rappresentanza, salì al secondo dove stavano gli appartamenti del vescovo , del vicario e gli uffici amministrativi della Curia. Un po’ affannato, finalmente, giunse al

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