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Da zero a 3.000 euro al mese: Strategie pratiche per costruire lo stipendio dei tuoi sogni
Da zero a 3.000 euro al mese: Strategie pratiche per costruire lo stipendio dei tuoi sogni
Da zero a 3.000 euro al mese: Strategie pratiche per costruire lo stipendio dei tuoi sogni
E-book241 pagine3 ore

Da zero a 3.000 euro al mese: Strategie pratiche per costruire lo stipendio dei tuoi sogni

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Info su questo ebook

Questo libro è l’inizio di un viaggio che cambierà la tua carriera. Troverai in ogni capitolo applicazioni reali di strategie semplici, efficaci e replicabili da subito, che hanno permesso all’autore e al suo network di costruire stipendi superiori alla media prima dei 30 anni. Per scriverlo, Valerio Principessa ha chiesto aiuto ad un gruppo selezionato di ragazzi e ragazze con esperienza in alcune delle aziende più importanti del mondo: McKinsey & Company, Boston Consulting Group, Amazon, Linkedin, Banca d’Italia, International Game Technology, Procter & Gamble, Mercedes-Benz, Rai, Enel, Allianz Partners, ma anche università tedesche o francesi, che hanno strappato talenti all’Italia a suon di euro e prospettive di ricerca stimolanti.
Attraverso l’analisi dei principi guida che accomunano personaggi di fama mondiale e casi di successo della porta accanto, il libro ha l’obiettivo di superare la concezione che uno stipendio da sogno sia raggiungibile soltanto dedicando la vita al lavoro.
Da zero a tremila euro al mese propone bensì un approccio paragonabile ad una partita di scacchi, dove a vincere non è chi sposta le pedine sulla scacchiera solo per il gusto di farlo, ma chi muove i pezzi in maniera intelligente, seguendo sempre una strategia di lungo termine.
LinguaItaliano
Data di uscita12 set 2020
ISBN9788835893721
Da zero a 3.000 euro al mese: Strategie pratiche per costruire lo stipendio dei tuoi sogni

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    Anteprima del libro

    Da zero a 3.000 euro al mese - Valerio Principessa

    Valerio Principessa

    Da zero a 3.000 euro al mese

    UUID: e5053a86-da82-4763-8e28-ff793c797daf

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    Introduzione

    Al mio eroe

    Corri Forrest! Corri!

    Velle est posse: volere è potere

    Sognare non basta

    È tutta colpa mia

    Pensare come Pareto

    Il side project

    Dalla teoria alla pratica

    In breve

    Gravitas

    Gravitas in azione

    Quanto vale l’executive presence?

    Gli accessori della Gravitas

    In breve

    Un nuovo orizzonte

    Benefici concreti

    Prima di andare via

    Il networking

    Tra il voler partire e l’andare

    In breve

    Il piano del Dieci

    Questione di monopolio

    La tua statistica fa schifo

    Il piano del Dieci

    It's a Long Way to the Top

    In breve

    I consigli del 5%

    Una promozione a basso rischio

    Nessuno vuole essere Robin

    Non l’ho mai sentito nominare

    Uscire allo scoperto

    In breve

    Scientia potentia est

    È sempre venerdì

    Recte faciendo, neminem timeas

    Nella mia ora di libertà

    Perfetta imperfezione

    In breve

    Respira

    Spegni il rumore di fondo

    Strada facendo vedrai

    Dolce dormire

    All work and no play makes Jack a dull boy

    In breve

    Ancora una cosa…

    Le avventure di Telemaco

    Bibliografia

    Ubuntu: sentirsi parte di una grande comunità, essere ciò che si è in relazione a ciò che gli altri sono. Non solo un’espressione in lingua bantu, ma una regola di vita, un’ideologia che rappresenta i valori dell’Africa sub-Sahariana. Una volta fu chiesto a Nelson Mandela di dare un significato a questo termine, e lui rispose così: «Ubuntu non vuol dire che le persone non debbano dedicarsi a sé stesse. La domanda da porsi è un’altra: sei disposto a donare qualcosa per aiutare la gente che ti sta intorno, affinché loro siano in grado di migliorare la comunità?»

    Questo libro è il frutto di un dono, del lavoro e della disponibilità di molte persone, che mi piace definire high achievers. Ognuno, a modo suo, ha raggiunto risultati superiori alla media.

    A Davide Crescenzi, per i piccoli obiettivi e l’importanza del rispetto.

    A Emiliano Svezia, per il focus sui risultati come antidoto alla paura.

    A Giorgia Guma, perché si può tornare a casa solo dopo averci provato.

    A Ludovica Castiglia, per il coraggio di esprimere sempre la propria idea.

    A Marco Pietrangeli, per i nuovi ingredienti della carbonara a Parigi.

    A Sara Puteo, perché la soluzione migliore spesso non è quella ottima.

    A Saverio Rutigliano, per l’enorme valore del saper osservare.

    A Tommaso Colombo, per l’arte di creare consenso senza imposizione.

    A Valeria Gallina, perché la vita può essere meglio di qualsiasi film.

    Grazie. A voi e a chi ha scelto di rimanere anonimo.

    Senza il vostro contributo prezioso non avrei mai scritto.

    Ubuntu.

    Introduzione

    Che rapporto hai con il silenzio?

    Non è una domanda banale. È un po’ come chiedere che rapporto hai con te stesso, qual è l’ultima cosa a cui pensi la sera quando a letto sei solo e non riesci a dormire.

    Dicono che il modo migliore per far sì che qualcuno dica la verità sia fargli una domanda, aspettare che risponda e poi tacere, per costringerlo a riempire il vuoto di parole. È una tecnica usata anche durante gli interrogatori di polizia. Funziona, persino se l’interrogante e l’interrogato sono la stessa persona.

    Anno 2014. Timothy Wilson è un ricercatore, lavora nel Dipartimento di Psicologia dell’Università della Virginia e con alcuni suoi colleghi sta conducendo un esperimento. Raduna diversi studenti del college, prende in consegna cellulari, penne, qualsiasi strumento che possa distrarli e poi li fa accomodare in una stanza vuota. Le regole sono semplici, non possono parlare, devono rimanere seduti e svegli, come unico mezzo di intrattenimento hanno i loro pensieri.

    Rimangono lì dentro per 15 minuti.

    Nel compilare il questionario di valutazione dell’esperienza il 50% degli studenti assegna un giudizio negativo, sotto la sufficienza. Sarà colpa del laboratorio, pensa il dottor Wilson, non è certo il luogo più piacevole del mondo per fermarsi a pensare. Meglio cambiare un po’ le condizioni.

    Vengono reclutati nuovi studenti e questa volta i ricercatori chiedono di ripetere l’esperimento a casa. Silenzio ed assenza di distrazioni restano condizioni di base.

    Il 32% dei partecipanti dichiara di aver barato, alcuni hanno iniziato ad ascoltare musica, altri hanno preso il cellulare, il gradimento risulta addirittura più basso a casa che in laboratorio. Sarà forse una questione d’età?

    Wilson ci riprova con alcuni membri della piccola chiesa locale, ingaggia anche altri volontari in un mercato di prodotti agricoli. L’età varia dai 18 ai 77 anni, il risultato invece rimane lo stesso.

    Ma non basta. I ricercatori vogliono andare oltre, capire fino a che punto una persona sia disposta a spingersi pur di non restare da sola con la propria mente.

    Prima di cominciare i nuovi partecipanti vengono sottoposti ad una serie di stimoli, in parte positivi, come la vista di una bella fotografia, in parte negativi, come un elettroshock talmente sgradevole che molti si dichiarano disposti a pagare per non riceverlo ancora.

    Conclusa la fase preliminare, l’esperimento può cominciare. Una volta seduti nella stanza i membri del gruppo scoprono però di avere un’altra possibilità di intrattenimento oltre al pensiero. Possono premere un bottone e ricevere qualcosa che conoscono: un elettroshock.

    I risultati sono sorprendenti, persino chi s’era detto disposto a pagare pur di non provare nuovamente quello stimolo, si lascia tentare. Premono il bottone il 67% degli uomini ed il 25% delle donne. Meglio soffrire che fermarsi a pensare.

    Che rapporto hai con il silenzio? La prima volta che me l’hanno chiesto ho abbassato la testa e non ho risposto.

    Al mio eroe

    Fuori dalla finestra non c’è altro che buio, nero a perdita d’occhio, e una piccola luce accesa. È lo schermo di un televisore portatile, nel capanno del custode addormentato.

    Il parcheggio sarebbe deserto se non fosse per due macchine, una vicina all’altra, ferme lì da ore. Diciotto per la precisione. Sono le 03:00 del mattino, non ho cenato, e la mia giornata lavorativa è appena finita.

    Il più alto in grado del team ha inviato la presentazione che il capo discuterà domani. Mentre gli altri raccolgono i computer e sistemano le loro cose, ne approfitto per andare in bagno.

    Ho bisogno di stare da solo, sono sull’orlo di una crisi di nervi. Da cinque mesi lavoro 6 giorni su 7, dalle 09:00 alle 22:00. La pausa pranzo è un pasto veloce in cui si parla poco e lo sport che praticavo regolarmente è un lontano ricordo. Facendo un rapido calcolo, 12 ore al giorno per 6 giorni fanno un totale di 72 ore lavorate a settimana, 288 al mese, per uno stipendio lordo di 800 euro. Il ragazzo brillante, quello laureato in Ingegneria in 4 anni e 10 mesi, con tanto di Percorso di Eccellenza, guadagna meno di 2,80 euro l’ora.

    Lascio che l’acqua fredda mi scorra tra le mani, poi ne butto un po’ sulla faccia nella speranza che mi svegli. Una delle macchine abbandonate nel parcheggio è la mia, sono a 30 chilometri da casa e vorrei evitare di addormentarmi al volante.

    Quando torno in stanza i miei colleghi sono pronti ad andare via. Infilo il pc nello zaino e scendiamo le scale, i nostri passi sono l’unico rumore nell’edificio.

    Ci salutiamo con un cenno della mano, appuntamento domani, ore 09:00. Se mi va bene dormirò tre ore. Spero proprio che a casa ci sia qualcosa da mangiare.

    A che gioco sto giocando?

    L’autostrada è deserta, ho in testa mille frammenti d’immagini, giorni felici di un passato recente: l’ultimo esame, la cerimonia di laurea, il mio nome pronunciato dal Rettore dell’Università. Eravamo in 10 quel giorno di luglio a discutere la tesi, dei 250 ragazzi che cinque anni prima avevano superato il test d’ingresso, solo noi ce l’avevamo fatta alla prima sessione.

    Mi sentivo pronto a sfidare il mondo, quella corona d’alloro era solo un punto di partenza, e crederci in fin dei conti era facile. Non m’apparteneva niente, la vita era un enorme foglio bianco dove scrivere il futuro che sognavo da bambino.

    Perché nessuno ha ancora imbottigliato il profumo del possibile? È una fragranza che svanisce troppo presto.

    Il mio sogno, dopo 5 mesi, era distrutto. C’era solo la coscienza a farmi compagnia, la costante sensazione di essere nel giusto, perché agli occhi degli altri sei un grande solo se ti sacrifichi, se soffri, se non hai tempo per questo o per quello.

    Non conta il come, ma il quanto.

    E quando tutti pensano tu sia sulla strada giusta, finisci per convincerti. Arrivi a pensare che forse hanno ragione e bisogna solo tenere duro, che le cose andranno bene, questione di tempo e tutto si sistemerà. Invece gli anni passano e non si sistema niente, perché è l’azione che cambia le cose, non l’attesa, quella contribuisce solo a lasciare tutto com’è. Finché un giorno ti svegli e ti accorgi di odiare la tua vita.

    È come se la matassa di filo da cui ti eri lasciato avvolgere decidesse all’improvviso di districarsi, lasciandoti in mano il bandolo che credevi di aver perso, e che invece era sempre stato lì. Quella sera, la mia matassa, aveva cominciato a sciogliersi.

    Avrei dato tutto pur di vedere il mondo in frantumi dallo specchietto, la realtà trasformata in cenere da cui ricostruirmi. Ma per diventare cosa? Difficile dirlo così, su due piedi.

    Lasciai la macchina nel solito garage all’aperto, e mentre l’aria di marzo mi sfiorava il viso mi resi conto di non avere più fame né sonno. La porta era chiusa con una sola mandata, girai la chiave in punta di piedi. Da fuori entrava assordante il silenzio della notte.

    Buttai alla rinfusa i vestiti sulla sedia, mi lasciai cadere sul letto e accesi la televisione. Trasmettevano una replica della notte degli Oscar del 2014, Matthew McConaughey aveva appena vinto la statuetta come miglior attore protagonista per Dallas Buyers Club. Guardai quel ragazzo del Texas in abito bianco baciare sua moglie, abbracciare il grande sconfitto, Leonardo DiCaprio, e poi raggiungere sul palco Jennifer Lawrence per ricevere il premio. Il suo discorso di ringraziamento, che qualcuno definì insolito, disorientante, ipnotico, segnò un punto di svolta nella mia vita.

    McConaughey disse che c’erano tre cose di cui aveva bisogno ogni giorno: qualcuno da ammirare, qualcuno che gli desse l’entusiasmo per uscire di casa e qualcuno da inseguire.

    Iniziò ringraziando Dio, perché era evidente che le opportunità che aveva avuto fino a quel momento non potevano essere frutto di nessun’azione umana. Poi fu il turno del padre, che immaginò fosse lì in Paradiso a guardarlo, con il suo piatto di gumbo e una meringa al limone. Lo vedeva ballare, felice e in mutande, tenendo in mano una birra. Ringraziò sua madre, che aveva insegnato a lui e ai suoi fratelli il rispetto per sé stessi; nominò sua moglie e i suoi tre figli, le quattro persone che voleva fossero davvero orgogliose di lui ogni giorno. Quando arrivò il momento di ringraziare qualcuno da inseguire, Matthew McConaughey disse: «To my hero». Al mio eroe.

    Spiegò che quando aveva 15 anni una persona per lui molto importante gli chiese: «Chi è il tuo eroe?» Rispose che doveva pensarci, tornò due settimane dopo e disse: «Ho riflettuto. Il mio eroe sono io tra 10 anni». Così, quando compì 25 anni, questa persona venne a chiedergli di nuovo se fosse diventato un eroe. Matthew disse che non c’era andato neanche vicino, lei chiese perché e lui rispose: «Il mio eroe sono io a 35 anni».

    Era evidente che ogni giorno, ogni settimana, ogni anno, il suo eroe era sempre lontano dieci anni. Non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo, ma non era un problema, perché in quel modo avrebbe mantenuto alte le sue aspettative, avrebbe sempre avuto qualcuno da inseguire. Era questo l’atteggiamento che consigliava ai suoi colleghi in platea, e prima di chiudere gli occhi feci in tempo ad ascoltare le parole di chiusura: «To that I say alright, alright, alright. And just keep living, huh?»

    Va bene, va bene, va bene. Bisogna solo continuare a vivere.

    Corri Forrest! Corri!

    Se fosse un film, il mattino dopo il protagonista si alzerebbe di buon’ora. Lo vedremmo intento a fissare lo specchio con aria decisa, mentre sistema il nodo alla cravatta, per poi decidere, all’improvviso, di strapparsela via.

    Le telecamere lo seguirebbero lungo il tragitto fino a lavoro, dove lascerebbe la macchina al parcheggio, la giacca sul sedile, e si avvierebbe, risoluto, verso il punto di non ritorno.

    Quattro persone sedute attorno a un tavolo, una porta spalancata con un colpo secco e il nostro eroe a fare il suo ingresso trionfale nella stanza: «Signori, io mi dimetto».

    Stacco. Un'auto che si allontana, un braccio fuori dal finestrino. In sottofondo I want to break free dei Queen.

    Vorrei poter raccontare che la mia vita cambiò nello spazio di una notte, ma non fu così. Come previsto dormii 3 ore, mi alzai più stanco della sera prima e alle 09:00, puntuale, ripresi a lavorare. Quel giorno non andò molto meglio, rientrai a casa alle 22:00, ma ricordo ancora la sensazione di leggerezza che provavo ripetendo dentro di me alright, alright, alright…just keep living.

    D’un tratto avevo capito quanto fosse stupida l’idea della strada giusta che era lì fuori ad aspettarmi, quanto fosse pericoloso il senso di urgenza che mi avevano trasmesso. «Parti il prima possibile». «Non fare tardi».

    Io c’avevo creduto, ero scattato veloce verso chissà quale posto, pronto a vincere la mia personale gara con la vita. Più acceleravo il passo, più mi sentivo perso. Con le scarpe consumate e il fiato corto, giurai a me stesso che non avrei più gareggiato.

    In una delle scene più famose del film, Forrest Gump è seduto in veranda e guarda fisso il vuoto. Ad un tratto infila un berretto rosso, si alza e dopo qualche secondo inizia a correre, lungo il viale davanti casa. Non ha un motivo preciso per farlo, sente solo una voglia inspiegabile di andare. Arriva alla fine della strada, poi raggiunge i margini della città, prosegue attraverso la contea di Greenbow e lo stato dell'Alabama, fino ad arrivare all’oceano. Visto che si è spinto così lontano, tanto vale continuare, pensa contemplando l’acqua. Quindi si gira e parte di nuovo, senza riuscire a spiegare a sé stesso le ragioni del gesto.

    Dopo due anni, anche i giornalisti cominciano ad interessarsi a quell’uomo che corre per le strade d’America. Lo affiancano chiedendo se lo fa per la pace nel mondo, o per i diritti delle donne, ma Forrest, che non ha una ragione particolare, dopo l’ennesima richiesta risponde meravigliato: «Avevo voglia di correre». La notizia fa il giro del Paese e la sua scelta sembra avere un senso per molte persone, che scelgono di seguirlo.

    Finché dopo 3 anni, 2 mesi, 14 giorni e 16 ore, mentre attraversa un tratto di strada della Utah 163, con la Monument Valley sullo sfondo, Forrest Gump si ferma. Tutti si aspettano che dica qualcosa, che riveli una sorta di profonda verità, invece dalla sua bocca esce solo: «Sono un po’ stanchino. Credo che tornerò a casa ora». Non c’era nessun senso, correva perché aveva voglia di farlo, e sempre senza un motivo preciso si era fermato.

    Lo stesso era successo a me, ma a differenza di Forrest Gump sapevo perché era arrivato il momento di dire basta.

    Dovevo farlo per il mio eroe, per il me stesso di dieci anni dopo. Anche se non immaginavo che faccia avrebbe avuto, o il ruolo che avrebbe ricoperto, ero convinto che andando avanti così non l’avrei raggiunto.

    Quando nel 1972, a soli 16 anni, Bill Gates fondò la Traf-O-Data insieme a Paul Allen, probabilmente aveva chiara l’attività a cui avrebbe dedicato la vita. L’idea di portare un computer su ogni scrivania cominciava a dominare la sua mente.

    Quella società, tre anni più tardi, sarebbe diventata Microsoft.

    Guida galattica per gli autostoppisti, il capolavoro scritto da Douglas Adams, venne pubblicato nel 1979. Elon Musk aveva 7 anni e di lì a poco l’avrebbe letto, regalandosi il sogno di esplorare lo spazio. Fonderà, nel 2002, Space Exploration Technologies (SpaceX), con il fine ultimo di rendere possibile la vita umana su altri pianeti. Il 6 febbraio 2018, in occasione del lancio inaugurale del razzo Falcon Heavy, Musk ha spedito nello spazio una fuoriserie da 200mila dollari realizzata da un’altra delle sue aziende. Si tratta di una Tesla Roadster rosso ciliegia, guidata da Starman, un manichino che indossa la tuta spaziale di SpaceX. Sul piccolo schermo di bordo si legge a chiare lettere DON’T PANIC!, una citazione della Guida galattica letta 40 anni prima.

    Non a tutti è concesso di avere le idee chiare sin da subito, o almeno io non ero tra i fortunati.

    Non potendo contare su una direzione certa da seguire, scelsi di ragionare al contrario, come aveva fatto negli anni ‘80 una giovane attivista delle Pantere Nere, la famosa organizzazione rivoluzionaria

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