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Il futuro elettrico: Come sopravvivere alla rivoluzione della mobilità Green
Il futuro elettrico: Come sopravvivere alla rivoluzione della mobilità Green
Il futuro elettrico: Come sopravvivere alla rivoluzione della mobilità Green
E-book221 pagine4 ore

Il futuro elettrico: Come sopravvivere alla rivoluzione della mobilità Green

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Questo libro nasce dal desiderio di fare chiarezza in un campo - quello della mobilità elettrica - che per molti aspetti rimane un pianeta sconosciuto: dobbiamo imparare ad abitarlo e dobbiamo farlo in fretta, se non vogliamo essere relegati al ruolo di spettatori passivi in un domani che si fa sempre più vicino. L’autore analizza gli ostacoli e le resistenze che si oppongono alla nascita di questo nuovo mondo, ma anche le innumerevoli opportunità che esso offre, indicando azioni concrete ed efficaci da mettere in pratica per raggiungere una diffusione su larga scala dei veicoli elettrici nel nostro Paese. Il libro, infine, delinea alcuni scenari “futuribili” (ma non troppo), immaginando modalità e mezzi di spostamento alternativi, basati sull’uso combinato di nuove fonti di energia e su nuovi sistemi per produrla, accumularla e distribuirla.
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2022
ISBN9791254830505
Il futuro elettrico: Come sopravvivere alla rivoluzione della mobilità Green

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    Anteprima del libro

    Il futuro elettrico - Samuele Mazzini

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    L’Europa di fronte alla transizione green: passi avanti e occasioni mancate

    1.1 Ho visto il futuro e sarà elettrico - 1.2 Impossibile è ciò che non riusciamo a immaginare

    1.1 Ho visto il futuro e sarà elettrico

    Quando ho sviluppato il primo veicolo elettrico per una multinazionale americana, nel 2001, ero convinto che il mondo fosse alle soglie di una rivoluzione senza precedenti. Per la prima volta dopo secoli, l’umanità avrebbe abbandonato i combustibili fossili per affrontare una trasformazione radicale in favore delle energie sostenibili. Ai miei occhi, la transizione energetica era ormai una certezza, così come i cambiamenti epocali e irreversibili che avrebbe provocato nel nostro stile di vita.

    Su questo non sbagliavo, ma sbagliavo – e di grosso – a ritenere che sarebbero bastati prodotti innovativi, un time to market1 più che favorevole e un bacino di utenza potenzialmente infinito per fare breccia in modo profondo e sostanziale nel settore automotive, favorendo la transizione verso una mobilità più sostenibile.

    Per anni, nel nostro Paese, sono stato considerato un marziano e, quando esponevo le mie teorie sul futuro della mobilità elettrica, di solito finivo per suscitare l’ilarità dei miei interlocutori. Non avevo fatto i conti con fattori esterni talmente potenti da stravolgere le normali logiche di business, né col fatto che avere fondato la mia azienda in Italia sarebbe stato un limite per il suo sviluppo. Mai avrei immaginato che quello dell’automotive fosse un comparto così influenzato da lobby e sovrastrutture, da rivelarsi del tutto refrattario a qualsiasi cambiamento.

    Nonostante questa dura realtà, non ho mai smesso di credere che il futuro della mobilità sarebbe stato completamente elettrico.

    Nel 1999 ho fondato con mia moglie Elisabetta il gruppo SMRE Engineering SpA, dal quale in seguito è nata la IET SpA (Integrated Electric Transmission), una delle prime aziende italiane interamente dedicate alla progettazione e alla produzione di batterie, motori e componenti per veicoli elettrici2. E tutto questo quando i veicoli elettrici, per come li intendiamo oggi, ancora non esistevano. Con più di un decennio di anticipo rispetto al mercato, abbiamo avviato un’attività di ricerca e sviluppo che ci ha portato a investire oltre 30 milioni di euro, con l’obiettivo di sviluppare una gamma di prodotti completa per veicoli elettrici. Abbiamo depositato numerosi brevetti nazionali e internazionali, acquisendo un’esperienza e un know-how fuori dal comune.

    Quella fucina di idee ha dato vita negli anni a prototipi e prodotti per l’epoca avveniristici: centinaia di tecnici e ingegneri italiani e stranieri hanno deciso di trasferirsi in Umbria per farsi le ossa nei laboratori della mia azienda e accumulare esperienza con tecnologie che sarebbero state cruciali per il futuro della mobilità. Mi riempie di orgoglio sapere che molti dei miei più stretti ex collaboratori oggi ricoprono posizioni apicali in grandi gruppi industriali intenti a gestire la transizione energetica in atto, così come vedere che molti dei veicoli elettrici e ibridi attualmente immessi sul mercato adottano soluzioni tecniche del tutto simili a quelle che noi avevamo ideato in tempi non sospetti.

    Nel 2018, in un’intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica nella quale venivo pomposamente definito l’Elon Musk italiano, esprimevo la convinzione di essere nato sul lato sbagliato dell’Oceano, almeno dal punto di vista professionale. Mentre io ipotecavo la casa per recuperare i finanziamenti necessari allo sviluppo dei miei prodotti, dall’altra parte del globo nascevano startup tecnologicamente meno avanzate, ma in grado di raccogliere centinaia di milioni di dollari sui mercati finanziari americani (storicamente più propensi a scommettere sul cambiamento e sull’innovazione rispetto agli standard europei).

    Oggi le cose sono un po’ cambiate. Non passa giorno senza che gli esperti di mezzo mondo si radunino in prestigiosi convegni per discutere di transizione energetica, decarbonizzazione e rivoluzione green. Come la recente pandemia da Covid-19 ha fatto spuntare ovunque virologi, esperti e consulenti scientifici, in grado di dire tutto e il contrario di tutto nel tentativo di interpretare un fenomeno inedito come una pandemia, così la transizione energetica sta portando alla ribalta personaggi improbabili, che si dimostrano incapaci di comprendere la portata di un fenomeno che altrove è già realtà.

    Eppure, in questo momento, parlare di transizione energetica e green deal è come tirare un rigore a porta vuota: tutti vorrebbero trovarsi nel posto giusto al momento giusto per avere la possibilità di fare goal senza fatica.

    In realtà, si sta facendo troppo poco e lo dimostrano segnali evidenti e più che allarmanti: uno su tutti il cambiamento climatico, che sfocia in catastrofi naturali sempre più frequenti e devastanti. Per molti studiosi siamo giunti al punto di non ritorno, le cose non miglioreranno, anzi sono destinate a peggiorare.

    Di fronte a questo scenario che si preannuncia apocalittico, nazioni e continenti – seppure in modo maldestro e scollegato, a macchia di leopardo – stanno attuando piani di diversa portata nel tentativo di arginare il problema. La politica troppo spesso non possiede le competenze tecniche necessarie per fare valutazioni di merito, schiacciata com’è tra i potenti attori del vecchio mondo – che cercano di sopravvivere utilizzando tutta la loro influenza per rallentare processi ormai irreversibili – e l’impellente esigenza di cambiamento, che spinge verso una gestione più consapevole delle risorse del pianeta.

    Malgrado queste inevitabili resistenze, ormai tutte le parti in gioco hanno capito che in qualche modo è necessario agire e il risultato è che la maggioranza degli investimenti pianificati a livello mondiale per i prossimi anni sono mirati alla transizione energetica e alla rivoluzione green.

    In particolare, l’ormai famoso Recovery Plan3 o Pnrr farà confluire fiumi di denaro nelle casse degli Stati membri dell’Unione, che in fretta e furia hanno dovuto fornire un’indicazione preventiva dei programmi e dei settori sui quali investire nei prossimi anni.

    Mi è capitato di leggere alcuni dei progetti contenuti nel piano italiano e mi sono cadute le braccia: ancora una volta la Storia ci sta offrendo la possibilità di salvarci, all’ultimo secondo dell’ultimo minuto dell’ultimo tempo supplementare, e noi stiamo per gettare al vento questa opportunità promuovendo progetti mediocri e miopi, che non considerano la reale dimensione del problema e servono solo a tappare i buchi creati da anni di strategie fallimentari. Non possiamo permetterci di sprecare le risorse in arrivo per tamponare situazioni di crisi strutturale in settori e aziende ormai agonizzanti. È arrivato il momento di avere coraggio e costruire qualcosa di nuovo dalle macerie che abbiamo accumulato.

    E invece molti dei progetti innovativi proposti dalle regioni nel Recovery Plan nascondono la solita strategia, mirata alla pura sopravvivenza. Distretti industriali esauriti, orfani di multinazionali che, dopo avere succhiato una montagna di fondi pubblici e prezioso know-how, si sono date alla fuga, adesso si aggrappano al salvagente dei fondi europei. Basta inventarsi un bel progetto e un titolo accattivante, trovare un imprenditore disposto a metterci la faccia per dare una parvenza di credibilità e il gioco è fatto. Per qualche tempo il problema è risolto, i giornali celebrano il proficuo accordo tra pubblico e privato e i sindacati esultano per avere salvato centinaia di famiglie stremate da tavoli di crisi, vertenze sindacali e manifestazioni fuori dai cancelli delle fabbriche. Peccato che quegli investimenti, non avendo concreti piani industriali di sviluppo alle spalle, non porteranno a nulla e si dovrà ripartire da zero. O, peggio, da sottozero.

    In Italia l’idea di fallire per poi voltare pagina e ripartire sulla base dell’esperienza, riconvertendo e innovando, è del tutto inconcepibile. Paradossalmente sono convinto che, se la California fosse un’enclave italiana, a Cupertino non ci sarebbe la Apple, ma una cooperativa di cercatori d’oro in perenne difficoltà, che sopravvive grazie agli incentivi statali e alla strenua lotta dei sindacati per ottenere la cassa integrazione e salvare il prezioso comparto.

    Ormai la nostra specialità è diventata quella di praticare una sorta di accanimento terapeutico industriale, mantenendo artificialmente in vita aziende e interi settori che non hanno più ragione di esistere. Seguendo un’incomprensibile coazione a ripetere, continuiamo a gettare centinaia di miliardi in pozzi senza fondo, che non restituiranno mai il capitale investito, né in termini economici, né sociali. Così come un incendio non distrugge solamente la vegetazione esistente, ma rende infruttuoso il suolo per anni, allo stesso modo questa strategia assistenzialista rallenta e inibisce la nascita di nuove imprese e lo sviluppo di nuove economie. Pensiamo ai dipendenti di tante aziende in crisi cronica, che da decenni alternano pochi mesi di attività lavorativa a lunghi periodi di cassa integrazione. Come possono restare al passo con i tempi, mantenersi aggiornati e motivati? Fino a che punto saranno disposti a mettersi in gioco per cambiare e reinventarsi?

    Invece di sprecare le energie e il talento di tanti giovani, che oggi vengono pagati per stare a casa, dovremmo pensare a come creare ricchezza e occupazione convertendo le nostre aziende in nuove produzioni sotto il segno dell’efficienza e della sostenibilità, come hanno fatto con successo in molte parti del mondo. Altrimenti, rischiamo di fare scomparire il Dna creativo di un intero popolo.

    La transizione energetica avrà un’evoluzione complessa, che non riguarda solo la mobilità elettrica o l’accumulo di energia da fonti rinnovabili. Essa impatterà in modo devastante su molte produzioni industriali, provocando milioni di disoccupati e la crisi di tante fabbriche che oggi producono per settori legati ai combustibili fossili.

    Questa pericolosa tendenza mi è stata chiara fin dalla prima volta in cui ho visto una linea produttiva automatica di motori elettrici per veicoli. Ero stato invitato da un’azienda di automazione emiliana, che aveva sviluppato una nuova linea per un costruttore cinese, al quale sarebbe stata spedita a breve. Durante il viaggio, mi sono scervellato pensando al luogo in cui avrei potuto costruire l’ennesimo capannone dove allocare una linea automatica come quella che stavo per vedere. Mi aspettavo di trovarmi di fronte a uno stabilimento enorme e, quando sono arrivato a destinazione, ho pensato a un classico errore del navigatore: cosa ci facevo in una stradina senza uscita nei pressi di una piccola zona industriale della pianura reggiana? Stavo per fare inversione quando, in fondo alla strada, ho intravisto un immobile commerciale grande appena qualche centinaio di metri. L’insegna collocata all’esterno non mentiva: ero nel posto giusto.

    Una volta entrato e dopo essermi ripreso dallo stupore, mi hanno mostrato la loro linea di produzione in fase di funzionamento: con l’ausilio di quattro operatori, questo impianto automatico era in grado di produrre centinaia di motori all’ora. Per fare un confronto, una fabbrica che produce duemila motori diesel al giorno impiega, tra produzione diretta e indotto, migliaia di persone e occupa capannoni grandi decine di migliaia di metri. Non serve un genio per capire che molti lavoratori perderanno il posto, se non sapremo gestire la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili in modo articolato ed efficace.

    Come ogni vera rivoluzione, anche quella green causerà morti e feriti. Eppure, allo stesso tempo, essa racchiude in sé opportunità enormi: se i primi vagoni di questo treno sono passati da tempo e se, come vedremo, a salirci sono stati altri, rimangono ancora molte occasioni per inserire un piede nella porta prima che si chiuda del tutto. Ma non dobbiamo sprecare un secondo di più, o sarà davvero troppo tardi e la situazione diventerà irrecuperabile.

    Quando parlo di futuro, di salvezza, di nuovi sviluppi, mi riferisco ai progressi tecnologici, che impatteranno sul mondo della produzione, della gestione dell’energia e della mobilità in Occidente e che avranno inevitabilmente un’influenza su molti settori industriali alla base dell’attuale sistema.

    Nel bene e nel male, porto i segni di ciò che ho vissuto sulla mia pelle negli ultimi ventidue anni: da una parte, ho avuto la fortuna di seguire dall’interno le dinamiche che hanno spinto Stati e superpotenze ad attuare politiche e strategie mirate a dominare il mondo dell’energia e della mobilità elettrica nei prossimi decenni; dall’altra, ho potuto comprendere i limiti di alcuni settori industriali, che non riusciranno a sopravvivere, se non metteranno in atto cambiamenti drastici e immediati.

    La transizione energetica non si affronta sprecando milioni di euro per invadere le nostre città con un fiume di monopattini elettrici di produzione cinese, destinati a generare tonnellate di rifiuti altamente inquinanti e difficili da smaltire. E neppure installando tre chilowatt di pannelli fotovoltaici sul tetto di casa per vendere l’energia all’authority nazionale. Questi sono solamente i primi vagiti di un mondo che ha intuito la direzione in cui procedere, ma che concretamente non ha ancora trovato la strada per farlo.

    Intanto il tempo passa e il futuro non aspetta.

    La prima fase del processo, relativa allo sviluppo delle tecnologie di base e dei componenti indispensabili per la transizione energetica, purtroppo si è già conclusa e l’Europa se l’è incredibilmente lasciata sfuggire. Non possiamo permetterci di perdere anche le prossime, che ancora sono in corso e che riguardano l’applicazione delle più recenti tecnologie e il conseguente sviluppo di nuovi prodotti.

    Per evitare passi falsi, che a questo punto sarebbero fatali, dobbiamo prima di tutto essere consapevoli dei limiti che impediscono una reale diffusione di massa dei veicoli elettrici in Occidente. Limiti strutturali, come vedremo, ma anche prospettici e culturali. Solo conoscendoli a fondo potremo forse superarli e trasformarli in nuove, esaltanti opportunità.

    1.2 Impossibile è ciò che non riusciamo a immaginare

    Nei primi anni Duemila ho iniziato a esporre le mie teorie sul futuro della mobilità elettrica a imprenditori, politici, giornalisti e professori universitari italiani ed europei.

    Le reazioni più frequenti erano queste:

    Ciò che dice non accadrà mai;

    È impossibile che le grandi case automobilistiche lo permettano;

    Nessuno abbandonerà il motore a scoppio per acquistare un veicolo a batterie;

    Le lobby del petrolio non lo consentiranno.

    Le ho ascoltate per decine, centinaia, migliaia di volte. Eppure restavo convinto che tutti i veicoli, a partire da quelli urbani, col tempo sarebbero diventati completamente elettrici. I sistemi di ricarica e la rete di distribuzione avrebbero dovuto diventare più efficienti e intelligenti, in grado di trasferire l’energia non solo dalla rete al veicolo, ma anche in direzione opposta, dal veicolo alla rete e, se necessario, travasarla da una vettura all’altra.

    Pensando ai milioni di utenti che utilizzano le vetture per pochi chilometri al giorno all’interno dei confini cittadini, era facile dedurre che prima o poi la mobilità tradizionale con motorizzazioni Ice4 sarebbe scomparsa.

    Le pubblicità di veicoli elettrici e gli articoli sui giornali e sulle riviste di settore potrebbero far pensare a una normale evoluzione di mercato, come accade in tanti altri comparti. Ma non è così. Negli ultimi tre anni l’accelerazione del mondo dell’automotive in direzione di una maggiore sostenibilità è stata massima, spinta da stringenti leggi antinquinamento e da una crescente sensibilità green a livello mondiale.

    Ciononostante, il processo di trasformazione del settore non è che all’inizio.

    Nel periodo in cui stavo sviluppando il mio primo prototipo, il mondo era profondamente diverso. La società aveva subìto diverse ondate di globalizzazione e si stava preparando a entrare nella fase definita di iper-globalizzazione, iniziata a partire dai primi anni Duemila. In Italia, la nostra

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