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La ricchezza delle nazioni
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E-book1.498 pagine37 ore

La ricchezza delle nazioni

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Info su questo ebook

Introduzione di Alessandro Roncaglia

Contributi critici di Lucio Colletti, Claudio Napoleoni e Paolo Sylos Labini

Traduzione integrale di Francesco Bartoli, Cristiano Camporesi e Sergio Caruso

Nel maggio del 1776, circa duecentotrenta anni fa, si pubblicava La ricchezza delle nazioni, con cui Adam Smith fondava la moderna scienza economica: ancor prima del pieno dispiegarsi della rivoluzione industriale questo testo ha offerto alcune delle principali categorie di interpretazione della nascente società capitalistica (divisione del lavoro, definizione delle classi, valore-lavoro) e straordinarie intuizioni sulla società borghese e sul suo evolversi. Non c’è nessuna questione di teoria e di politica economica che non sia stata in qualche modo almeno impostata ne La ricchezza delle nazioni, tanto che tutti gli sviluppi successivi del pensiero economico si trovano, magari allo stato embrionale, compresenti in questo libro fondamentale.

Adam Smith

(Kirkcaldy 1723 - Edimburgo 1790), economista e filosofo scozzese, subentrò a F. Hutcheson nell’insegnamento di filosofia morale all’università di Glasgow. Nel 1759 pubblicò Teoria dei sentimenti morali e nel 1776 la sua opera più importante, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, nella quale trova origine il pensiero economico moderno.
LinguaItaliano
Data di uscita29 apr 2013
ISBN9788854125728
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    Anteprima del libro

    La ricchezza delle nazioni - Adam Smith

    235

    I contributi di Lucio Colletti, Claudio Napoleoni e Paolo Sylos Labini

    sono pubblicati per gentile concessione, rispettivamente, del

    Corriere della Sera, la Repubblica e l’Unità

    Titolo originale: An Inquiry into the Nature and Causes

    of the Wealth of Nations

    Traduzione di Francesco Bartoli, Cristiano Camporesi e Sergio Caruso

    Prima edizione ebook: aprile 2013

    © 1995, 2006 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-2572-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Adam Smith

    La ricchezza

    delle nazioni

    Introduzione di Alessandro Roncaglia

    Contributi critici di Lucio Colletti, Claudio Napoleoni e Paolo Sylos Labini

    Traduzione integrale di Francesco Bartoli, Cristiano Camporesi e Sergio Caruso

    Aggiornamento bibliografico e nota alla' traduzione di Sergio Caruso

    Newton Compton editori

    Introduzione

    Adam Smith è uno di quegli autori che hanno qualcosa di nuovo da dire a ogni generazione di lettori, ed è uno di quegli studiosi schivi e meticolosi che con i loro scritti hanno influito sulle vicende umane più di tanti sovrani e condottieri. Migliaia di pagine sono state scritte a commento delle sue teorie; innumerevoli volte il suo nome è stato ed è richiamato, a proposito e a sproposito, non solo da economisti ma anche da politici e giornalisti, filosofi e studiosi di scienze sociali. Come introduzione al suo testo più celebre, l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, originariamente pubblicato nel 1776 e riproposto nelle pagine che seguono nella bella traduzione di Franco Bartoli, Cristiano Camporesi e Sergio Caruso, cercheremo di fornire in estrema sintesi alcuni elementi per inquadrare la sua personalità e il suo contributo teorico.

    La vita

    Adam Smith nasce nella piccola cittadina di Kirkcaldy, sulla costa orientale della Scozia, nel 1723. La data esatta non è nota; sappiamo solo che dev’essere di poche settimane successiva alla morte del padre, avvenuta in gennaio, e antecedente al 5 giugno, che è il giorno del battesimo. Il giovane Smith trascorre un’infanzia tranquilla, allevato dalla madre Margaret con l’aiuto dei parenti, fin quando nel 1737 si trasferisce a Glasgow per frequentare la locale università. Fra i suoi docenti il preferito è Francis Hutcheson (1694-1746), autore di un Sistema di filosofia morale pubblicato postumo nel 1755. Hutcheson considera l’uomo come un animale essenzialmente sociale, tanto da rifiutare la separazione tra etica e politica; inoltre, è noto per aver coniato la famosa frase «la massima felicità del massimo numero», talvolta impropriamente attribuita al filosofo utilitarista Jeremy Bentham (1748-1832), il cui pensiero è in realtà assai lontano da quello degli esponenti dell’illuminismo scozzese.

    All’epoca, quattordici anni non erano un’età insolita per iscriversi all’università, che era in realtà un istituto di istruzione superiore. La caratteristica del sistema d’istruzione scozzese, a tutti i livelli, era che gli studenti pagavano corso per corso i docenti. La retribuzione complessiva di questi ultimi dipendeva quindi dal giudizio del pubblico sulla bontà del loro insegnamento: un sistema che lo stesso Smith sperimenterà da professore, e che dichiara di considerare nettamente preferibile a quello delle grandi università inglesi come Oxford, finanziate da fondi pubblici e da lasciti privati e dove i docenti, ricevendo un regolare stipendio, non erano incentivati a fare il loro mestiere con impegno.

    Proprio a Oxford, al Balliol College, Smith prosegue i suoi studi a partire dal 1740, con una borsa di studio (la Snell) che garantiva 40 sterline annuali per undici anni, come preparazione per una carriera ecclesiastica. Come si è accennato, Smith non trova di suo gradimento la celebre università inglese, tradizionalista e autoritaria; ad esempio, il giovane Adam viene punito per essere stato sorpreso a leggere il Trattato della natura umana (1739-40) di David Hume (1711-1776), considerato sostenitore di un vago teismo, che più tardi diventerà uno dei suoi migliori amici. Forse queste stesse letture lo inducono a respingere l’idea di una carriera ecclesiastica. Così, dopo sei anni difficili, nel 1746 Smith decide di tornare in Scozia, a Kirkcaldy, dove trascorre due anni studiando per suo conto e scrivendo alcuni saggi di argomento letterario e filosofico.

    Per tre anni, dal 1748 al 1751, Smith tiene conferenze pubbliche a Edimburgo, sulla retorica e sulla letteratura inglese, con discreto successo di pubblico e finanziario (un centinaio di persone pagano una ghinea l’anno ciascuno per ascoltare il giovane conferenziere, mentre gli sponsors, tra i quali Lord Kames, pagano le spese). Sulla scia della fama ottenuta con queste conferenze, nel 1751 Smith diviene professore all’università di Glasgow, dapprima di logica (ma le sue lezioni riguardano essenzialmente la retorica, come le conferenze di Edimburgo), e successivamende di filosofia morale.

    Di quegli anni ci restano gli appunti di un suo corso di lezioni di retorica, presi da uno studente nel 1762-63, ritrovati nel 1958 e pubblicati nel 1963, e quelli di due corsi di «giurisprudenza» (del 1762-63 e del 1763-64, ritrovati rispettivamente nel 1958 e nel 1895, e pubblicati nel 1978 e nel 1896). Si tratta di testi che, oltre ad avere un notevole interesse di per sé come studio della natura umana e delle forme di comunicazione, e come analisi delle istituzioni e del loro sviluppo nel corso della storia -, mostrano come l’autore avesse già in quegli anni, e dunque prima di entrare in contatto con i fisiocrati francesi, ben chiari i temi principali che confluiranno nella Ricchezza delle nazioni.

    Nello stesso periodo Smith scrive e pubblica il suo primo libro, la Teoria dei sentimenti morali (1759). In esso propone una «morale della simpatia», secondo la quale le azioni di ogni individuo dovrebbero essere guidate dal giudizio che di esse darebbe uno «spettatore imparziale», ben informato delle circostanze. Ciascun individuo, infatti, desidera l’approvazione degli altri, proprio perché ciascuno vive non isolato ma come membro della società. Questo libro ha un notevole successo, giungendo ad avere sei edizioni prima della morte di Smith nel 1791.

    Fra i lettori del libro vi è Charles Townshend, patrigno del giovane duca di Buccleuch, che propone a Smith di fare da tutore al giovane aristocratico, accompagnandolo in un viaggio nel continente. La proposta è attraente, non solo perché accompagnata da un vitalizio di 300 sterline annue, ma anche per la prospettiva di entrare in contatto diretto con il nucleo più vivo della cultura dell’epoca. Smith accetta, e all’inizio del 1764 si dimette dalla sua cattedra di Glasgow. I viaggi nel continente sono l’occasione di incontri con Voltaire a Ginevra, con d’Alembert, Quesnay e tanti altri a Parigi.

    Dobbiamo ricordare che all’epoca la Scozia ha una discreta vita culturale, relativamente libera (specie in confronto all’autoritarismo e al conformismo prevalenti nelle università inglesi) e ricca di solido buon senso, soprattutto nel campo delle scienze sociali; ma il vero centro intellettuale è rappresentato dalla Francia, in particolare Parigi. Glasgow è ancor più periferica di Napoli, dove nel 1754 viene istituita per l’abate Antonio Genovesi (1712-1769) la prima cattedra di economia politica e dove è attivo l’abate Fernando Galiani (1728-1787), autore di un celebre Trattato della moneta (1751), che comunque trascorre volentieri molti anni a Parigi. Quando Smith arriva nella capitale francese, François Quesnay (16941774), medico di Madame de Pompadour alla corte di Luigi XV, ha da pochi anni pubblicato il suo Tableau économique (1758), mentre Anne Robert Jacques Turgot (1727-1781), che sarà Ministro delle finanze dal 1774 al 1776, deve ancora pubblicare le sue Riflessioni sulla formazione e distribuzione delle ricchezze (1769-70). La cultura dell’Encyclopédie (la cui pubblicazione inizia nel 1751 ), la fiducia nella ragione e nel progresso si riflettono anche negli altri paesi europei; ma il fervore del dibattito dei celebri salotti parigini è irripetibile altrove, e offre a Smith stimoli che egli rielaborerà negli anni successivi.

    Al termine dei viaggi nel continente, infatti, grazie al vitalizio del duca di Buccleuch, Smith può dedicarsi a tempo pieno alla stesura della Ricchezza delle nazioni, nella tranquillità della sua nativa Kirkcaldy dove abita con la madre tra il 1767 e il 1773. Nel 1773 si trasferisce a Londra per seguire da vicino la stampa del libro, che comunque richiede altri tre anni di lavoro. Finalmente, il 9 marzo 1776, il più famoso libro di economia di tutti i tempi arriva nelle librerie, incontrando una calorosa accoglienza da parte del pubblico, con cinque edizioni nel giro di dodici anni. Hume, suo grande amico, gli scrive una lettera entusiastica.

    Da tempo malato, David Hume muore lo stesso anno. Smith scrive un resoconto dell’ultimo periodo di malattia dell’amico, sottolineandone il coraggio stoico: il resoconto, pubblicato nel 1777, gli procurerà «dieci volte più malevolenza di quella suscitata dai violenti attacchi [della Ricchezza delle nazioni] al sistema commerciale detta Gran Bretagna» (come scrive lo stesso Smith in una lettera ad Andreas Holt dell’ottobre 1780).

    Nel 1778, consultato sulla situazione americana, Smith scrive un memorandum in cui sostiene l’opportunità di adottare un sistema uniforme di tassazione per la Gran Bretagna; l’Irlanda e le colonie americane, accompagnato dall’elezione in Parlamento di rappresentanti di queste popolazioni (sulla base del principio «no taxation without représentation», niente tasse senza rappresentanza politica). Inoltre, Smith prevede la perdita delle colonie americane (tranne il Canada) e il graduale spostamento del baricentro economico e politico dall’Inghilterra all’America.

    Sempre nel 1778 Smith viene nominato Commissario delle dogane per la Scozia, e si trasferisce a Edimburgo, seguito dalla madre. Lì vive tranquillamente (pur profondamente rattristato, nel 1784, dalla morte della madre), svolge con scrupolo il suo incarico e cura con la consueta meticolosità le nuove edizioni dei suoi libri, fino alla morte che sopravviene il 17 luglio 1790.

    Le teorie

    I contributi di Smith, come abbiamo visto, riguardano vari campi: la retorica, la filosofia morale, la giurisprudenza, l’economia. Naturalmente, non possiamo considerare ciascuno di questi campi specifici, ma sofo quello al quale Smith deve la sua fama, l’economia. Tuttavia è importante ricordare che le sue riflessioni su questo argomento (e quindi il libro in cui sono esposte) sono parte di una ricerca più generale sull’uomo e sulla società: due elementi che, come insegnava il suo maestro Hutcheson, costituiscono in realtà un unico oggetto di studio.

    Il punto di partenza della riflessione economica di Smith è costituito dalla divisione del lavoro. Il suo obiettivo, dunque, è spiegare come funziona un sistema economico in cui ogni persona è impegnata in un compito specifico e ogni impresa produce una merce specifica.

    La divisione del lavoro non è un fenomeno nuovo, sul quale Smith per primo richiami l’attenzione. Come dice un grande storico del pensiero economico, Joseph Schumpeter (1883-1950), si tratta di «un eterno luogo comune della teoria economica», di cui avevano già parlato autori della Grecia classica come Senofonte o Diodoro Siculo, o autori del secolo precedente quello di Smith come William Petty (1623-1687)¹ Smith tuttavia è il primo a porre la divisione del lavoro alla base della riflessione analitica con cui cerca di spiegare quali fattori determinano il tenore di vita di un paese, e le sue tendenze a progredire o a regredire.

    La tesi di Smith può essere riassunta come segue. Innanzitutto, la «ricchezza delle nazioni» viene identificata con quello che oggi chiamiamo il reddito prò capite, cioè in sostanza con il tenore di vita dei cittadini di un paese. Si tratta di un’identificazione che ormai consideriamo scontata, ma che non era affatto tale quando Smith la introdusse. Con essa infatti viene superata la tendenza degli economisti cameralisti e mercantilisti, «consiglieri del principe» nei decenni precedenti, a considerare come obiettivo la massimizzazione del reddito complessivo di un paese, in quanto fonte di potere economico e quindi di potere militare e politico (una concezione per la quale la Svizzera sarebbe meno «ricca» dell’India).

    In secondo luogo, ricordiamo che il reddito nazionale è pari alla quantità di prodotto ottenuta in media da ciascun lavoratore (o produttività del lavoro) moltiplicata per il numero dei lavoratori occupati nella produzione. Se dividiamo il reddito nazionale per la popolazione, otteniamo il reddito prò capite; di conseguenza, il reddito prò capite risulta eguale alla produttività del lavoro moltiplicata per la quota dei lavoratori attivi sul totale della popolazione. In altri termini, il tenore di vita della popolazione dipende da due fattori: la quota di cittadini impiegati in un lavoro utile, e la produttività del loro lavoro.

    Qui entra in gioco la divisione del lavoro. Infatti, secondo Smith, la produttività dipende soprattutto dallo stadio raggiunto dalla divisione del lavoro. A sua volta, questo dipende dall’ampiezza dei mercati. Un’impresa che aumenta le sue dimensioni per realizzare al suo interno una migliore divisione del lavoro deve infatti collocare sul mercato un prodotto che è cresciuto sia per l’aumento del numero dei lavoratori impiegati sia per l’aumento della loro produttività. Di qui il liberismo di Smith: tutto ciò che ostacola i commerci costituisce anche un ostacolo allo sviluppo della divisione del lavoro, e quindi all’aumento della produttività e alla crescita del benessere dei cittadini, cioè della ricchezza delle nazioni.

    Gli «aritmetici politici» come Gregory King (1648-1712) e Charles Davenant (1656-1714), noti per i loro tentativi di descrivere in termini quantitativi la società dell’epoca, avevano illustrato la situazione economica dell’Inghilterra utilizzando una divisione del sistema economico nazionale in aree geografiche: un modo di procedere comprensibile per un’epoca in cui i commerci erano assai ostacolati dalle difficoltà dei trasporti. Successivamente, invece, si afferma il criterio di suddividere la società in classi sociali. Sulla scia di Richard Cantillon (c. 1680-1734), autore del Saggio sulla natura del commercio in generale (pubblicato postumo nel 1755) e di Quesnay, Smith considera una società divisa in tre classi. Tuttavia la sua tripartizione lavoratori, capitalisti, proprietari terrieri (con le tre forme di reddito corrispondenti: salari, profitti e rendite) è diversa da quella dei suoi predecessori agricoltori, artigiani, nobiltà e clero -. Quest’ultima classificazione rispecchia una società in transizione dal feudalesimo al capitalismo, quella di Smith una società capitalista (pur se oggi la classe dei proprietari terrieri ha ormai perso praticamente tutta la sua importanza, mentre si sono affermati i ceti medi). Anche per quest’aspetto, dunque, Smith segna l’affermazione dello schema concettuale che caratterizzerà la scienza economica moderna.

    Date le differenze di potere contrattuale tra i capitalisti e i lavoratori, questi ultimi ricevono un salario appena sufficiente a mantenere se stessi e le proprie famiglie. Il reddito dei capitalisti e dei proprietari terrieri, cioè profitti e rendite, è pari nel complesso al sovrappiù ottenuto nel sistema economico.

    Il sovrappiù un concetto che Smith riprende da Petty, Cantillon e Quesnay è pari a quella parte del prodotto che eccede quanto serve a ricostituire le scorte iniziali di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel processo produttivo. Questo concetto è il perno della rappresentazione classica del funzionamento dell’economia come «produzione di merci a mezzo di merci». Periodo dopo periodo, nel sistema economico le imprese utilizzano le scorte iniziali di mezzi di produzione (e i lavoratori utilizzano le scorte iniziali di mezzi di sussistenza) nel corso del processo produttivo; al termine di esso ottengono un prodotto che serve innanzitutto a ricostituire quelle scorte iniziali per permettere il ripetersi del ciclo; quel che avanza, il sovrappiù, può essere utilizzato per accrescere le scorte di mezzi di produzione e di sussistenza, aumentando il numero di lavoratori impiegati nella produzione e quindi il prodotto, o per consumi «improduttivi» (oltre ai consumi di lusso, i consumi di sussistenza di quanti non lavorano o di quanti svolgono un lavoro che non dà risultati concreti, cioè non mette capo a merci vendibili sul mercato). Smith attribuisce notevole importanza al processo di accumulazione, cioè all’impiego produttivo del sovrappiù, ma soprattutto attribuisce importanza centrale come fattore di sviluppo economico alla crescita della produttività derivante dal progresso nella divisione del lavoro.

    Come si è accennato, la divisione del lavoro pone un problema di coordinamento tra i vari soggetti economici. Ogni impresa produce una merce o un gruppo di merci, e per continuare a produrre ha bisogno di cedere almeno una parte di quanto ha prodotto in cambio dei mezzi di produzione che le sono necessari per continuare la sua attività. Allo stesso modo i lavoratori ottengono un salario che devono poter convertire nei mezzi di sussistenza di cui necessitano. Il «miracolo del mercato» consiste appunto nel fatto che le forze spontanee della concorrenza assicurano questo coordinamento, per cui merce per merce le quantità prodotte dall’insieme delle imprese operanti in ciascun settore corrispondono grosso modo alle quantità domandate in condizioni normali dagli acquirenti.

    Il meccanismo di aggiustamento che permette di raggiungere questo risultato consiste nei movimenti dei "prezzi di mercato", cioè dei prezzi effettivi ai quali si verificano gli scambi. In una situazione di tensioni derivanti da carenze dell’offerta o da domanda insufficiente, questi prezzi si muovono in modo tale da indurre acquirenti e produttori a modificare i loro comportamenti spingendo il sistema economico verso il superamento delle difficoltà. In particolare, in concorrenza i produttori possono abbandonare le attività in cui abbiano incontrato difficoltà di smercio, ed entrare in attività caratterizzate da migliori prospettive di mercato. Tuttavia Smith, a differenza.della teoria oggi insegnata nei libri di testo, non isola un preciso meccanismo di aggiustamento basato su funzioni di offerta e di domanda, rispettivamente crescenti e decrescenti al variare del prezzo, e sulla nozione di equilibrio tra domanda e offerta.

    Quel che Smith intende mettere in luce è che, indipendentemente dalle motivazioni sottostanti il comportamento dei singoli individui ciascuno dei quali è interessato al proprio tornaconto, non al buon funzionamento del sistema economico l’economia di mercato nel suo complesso riesce a funzionare in modo più o meno soddisfacente. A tale proposito si è parlato, ma erroneamente, di una tesi smithiana della mano invisibile del mercato: la visione smithiana dell’economia di mercato, infatti, è ricca di luci e ombre, tutt’altro che apologetica².

    Con le sue analisi, Smith dà una precisa risposta a tre dibattiti che si intersecano nel XVIII secolo: quello sul diritto all’autodeterminazione individuale, quello sugli effetti indesiderati dell’agire umano e quello sulle motivazioni degli individui.

    Per questi due ultimi temi, la sua risposta per vari aspetti analoga a quella di Bernard de Mandeville (1670-1733), che nella celebre Favola delle api (1714) sostiene che i vizi privati indirizzano le azioni umane in modo da avere come esito le pubbliche virtù; di conseguenza non vi è da preoccuparsi se gli uomini non sono mossi da stimoli altruistici, ma dall’interesse personale.

    Il tema è ricco di sfumature, perse di vista da quanti hanno troppo frettolosamente attribuito a Smith una concezione stereotipa di homo oeconomicus, freddamente razionale e intento unicamente alla ricerca del proprio tornaconto. Questa concezione è attribuibile piuttosto ai filoni più estremisti dell’utilitarismo benthamita, che individuano in un meccanico «calcolo felicifico» dei piaceri e delle pene la guida dell’agire umano. La costruzione benthamita è stata in effetti accolta e utilizzata nella costruzione di teorie economiche. Tuttavia ciò non è avvenuto ad opera degli economisti classici, da Smith stesso a David Ricardo (1772-1823) e John Stuart Mill (1806-1873), che pure fu allievo diretto di Bentham, ma che se ne scostò esplicitamente proprio su questo punto. L’idea del «calcolo felicifico» è stata invece ripresa dagli economisti marginalisti come William Stanley Jevons (1835-1882), prevalenti a partire dal 1870 circa; è sulla scia di questa impostazione che Lionel Robbins (1898-1984) ha proposto la fortunata definizione del problema economico come un problema di utilizzazione razionale delle scarse risorse disponibili, di fronte alla scelta tra una molteplicità di desideri.

    È opportuno sottolineare che Smith parla di self-interest (interesse personale), non di selfishness (egoismo), e che la teoria sugli effetti positivi del perseguimento dell’interesse personale sviluppata nella Ricchezza delle nazioni va letta alla luce di e non in contraddizione con quanto lo stesso Smith aveva scritto nel suo precedente lavoro, la Teoria dei sentimenti morali. In esso, come si e già accennato, Smith propone una «morale della simpatia», per la quale l’individuo ricerca continuamente l’approvazione dei suoi simili. Questa propensione morale agisce da contrappeso alle motivazioni più egocentriche: il perseguimento dell’interesse personale avviene all’interno di un quadro di regole morali, oltre che giuridiche (Smith ricorda che le seconde hanno scarsa efficacia, se non sono sostenute dalle prime), che garantisce un esito socialmente positivo. Così, Smith può affermare che «non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse» (oltre, p. 73), escludendo implicitamente un esito negativo causato dal diffondersi di sofisticazioni alimentari o frodi in commercio. Nel perseguire l’arricchimento personale, dice Smith, «ognuno può correre con tutte le proprie forze, sfruttando al massimo ogni nervo e ogni muscolo per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l’indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. E una violazione del fair play che non si può ammettere»³.

    Proprio su questi temi l’importanza delle fondamenta sia giuridiche sia culturali e morali dell’economia di mercato è tornata recentemente a soffermarsi l’attenzione degli studiosi di Smith, che propendono ormai per una lettura integrata delle sue opere anziché per una cesura netta dell’analisi economica dalle riflessioni etiche e dcàlo studio delle istituzioni giuridiche⁴.

    Questi temi si riflettono anche nel dibattito sulla concezione smithiana del liberismo. Le tesi di Smith poggiano su una petizione di principio che ha valenza generale, e non solo economica, contrapponendosi al paternalismo tipico della struttura sociale e deila cultura di una società feudale, e più precisamente all’idea che il comportamento degli individui debba essere regolato dall’alto: «Ogni uomo è certamente, da ogni punto di vista, più capace e più adatto di ogni altra persona a prendersi cura di se stesso»⁵. Smith muove da una concezione realistica e non idealizzata degli uomini, che non sono considerati né santi né onniscienti, ma neppure abietti e incoscienti; d’altra parte, ricorda Smith, anche i governanti sono uomini. La concretezza dell’analisi smithiana porta così, in campo più strettamente economico, a un àtteggiamento generalmente ostile all’intervento pubblico, ma in modo tutt’altro che dogmatico. Come altri temi del pensiero smithiano, comunque, anche quello del liberismo è stato oggetto di vivaci dibattiti interpretativi.

    La fortuna

    Dire che Smith sia stato il fondatore della scienza economica sarebbe sbagliato: prima di lui, autori come Petty, Cantillon, Quesnay e tanti altri avevano affrontato l’analisi di specifiche questioni economiche o, più in generale, del modo di funzionamento di un sistema sociale per quanto riguarda i problemi materiali. Proprio ai molti scritti già esistenti sull’argomento Smith si appoggia nella sua trattazione, riprendendoli per vari aspetti. Forse, rispetto agli autori precedenti, la principale caratteristica distintiva di Smith è di essere un «accademico»: cioè di affrontare il suo oggetto d’analisi mosso sì da passioni politiche ma sufficientemente distaccato dai problemi e dagli interessi immediati, e soprattutto di dedicare grande cura, e un’enorme quantità di tempo, all’esatta definizione e all’accurata presentazione delle sue idee, con una grande capacità di mediare tra posizioni e tesi diverse, e di cogliere gli elementi positivi di ciascuna di esse.

    Questa «sottigliezza» smithiana, il rifiuto di tesi nette e prive di qualificazioni e sfumature, rende allo stesso tempo diffìcile e interessante il lavoro d’interpretazione delle sue opere. In quanto segue richiameremo alcuni esempi di problemi interpretativi fra quelli che hanno suscitato maggiore interesse.

    Il primo di questi esempi riguarda il liberismo smithiano. Occorre sottolineare, al riguardo, che Smith aveva un atteggiamento «progressista. sui grandi temi politici della sua epoca, come il conflitto sull’indipendenza delle colonie americane. Nella Francia pre e postrivoluzionaria, la Ricchezza delle nazioni viene considerata con particolare favore dagli elementi progressisti dell’epoca, come Condorcet (1743-1794), che ne pubblica un riassunto nel 1791. In Inghilterra, si richiamano a Smith negli anni immediatamente successivi alla sua morte pensatori «radicali. come Thomas Paine (1737-1809) e Mary Wollstonecraft (1759-1797). Assieme a Hume, Smith viene considerato un pericoloso sovversivo dagli intellettuali conservatori dell ’epoca. Il punto è che tutti questi pensatori, favorevoli o avversi alle posizioni di Smith, non percepivano nel suo pensiero alcuna cesura tra il liberismo in campo politico e quello in campo economico, tra difesa della libertà (freedom) e difesa del libero commercio (free trade)⁶.

    Le cose cambiano negli anni immediatamente successivi. L’opinione pubblica inglese registra una forte reazione negativa verso gli eccessi della rivoluzione francese (il Terrore). Ciò implica all’inizio una crescente diffidenza verso il liberismo smithiano. Ben presto tuttavia, ad opera principalmente del primo biografo di Smith, Dugald Stewart (1753-1828), si ha una reinterpretazione del pensiero smithiano diretta a renderlo più accettabile, basata appunto sulla distinzione tra liberismo economico e liberalismo politico. Con questa sottile reinterpretazione, una tesi politicamente progressista, che poneva in grosso rilievo la necessità di combattere le concentrazioni di potere di ogni tipo, veniva trasformata in una tesi conservatrice, che nella fase dell’industrializzazione giunge ad assumere connotati reazionari, fungendo da giustificazione per un disinteresse completo della nuova classe imprenditrice verso i pesanti costi umani delle nuove tecniche produttive e verso la miseria diffusa nella società: qualcosa di molto lontano dalla sensibilità ripetutamente dimostrata dall’economista scozzese per le sofferenze umane, e dal suo interesse per il continuo miglioramento delle condizioni di vita della gran massa della popolazione ⁷.

    Un altro problema interpretativo ha origine dal confronto tra il primo e il quinto libro della Ricchezza delle nazioni, a proposito dell’atteggiamento apparentemente contraddittorio di Smith verso la divisione del lavoro⁸. Nel primo libro questa viene esaltata come fondamento della crescita della produttività, e quindi del benessere e dello stesso progresso civile; nel quinto libro, in un passo (cfr. oltre, pp. 637-638) spesso citato come precorritore della teoria marxiana dell’alienazione, Smith sottolinea le caratteristiche negative del lavoro parcellizzato, che può abbrutire l’uomo. Tuttavia, la contraddizione è solo apparente: non ci si deve meravigliare se un autore come Smith, attento a cogliere i diversi lati di una questione, attribuisce più effetti a una stessa causa, alcuni positivi e alcuni negativi. E anzi chiaro dal contesto che Smith ritiene predominanti gli effetti positivi della divisione del lavoro; infatti, di fronte ai concomitanti effetti negativi, non ha un attimo di esitazione sulla via da seguire, e ben lungi dal porre in dubbio l’opportunità di perseguire il continuo approfondimento della divisione del lavoro, propone il ricorso all’istruzione elementare come contrappeso.

    Vi è a questo proposito un aspetto da sottolineare, che costituisce forse il principale punto di contrasto tra la filosofia smithiana e quella di Marx, e rispetto al quale si può sostenere che il filosofo scozzese avesse ragione. Sia Smith sia Marx, come si è accennato, sono pienamente consapevoli delle implicazioni negative della divisione del lavoro, e dell’obbligo al lavoro (o «lavoro costrittivo») che la accompagna. Marx, tuttavia, ritiene che la dura necessità del lavoro costrittivo sia superabile in una società comunista, nella quale è possibile raggiungere il pieno sviluppo delle forze produttive, che «mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopopranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né Critico»⁹. La possibilità di raggiungere una piena liberazione dal lavoro giustifica moralmente, e rende politicamente accettabili, i costi di lacrime e sangue della rivoluzione proletaria e della successiva dittatura del proletariato, come fasi necessarie (assieme all’accumulazione capitalistica) per quello sviluppo delle forze produttive che costituisce la premessa indispensabile al raggiungimento dell’obiettivo finale.

    Smith invece considera chiaramente irraggiungibile il superamento della divisione del lavoro: la crescita della produttività e il crescente benessere economico resi possibili dall’approfondimento della divisione del lavoro sono la precondizione per un progresso delle società umane, che è tuttavia concepito come un processo continuo senza che sia intravedibile una «fuoruscita» dall’assetto delle economie di mercato e un superamento dei loro limiti e difetti, dal lavoro costrittivo all’ineguaglianza di condizioni sociali. Questa concezione smithiana può forse essere assimilata a quella dei filoni riformisti nel dibattito politico contemporaneo, contrapposti sia ai filoni conservatoti che ritengono inutile qualsiasi intervento per combattere le situazioni di malessere sociale, sia alle aspirazioni rivoluzionarie per una palingenesi sociale.

    Nel dibattito sul rapporto tra Smith e Marx vanno inquadrati anche gli interventi di Colletti, Napoleoni e Sylos Labini originariamente pubblicati su diversi quotidiani in occasione del bicentenario della Ricchezza delle nazioni, nel 1976, e qui riproposti. Questi contributi mostrano assai bene quale gioco di chiaroscuro attraversi l’analisi smithiana, e quindi quale varietà di prospettive sia possibile dedurre dal suo lavoro.

    Una terza controversia interpretativa, per alcuni aspetti collegata alla prima, ha riguardato il rapporto tra economia e morale, tra Teoria dei sentimenti morali e Ricchezza delle nazioni¹⁰. Alcuni economisti tedeschi, nella seconda metà dell’Ottocento, sostennero che tra le due opere di Smith vi era una vera e propria contraddizione: l’interesse personale, che nel trattato di economia è considerata la molla dell’agire umano, si contrappone al sentimento della simpatia e al desiderio di ottenere l’approvazione dei propri simili su cui Smith concentra l’attenzione nel trattato di etica. Anzi, Smiih sarebbe passato dalla più ottimistica posizione del suo primo libro alla più pessimistica ma più realistica concezione dell’uomo nella successiva più nota opera.

    Questa interpretazione è stata ormai abbandonata. Smith stesso, infatti, considera i due libri come parti di un unico ampio progetto di ricerca in cui il funzionamento delle società umane viene considerato da punti di vista etico, giuridico, economico diversi ma complementari e non contraddittori. Ciò risulta, fra l’altro, dal fatto che fino alla fine della sua vita Smith continua a lavorare contemporaneamente sui due libri con la sua consueta meticolosità, preparandone le edizioni successive alla prima: le modifiche man mano introdotte non riguardano quegli aspetti sui quali si basa la critica di contraddizione. Inoltre, come abbiamo visto sopra, sottolineando la distinzione tra «interesse personale» ed «egoismo. si riesce a cogliere come Smith sia riuscito a comporre il possibile contrasto tra sfera economica e sfera morale.

    Questa linea interpretativa è stata sviluppata dalle ricerche più recenti, che hanno accompagnato e seguito la pubblicazione dell’edizione critica delle opere di Smith (la «Glasgow Edition», in sei volumi, pubblicata dalla Oxford University Press) presentata in occasione del bicentenario della Ricchezza delle nazioni¹¹. Queste ricerche hanno posto l’accento sull’unitarietà della concezione dell’uomo e della società sviluppata da Smith per vari aspetti nei suoi diversi scritti, e hanno sottolineato il nesso tra tale concezione e la filosofia sociale dell’illuminismo scozzese. In tal modo, hanno ricondotto l’obiettivo centrale di Smith all’analisi dell’interazione tra una molteplicità di stimoli all’azione umana, cioè a un’anàlisi delle «passioni e interessi», dell’insieme di sentimenti e ragionamenti che guidano le nostre azioni, e delle condizioni nelle quali tali azioni si compongono in un quadro di progresso delle condizioni di vita. Una sostanziale fiducia nell’uomo, pur riconosciuto come essenzialmente imperfetto, e nelle possibilità di progresso delle società umane costituisce l’elemento comune a Smith e alla cultura illuministica settecentesca. Ma costituisce anche, e soprattutto, il messaggio positivo che ha fatto dell’opera del pensatore scozzese un punto di riferimento centrale per là riflessione sull ’uomo e sulla società.

    ALESSANDRO RONCAGLIA

    ¹ J. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Torino, Boringhieri, 1959, p. 69.

    ² Per una critica dell’attribuzione a Smith della tesi della mano invisibile del mercato, si veda A. Roncaglia, Il mito della mano invisibile (Roma-Bari, Laterza, 2005); per una sintetica presentazione del pensiero e dell’opera di Smith, A. Roncaglia, La ricchezza delle idee (Roma-Bari, Laterza, 2001), cap. 5.

    ³ A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1991, p. 111.

    ⁴ I contributi a questa linea interpretativa sono numerosi, dall’ormai classico lavoro di A.L. Macfie, The Individuai in Society (London, Alien and Unwin, 1967), al saggio di S.J. Pack, Capitalism as a Moral System (Aldershot, Elgar, 1991).

    ⁵ A. Smith, op. cit., p. 297.

    ⁶ La storia di queste originarie letture «progressiste» di Smith, e della successiva reinterpretazione «conservatrice», è raccontata in un interessante articolo di Emma Rothschild («Adam Smith and Conservative Economics», in Economie History Review, voi. 45, 1992, pp. 74-96). Secondo la sua ricostruzione, «La libertà consiste, per Smith, nell’assenza di interferenze da parte di altri: in qualsiasi aspetto della vita, e da parte di qualsiasi forza esterna (chiese, autorità locali, corporazioni, ispettori delle dogane, governi nazionali, datori di lavoro, proprietari)» (ivi, p. 94).

    A questo proposito possiamo anche richiamare un aspetto del liberismo smithiano la sua diffidenza verso l’assunzione di un ruolo politico diretto da parte degli imprenditori che appare di un qualche interesse nell’attuale congiuntura politica italiana:

    «L’interesse di coloro che trattano in un corto ramo commerciale o manifatturiero è sempre, sotto qualche aspetto, diverso da quello del pubblico, e anche opposto. [...] La proposta di una nuova legge o di un regolamento di commercio che provenga da questa classe dovrebbe essere sempre ascoltata con grande precauzione e non dovrebbe mai essere adottata, se non dopo averla esaminata a lungo e attentamente, non solo con la più scrupolosa, ma anche con la più sospettosa attenzione» (oltre, p. 252).

    ⁷ Questa concezione «conservatrice» del liberismo è divenuta decisamente dominante a partire dall’inizio dell’Ottocento, e ha sempre continuato a richiamarsi a Smith nonostante la forzatura interpretativa illustrata sopra. In questi ultimi decenni, ad esempio, si è direttamente richiamata a Smith la «scuola di Chicago», nonostante le cautele espresse fin dall’inizio dal più colto dei suoi esponenti (cfr. J. Viner, «Adam Smith and laissezfaire», in Journal of Political Economy, voi. 35, 1927, pp. 198-232). In Italia possiamo ricordare l’ultraliberismo di Francesco Ferrara (1810-1900), curatore della prima serie della celebre Biblioteca dell’economista (Torino, Cugini Pomba Editori-librai), il cui secondo volume (1851) propone ai lettori la Ricchezza delle nazioni.

    ⁸Sulla storia di questo dibattito, che risale a Marx, cfr. N. Rosenberg, «La divisione del lavoro in Adam Smith: due concezioni o una?», in L’economia classica, a cura di R. Faucci ed E. Pesciarelli, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 147-162.

    ⁹ K. Marx F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 24.

    ¹⁰ Su questo dibattito si veda l’ampia introduzione di A.L. Macfie e D.D. Raphael ad A. Smith, The Theory of Moral Sentiments, Oxford, Clarendon Press, 1976.

    ¹¹ Si vedano in particolare i saggi raccolti in A. Skinner e T. Wilson (eds), Essays on Adam Smith, London, Oxford University Press, 1975; D. Winch, Adam Smith’s Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1978; R. Hamovy, The Scottish Enlightenment and the Theory of Spontaneous Order, Carbondale, Southern Illinois Press, 1987; P. Jones e A. Skinner (eds), Adam Smith Reviewed, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1992.

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA

    1723. Adam Smith nasce a Kirkcaldy in Scozia. 1723-37. Vive a Kirkcaldy con la madre; frequenta le scuole locali. 1737-40. Studia all’Università di Glasgow. 1740-46. Studente al Balliol College di Oxford. 1746-48. Torna a Kirkcaldy, continuando gli studi per proprio conto. 1748-51. Tiene conferenze pubbliche a Edimburgo. 1751-63. Professore all’Università di Glasgow, prima di logica, poi di filosofia morale. 1759. Pubblica la Teoria dei sentimenti morali. 1764-66. Tutore del giovane duca di Buccleuch, viaggia con lui in Europa, soggiornando in particolare a Parigi. 1767-73. Nella tranquillità di Kirkcaldy lavora alla Ricchezza delle nazioni. 1773-76. A Londra, completa la Ricchezza delle nazioni e ne segue la pubblicazione. 1776. Pubblica Una indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni . 1776-78. Scrive un resoconto delPultimo periodo di malattia di David Hume, morto nel 1776, e un memorandum sulla situazione delle colonie americane. 1778-90. A Edimburgo come Commissario delle dogane per la Scozia. 1790. Il 17 luglio muore a Edimburgo.

    BIBLIOGRAFIA

    Gli scritti di Adam Smith sono ora disponibili in una ottima edizione critica, la «Glasgow Edition of the Works and Correspondence of Adam Smith» pubblicata in sei volumi dalla Oxford University Press tra il 1976 e il 1983. I sei volumi sono stati ristampati in edizione economica dalla Liberty Press di Indianapolis. Il primo volume, a cura di D.D. Raphael e A.L. Macfie, contiene The Theory of Moral Sentiments (1759). Il secondo volume, in due tomi, a cura di R.H. Campbell e A.S. Skinner, contiene An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776). Il terzo volume, a cura di P.D. Wightman, raccoglie gli Essays on Philosophical Subjects pubblicati postumi nel 1795 e alcuni scritti minori, assieme all’Account of the Life and Writings of Adam Smith, LL.D. di Dugald Stewart (1794). II quarto volume, a cura di J.C. Bryce, propone le Lectures on Rhetoric and Belles Lettres, basate sugli appunti presi da uno studente nel 1762-63, scoperti da J. Lothian nel 1958 e pubblicati nel 1963. Il quinto volume, curato da R.L. Meek, D.D. Raphael e P.G. Stein, presenta le Lectures on Jurisprudence, basate sugli appunti di studenti dei corsi del 1762-63 e del 1763-64, scoperti rispettivamente da Lothian nel 1958 e da Cannan nel 1895; contiene anche An Early Draft of Part of the Wealth of Nations, e due frammenti sulla divisione del lavoro, scoperti e pubblicati da W.R. Scott nel 1937. Il sesto volume, a cura di E.C. Mossner e I.S. Ross, raccoglie The Correspondence of Adam Smith, e testi collaterali come il memorandum del 1778 su The State of the Contest with America.

    La prima traduzione italiana della Ricchezza delle nazioni apparve a Napoli nel 1790-91; ampia diffusione ha poi la traduzione pubblicata come voi. n della prima serie della Biblioteca dell’economista (Pomba, Torino), a cura di F. Ferrara, nel 1851. Negli ultimi decenni, le edizioni più diffuse sono state quelle della UTET (traduzione di A. Campolongo) e della ISEDI (da cui è ripresa la traduzione della presente edizione).

    La Teoria dei sentimenti morali è disponibile nella traduzione di C. Cozzo, con introduzione e a cura di A. Zanini (Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991).

    Sotto il titolo di Lezioni di Glasgow (Giuffrè, Milano 1989), con introduzione e a cura di E. Pesciarelli sono disponibili, nella traduzione di V. Zompanti Oriani, le Lectures on Jurisprudence. Infine, una traduzione italiana dell’Abbozzo della «Ricchezza delle nazioni» è stata pubblicata a cura di V. Parlato dagli Editori Riuniti (Roma 1971).

    A.R.

    Contributi critici

    *

    per il bicentenario dell’opera

    1. LUCIO COLLETTI

    Ricorre quest’anno il bicentenario della pubblicazione della Ricchezza delle nazioni di Smith (il titolo originale, com’è noto, è An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations). L’opera vide la luce nell’anno stesso della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Difficile immaginare il mondo moderno senza uno di questi due avvenimenti. Consiglio al lettore, prima di aprire le pagine della Ricchezza,, un breve détour. Compia una rapida navigazione nella vasta laguna del pensiero mercantilista (magari con la guida del libro di Johnson sui Predecessors of Adam Smith o dei celebri Studi sulla teoria del commercio internazionale di Jakob Viner). Quando, alla fine, arriverà a Smith, sarà preso da quella leggera vertigine, da quella sensazione di irresistibile euforia che si accompagna ad ogni uscita in mare aperto. E l’esordio della teoria dello sviluppo economico, il vero Vangelo del mondo moderno. Smith l’illustra con un formidabile paradosso che era già nell’Early Draft del 1763. Il lavoratore a giornata in Gran Bretagna o in Olanda dice «sostiene sulle proprie spalle l’intero edifizio della società umana», mantiene col suo lavoro tutti gli altri membri della società. Sembra schiacciato a tal punto da una così «opprimente ineguaglianza» che è «tolto dalla vista altrui» e relegato «nelle più profonde fondamenta dell’edificio». Nulla sembra quindi peggiore della sua situazione. Eppure «questo umilissimo e disprezzatissimo membro della società evoluta. è più ricco ecco il paradosso di un principe pellerosa che sia «padrone assoluto della vita e della libertà di un migliaio di selvaggi nudi».

    Più ricco: giacché, ad esempio, «il vestito di lana che ricopre il lavoratore a giornata, per quanto grossolano e ruvido possa apparire», mette di fatto a sua disposizione il frutto del lavoro di una serie infinita di altri lavoratori (l’allevatore, il tosatore, colui che fa la scelta della lana, il pettinatore, il tintore, il cardatore, il filatore, il tessitore e così via enumerando per pagine e pagine), senza i quali quel vestito non sarebbe. La soluzione del paradosso, insomma, è nella accresciuta produttività del lavoro. La divisione del lavoro. La divisione del lavoro moltiplica per mille, per diecimila la produttività. E, così facendo, rende possibile lo sviluppo economico, cioè l’arricchimento, l’incivilimento, l’avanzamento di tutta la società, malgrado l’ineguaglianza e lo sfruttamento per cui chi tira effettivamente per tutti è solo il lavoratore a giornata.

    Non importa che il paradosso sia letteralmente rubato a Mandeville, il quale, a sua volta, lo aveva ripreso dal Secondo Trattato di Locke. Né importa che il discorso sulla divisione del lavoro, compreso il celebre esempio della manifattura degli spilli, sia tolto di peso da William Petty e da Mandeville (come ha mostrato Edwin Cannan). Nelle mani di Smith tutto toma come nuovo perché solo lui, e per la prima volta, è riuscito a trarre da quel paradosso un modello teorico dello sviluppo.

    Gli si rimprovera spesso, soprattutto da parte marxista, l’armonicismo, la teoria della composizione provvidenziale degli interessi, il discorso sulla «mano invisibile» e risanatrice del mercato, onde ciascuno, perseguendo il suo interesse privato, contribuisce a realizzare al tempo stesso (e a sua insaputa) l’interesse della comunità. E, naturalmente, c’è molto di vero.

    Tuttavia, chi non voglia ridurre Smith a Bastiat (lui, sì, teorico delle armonie) farà bene a prendersi il capitolo vi del Libro primo della Ricchezza e ad accompagnarlo, magari, con il commento analitico di Marx nel primo volume delle Teorie sul plusvalore. In poche righe, ne esce sbalzata la spina dorsale della società moderna. «Il valore che gli operai aggiungono ai materiali (vi è detto) si divide in due parti, di cui l’una paga il loro salario e l’altra i profitti dell’imprenditore.» Ne emerge subito una teoria del profitto come «deduzione» o detrazione dal valore creato dal lavoro salariato. Dopodiché, il profitto paga l’interesse a chi ha anticipato il denaro e la rendita al proprietario del terreno su cui sorge l’impresa. In poche battute, dalla grandezza originaria, ch’è il valore prodotto dal lavoro salariato, vengono ricavate le fonti di reddito delle tre classi fondamentali della società: cioè salario, profitto e rendita. Se si pensa che Smith ragiona prima ancora del decollo della rivoluzione industriale e sulla base (come ha mostrato Ronald Meek in Economics and Ideology) delle prime manifatture capitalistiche impiantate a Glasgow nei pochi anni che separano le Lectures on Justice, Police, Revenue and Arms dalla Ricchezza, c’è da restare allibiti dinanzi a tanta maestrìa e a tale classica semplicità.

    Impossibile in questa sede entrare nei meandri della teoria del valore. Smith, com ’è noto, ne ebbe due: quella del lavoro contenuto e quella del lavoro comandato. Fin dal primo capitolo dei Princìpi, Ricardo denunciò senza mezzi termini la contraddizione. La teoria del lavoro comandato obbligava Smith a muoversi in circolo. Lo costringeva a dedurre il valore delle merci dal valore del lavoro. E tuttavia, anche con questo strumento teorico difettoso e imperfetto, Smith riuscì a mettere le mani (come Marx capì molto bene) su un punto nevralgico del meccanismo capitalistico, su una questione che neppure Ricardo riuscì mai a vedere: lo scambio ineguale tra capitale e forza-lavoro.

    Ma dove il genio e il senso storico di Smith rifulgono è nella distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo. Il capitolo terzo del Libro secondo della Ricchezza è un gioiello. Si vede di che pasta era fatta la borghesia che ha messo in piedi il capitalismo. Le industriose città, commerciali e manifatturiere, dell’Inghilterra e dell’Olanda, vengono duramente contrapposte alle città, «oziose e dissolute», dove prosperano le corti feudali: come Roma e Versailles, Compiègne e Fontainebleau. Qui le turbe dei lavoratori improduttivi: «gli ecclesiastici, i legali, gli uomini di lettere di ogni genere, e i commedianti, i buffoni, i musici, i cantanti, i ballerini, ecc.»; là, i sobri borghesi che, impiegando lavoratori a giornata, mettono in moto il meccanismo dello sviluppo economico e, con esso, l’arricchimento e il progresso di tutto il paese.

    L’analisi smithiana non risparmia nessuno. Sono lavoratori improduttivi non solo cortigiani, prostitute e preti, ma lo stesso sovrano (signorsì, il re!) e, con lui, «tutti gli ufficiali civili e militari che servono sotto di lui, tutto l’esercito e tutta la flotta». È la rivendicazione imperiosa della borghesia d’un tempo: che lo Stato funzioni e costi poco. Il tutto culmina in una definizione teorica magistrale e che passerà di peso in Marx: è lavoro produttivo quello che si scambia con capitale, improduttivo quello che si scambia con reddito. La tormentosa monografia, che Marx ha dedicato a questo concetto di lavoro produttivo in Smith nel primo volume delle Teorie sul plusvalore, lascia sperare che un giorno, quando i marxisti si saranno stancati di mungere le zinne esauste del vecchio Hegel, s’accorgeranno che c’è posto per un libro importante su Smith e Marx.

    Rimane tuttora aperta la questione di mettere d’accordo lo Smith economista con il filosofo morale che egli fu. Le ricerche più recenti (si veda su tutte il libro di qualche anno fa di Macfie, The Individuai in Society) hanno profuso tesori di sottigliezza per mostrare che vera differenza non c’è. Tuttavia dubbi e perplessità sussistono ancora. E certo che Smith non fu Hutcheson. Resta però il fatto che, mentre la Teoria dei sentimenti morali enuncia un’etica della simpatia (e, per di più, come ebbe a notare Leslie Stephen, in pagine qua e là anche bolse), la Ricchezza abbonda di analisi, se non crude, realistiche. L’uomo, che ha costantemente «bisogno dell’aiuto dei suoi fratelli» (vi è detto), attenderebbe invano tale aiuto «soltanto dalla loro benevolenza». «Egli avrà maggiori probabilità di ottenerlo se riuscirà a volgere a proprio favore la cura che quelli hanno del proprio interesse e a dimostrare che toma a loro vantaggio fare per lui ciò di cui li richiede.» E Smith aggiunge: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio che ci aspettiamo il pranzo, ma dalla considerazione che essi fanno del proprio interesse. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità, ma al loro interesse e non parliamo mai loro delle nostre necessità, bensì dei loro vantaggi».

    Sarebbe agevole mostrare come queste celebri clausole riprendano ma rovesciandone il segno le formule più calzanti della critica di Rousseau alla «società civile. moderna in quanto società della concorrenza e della lotta sfrenata degli interessi privati tra loro (Smith, del resto, in una lettera del 1755 alla Edinburgh Review aveva segnalato il Discorso sull’ineguaglianza, mettendone in luce proprio questi passi). Senonché è forse da dire che il divario, se non addirittura la dissonanza profonda, che sussiste in Smith tra etica ed economia, era in un certo senso inevitabile. La civiltà borghese infatti è quel divario. L’economia per essa è un mondo irredento. Senza questo che Joan Robinson ha chiamato una sorta di «strabismo morale», quella civiltà non si sarebbe mai costituita. Come vide bene infatti Adam Smith, essa è sì una civiltà dello sviluppo economico e quindi, per questa via, dell’avanzamento di tutti (l’operaio moderno è certamente più ricco del principe pellerossa), ma è anche il che, pure, Smith intuì la civiltà di uno sviluppo da realizzare attraverso la ineguaglianza e lo sfruttamento, considerati come pegni inevitabili del progresso. Da qui il suo strabismo morale. Da qui, ciò che dividerà per sempre liberalismo e democrazia socialista: il problema dell’eguaglianza.

    * I contributi critici di L. Colletti, C. Napoleoni e P. Sylos Labini sono stati pubblicati rispettivamente sul Corriere della Sera, su la Repubblica e su l’Unità in occasione del bicentenario della pubblicazione dell’opera.

    2. CLAUDIO NAPOLEONI

    Esattamente duecento anni fa, nel maggio 1776, si pubblicava la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. L’importanza e la singolarità di quest’opera trovano la loro misura nel fatto che, non appena se ne parla, ci si accorge che, al di là degli intenti celebrativi e storiografici, si viene necessariamente a trattare di questioni, teoriche e pratiche, assoluta attualità.

    Che Smith sia (come si suole dire) il «padre della scienza economica», è stato contestato da molti, non privi certo di autorità in questa materia (valga per tutti il caso di Schumpeter); e tuttavia quel giudizio resta, perché si può dire che non c’è nessuna questione di teoria e di politica economica che, in qualche modo, non sia stata almeno impostata o intravista nella Ricchezza delle nazioni, al punto che tutti gli sviluppi successivi del pensiero economico si trovano, magari allo stato embrionale, compresenti in questo libro straordinario. Il quale, appunto perciò, è un insieme impressionante di contraddizioni, che sono, d’altra parte, proprio la sostanza della grandezza di Smith, perché gli conferiscono questa singolare qualità: di aver visto, proprio all’inizio della riflessione scientifica sul capitalismo, tutte le interpretazioni alternative obbligando, per così dire, il pensiero successivo a effettuare scelte radicali, in una sorta di sfida che si è prolungata fino ai nostri giorni e che probabilmente non s’è ancora esaurita.

    Per cominciare, Smith, già nell’Abbozzo della Ricchezza delle nazioni del 1763, ebbe chiara la struttura di classe della società capitalistica. Alla base di essa, i lavoratori produttivi, che, in conseguenza della divisione del lavoro, accentuata a dismisura dal regime di fabbrica, e quindi dal capitale, sono in grado non solo di provvedere al proprio sostentamento, ma anche alla produzione di un «prodotto netto»; al di sopra di essi, i capitalisti e i proprietari fondiari, i quali, nelle forme del profitto e della rendita, si spartiscono quel prodotto netto. Inoltre, accanto a queste tre classi fondamentali, Smith pone una categoria di «lavoratori improduttivi», costituita da tutti coloro che non sono pagati dal capitale come i lavoratori salariati, ma sono pagati dal reddito di capitalisti e proprietari come fornitori di servizi consumabili, e che sono definiti improduttivi non perché siano inutili, ma perché non producono profitto e quindi non aumentano ma consumano la ricchezza creata dal capitale.

    Ecco come Smith descrive questa categoria: «Il lavoro di alcuni dei più rispettabili ordini della società è, come quello dei domestici, improduttivo di qualsiasi valore... Il sovrano, ad esempio, con tutti gli ufficiali civili e militari che sono a lui sottoposti, tutto l’esercito e tutta la marina, sono lavoratori improduttivi. Essi sono servitori dello Stato e sono mantenuti con una parte della produzione annua dell’attività di altre persone... Nella stessa classe si debbono annoverare tanto alcune delle professioni più gravi e importanti, quanto alcune delle più frivole: da una parte gli ecclesiastici, i legali, i medici, i letterati di ogni specie e dall’altra, i commedianti, i buffoni, i musicisti, i cantanti, i ballerini, ecc.».

    Ora, i redditi di queste classi e categorie si ottengono mediante lo scambio. I lavoratori produttivi, gli operai, producono merci; le merci sono vendute sul mercato dai capitalisti, che ne realizzano così il valore; da questo valore si traggono i salari dei produttori, i profitti e le rendite (e, derivatamente, i redditi dei lavoratori improduttivi). La determinazione del valore è quindi un problema centrale della teoria smithiana (e lo sarà per tutta la teoria economica successiva).

    Ma è proprio su questa questione decisiva che comincia l’ambiguità smithiana. Da un lato, infatti, egli dà un concetto di valore che è perfettamente omogeneo al modo in cui descrive la struttura e i rapporti di classe: il valore è una grandezza originaria, creata dal lavoro produttivo, e ad esso commisurata; salario, profitto e rendita sono parti di questo valore complessivo ad essi presupposto, con la conseguenza che il salario è ciò che rimane al lavoratore una volta che da questo valore complessivo siano stati detratti i redditi del capitalista e del proprietario fondiario; il lavoro, perciò, «sta dietro» il profitto e la rendita, come «sta dietro» il salario.

    Dall’altro lato, Smith-immaginava il valore non come la quantità originaria, che poi si divide in salario, profitto e rendita, ma come la risultante per somma delle tre forme di reddito, ognuna delle quali si determina per legge sua propria indipendentemente dalle altre. Qui non possiamo addentrarci nelle ragioni analitiche di questa oscillazione smithiana. Ma è importante ricordare che le due posizioni di Smith sul problema del valore stanno all’origine di due correnti opposte del pensiero economico: la prima è quella che, attraverso la mediazione di David Ricardo, culmina nella teoria del valore di Marx, dove si rende esplicito il concetto di sfruttamento che essa implica; la seconda è quella propria della teoria economica moderna, che vede «contributi produttivi» specifici dietro ogni forma di reddito, e quindi interpreta la realtà economica non più sulla base dell’opposizione tra le classi, ma sulla base della cooperazione tra gli individui.

    Del resto, anche al di fuori della questione del valore in senso stretto, questo dilemma opposizione-cooperazione attraversa, irrisolto, tutta la Ricchezza delle nazioni. La società mercantile, la società produttrice di merci, è per Smith la grande molla dello sviluppo: in quanto consente la realizzazione dispiegata della divisione del lavoro, essa, ricomponendo mediante lo scambio il lavoro diviso, permette a ciascuno di usufruire dell’alta produttività conseguita da ciascun altro, e promuove quell’incessante aumento della ricchezza, onde «le case, i mobili, gli abiti del ricco in poco tempo diventano utili alle categorie inferiori e medie del popolo».

    Ma questa tesi «ottimistica. diventa per lo stesso Smith problematica ogni volta che si fa in lui più viva la consapevolezza della divisione in classi della società borghese. E ciò non soltanto perché l’idea del profitto come deduzione dal prodotto del lavoro comporta chiaramente una rappresentazione in termini antagonistici del processo distributivo (i capitalisti «si lamentano molto dei cattivi effetti» degli alti salari), ma anche perché, più in generale, gli interessi delle varie classi non sono tutti necessariamente coincidenti con l’interesse generale.

    Nella conclusione del capitolo xi del Libro primo della Ricchezza, Smith, dopo aver ricordato che il prodotto annuo di un paese si divide tra i tre «grandi ordini» della società: coloro che vivono di rendita, coloro che vivono di salario e coloro che vivono di profitto, e dopo aver rilevato che gli interessi dei primi due ordini sono «strettamente connessi all’interesse generale della società», perché rendite e salari sono tanto maggiori quanto più alto è il prodotto sociale, dice: «Il saggio del profitto non cresce con la prosperità e non diminuisce col declino della società, come avviene per la rendita e per i salari. Al contrario, esso è naturalmente basso nei paesi ricchi ed è alto in quelli poveri, ed è sempre massimo, nei paesi che vanno a tutta velocità verso la propria rovina. L’interesse di questo ordine pertanto non ha la stessa connessione con l’interesse generale della società che quello degli altri due ordini».

    E non importa che Smith abbia dato una dimostrazione molto imperfetta di quella che sarebbe divenuta la legge della «caduta tendenziale» del saggio del profitto; certo è che qui comincia ad affiorare l’idea che il capitale ha un ruolo duplice: da un lato è il più formidabile fattore di sviluppo che la stona abbia conosciuto, dall’altro sollecita al proprio interno ostacoli e freni allo sviluppo stesso.

    La stessa categoria del lavoro improduttivo dà luogo, a veder bene, a una contraddizione: è utile, ma è bene, in forza della sua improduttività, che sia ridotto al minimo. E in effetti la storia del capitalismo porrà alternativamente il lavoro improduttivo o come elemento necessario al completamento del mercato o come palla al piede dello sviluppo del capitale.

    Insomma, nel valutare il senso della famosa immagine della «mano invisibile», non bisogna mai dimenticare questa davvero straordinaria consapevolezza che, appena agli inizi della società borghese, Smith ebbe del carattere contraddittorio della produzione capitalistica. Se egli predicava la «mano invisibile», ossia la forza autoregolativa del mercato, ciò, per dirla con Robbins, non era che «un’urgente domanda di rimuovere tutti gli ostacoli reputati imbarazzanti e antisociali, e di lasciare che si sprigionasse l’immenso potenziale della libera e intraprendente iniziativa individuale... contro i privilegi delle compagnie regolate e delle corporazioni, contro la legge dell’apprendistato, contro le restrizioni alla libertà di movimento, contro le limitazioni alle importazioni».

    Ma ciò non implica che egli non vedesse verso quale sistema si andava di opposizioni e di conflitti. E come non ricordare, a questo proposito, che la stessa divisione del lavoro, questa specie di divinità della teoria di Smith, fu da lui giudicata, nella sua natura e nelle sue conseguenze, con una freddezza e una lucidità, che, fuori del marxismo, andarono poi pressocché perdute? C’è un passo famoso, nel capitolo I del Libro quinto, che vale la pena di citare quasi per intero: «Con lo sviluppo della divisione del lavoro, l’occupazione della stragrande maggioranza di coloro che vivono di lavoro, cioè della gran massa del popolo, risulta limitata a poche semplicissime operazioni, spesso una o due. Ma ciò che forma l’intelligenza della maggioranza degli uomini è necessariamente la loro occupazione ordinaria. Un uomo che spende tutta la sua vita compiendo poche semplici operazioni... non ha nessuna occasione di applicare la sua intelligenza o di esercitare la sua inventiva a scoprire nuovi espedienti per superare difficoltà che non incontra mai. Costui perde quindi naturalmente l’abitudine a questa applicazione, e in genere diviene tanto stupido e ignorante quanto può esserlo una creatura umana... La sua destrezza nel suo mestiere specifico sembra in questo modo acquisita a spese delle sue qualità intellettuali, sociali e militari. Ma in ogni società progredita e incivilita, questa è la condizione in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa della popolazione, devono necessariamente cadere a meno che il governo non si prenda cura di impedirlo».

    È dunque vero che Smith è all’origine di ciò che sarebbe poi stato chiamato il «sistema della libertà economica»; ma con questo non si è ancora detto nulla, se non si aggiunge che la liberazione del mercato dalle restrizioni proprie dei sistemi sociali preborghesi è una liberazione di conflitti, dei quali Smith ebbe chiara coscienza. Ed è proprio qui che si vede meglio in qual senso Smith costituisca la matrice delle diverse correnti di pensiero che poi caratterizzarono la scienza economica e la teoria sociale in generale. Giacché, nei confronti di questa realtà contraddittoria e conflittuale, di cui Smith dà la prima grandiosa anche se spesso appena abbozzata rappresentazione, sono possibili almeno tre atteggiamenti, che poi puntualmente si manifestano: un primo atteggiamento consiste nella sottovalutazione delle opposizioni, attribuendole a comportamenti sociali abervanti (e sarà questa la posizione, liberale e liberista, di chi accetterà la seconda delle teorie del valore di Smith); un secondo atteggiamento consiste nell’accettare le opposizioni, ma nel ritenerle riformisticamente componibili mediante l’opera illuminata di governi democratici (e sarà questa la posizione del radicalismo borghese e del riformismo socialista); un terzo atteggiamento consiste nel giudicare le opposizioni come intrinseche e ineliminabili, e anzi come il terreno di lotta per il passaggio a un sistema sociale superiore (e sarà la posizione di Marx).

    C’è un punto dell’interpretazione marxiana di Smith, che qui vogliamo nominare perché introduce bene il discorso su quella ripresa di pensiero economico classico, e quindi anche smithiano, che è stata determinata recentemente dall’opera di Piero Sraffa. Si tratta della critica al concetto del profitto come detrazione dal prodotto del lavoro. Certamente questo concetto è all’orìgine della categorìa marxiana del plusvalore; tuttavia, per condurre al plusvalore di Marx, la «detrazione» di Smith dev’essere liberata da un’ambiguità. Se si definisce il profitto come detrazione, dice Marx, si implica che il lavoro debba «avere propriamente come salario il suo stesso prodotto, e il salario essere eguale al prodotto, ossia il lavoro non essere lavoro salariato e il capitale non essere capitale».

    In altri termini, per Smith, continua Marx, «il solo ad avere una giustificazione economica è propriamente il salario, perché è elemento necessario dei costi di produzione. Profitto e rendita sono soltanto detrazioni dal salario, arbitrariamente estorte nel processo storico del capitale e della proprietà fondiaria, e legalmente, non economicamente giustificate».

    Questa crìtica (che sta poi alla base della crìtica marxista al socialismo utopistico con la sua pretesa che il salario corrisponda al «prodotto integrale» del lavoro) implica un giudizio preciso, e cioè che Smith, nel considerare «il lavoro come creatore di valore», intende il lavoro stesso come lavoro naturale, ossia «come valore d’uso, come produttività per sé stante, capacità naturale umana in generale», e non come lavoro nella sua determinatezza storica specifica, cioè come lavoro reso astratto dalla sua separazione dal lavoratore, e la cui «produttività. non è altro che la sua assunzione nel capitale, nel quale si trovano incorporate la scienza e l’organizzazione.

    Il punto è evidentemente decisivo, sia sul terreno teorico sia sul terreno politico. Se le cose stanno al modo di Smith, la questione dell’emancipazione del lavoro è tutta spostata sul terreno giurìdico di una diversa proprietà dei mezzi di produzione; se le cose stanno al modo di Marx, la questione è molto più radicale, e riguarda la riappropriazione da parte del lavoro delle qualità umane da cui esso è separato nelle condizioni di lavoro salariato. La decisione tra l’una e l’altra di queste due alternative dipende dal modo in cui si concepisce il fatto stesso da cui la scienza economica comincia, cioè lo scambio.

    Per Smith lo

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