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Cercasi Anticristo
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E-book385 pagine5 ore

Cercasi Anticristo

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Fantasy - romanzo (311 pagine) - Una neonata con una voglia rossa su un palmo viene rapita da una strana ragazza. Trentatré anni dopo, una ragazza del tutto identica alla prima viene sospettata di aver rapito un’altra neonata con una voglia rossa su un palmo. In entrambi i casi, al posto della bambina viene lasciato un rospo. Che cosa sta succedendo?


1985. A Milano viene rapita una neonata. La sequestratrice riconsegna al fratellino la bimba, ma con il collo spezzato. Il ragazzino ha l’impressione che la donna misteriosa sia in grado di trasformarsi in una gatta nera.

2018. Sempre a Milano, un’altra neonata viene sottratta alla madre tossicodipendente, mentre questa si trova nel bosco di Rogoredo (il cosiddetto “bosco della droga”, perché covo di spacciatori e drogati).

I detective di una scalcinata agenzia investigativa vengono ingaggiati per ritrovare la neonata scomparsa a Rogoredo. I detective cominciano le loro indagini presso il bosco della droga, dove si imbattono in una ragazza che sembra la perfetta sosia della rapitrice di trentatré anni prima. La giovane nega di essere coinvolta nel misfatto, e uno degli investigatori, Beppe Mascaretti, donnaiolo impenitente (benché sposato e con prole), comincia a frequentarla. Tipa stramba, costei gli confessa tra il serio e il faceto di essere una strega, e di riuscire a viaggiare nel tempo a cavallo di una scopa.

La faccenda si complica quando lo stesso Mascaretti si vede sottrarre la figlia, anche lei con voglia rossa sul palmo. La cosa stupefacente è che la piccola viene ghermita in piena notte, mentre tutti dormono. La porta e le finestre risultano perfettamente chiuse dall’interno, e non risulta esserci nessuna impronta lasciata da estranei. Peraltro, non solo la bimba è scomparsa, ma anche la gatta nera che era entrata il giorno prima nella casa del detective, e che questi aveva deciso di adottare.


Andrea Brando è nato a Milano il 25 giugno 1973. È avvocato civilista. Ha pubblicato un romanzo giallo (A che ora cenano i cannibali?, Todaro, 2013), un romanzo e un lungo racconto gotici (Per il sabba sempre dritto, 2015; La cura del diavolo, Todaro, 2018), un romanzo horror (Angela Merkel contro i morti viventi, Apollo, 2019).

LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2021
ISBN9788825414752
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    Anteprima del libro

    Cercasi Anticristo - Andrea Brando

    2019).

    Antefatto – 25 aprile/1° maggio 1985

    Luca Mairaghi era incazzato con il mondo intero, ma soprattutto con sé stesso. Aveva i suoi motivi. Non era mai stato contento di essere figlio unico, e ora che, alla non più tenera età di dodici anni, aveva finalmente avuto la sorellina che tanto desiderava, se l’era lasciata portare via da una stronza.

    Fino quel momento, non aveva avuto grossi problemi nella sua vita. Senza essere un secchione, se la cavava egregiamente a scuola e aveva un buon rapporto sia con i prof sia con i compagni. Sì, questi ultimi lo prendevano un po’ per il culo perché era sovrappeso, ma in fondo erano tutti scherzi bonari. Due giorni prima che succedesse il fattaccio, il 23 aprile, era stato il suo compleanno e aveva avuto in regalo, tra le altre cose, un paio di Timberland, una cintura del Charro, una felpa Best Company e Mixing, un EP dei Duran Duran uscito solo sul mercato italiano. Adesso sì che era un vero paninaro. Chi più felice di lui? Ma per la legge di Murphy, quando tutto ti va a gonfie vele, rilassati, non durerà.

    La sua felicità finì per sempre quello stramaledetto 25 aprile del 1985. I suoi genitori, classici comunisti borghesi con tanto di casa al mare, come sempre avevano voluto partecipare al corteo milanese per celebrare la Resistenza e, come sempre, con loro c’era anche lui. Se avesse potuto, si sarebbe sottratto, perché la cosa gli rompeva un po’ le palle, ma i suoi ci tenevano tantissimo che lui imparasse da subito i valori dell’antifascismo. Salvo quaranta di febbre, una sua defezione non era ammessa. Quell’anno poi c’era una new entry, Giulia, la sua sorellina di appena tre mesi. Lei la Resistenza la faceva dal suo passeggino, armata di ciuccio e biberon, ma si sa che ogni partigiano combatte con quello che può.

    A scuola, Luca aveva appreso da alcuni ragazzi più grandi una nota massima: "life is a bitch and then you die". La vita è una puttana e alla fine muori.

    Quanto fosse una puttana la sua vita lui lo capì proprio quel 25 aprile. Il corteo era ormai arrivato in piazza San Babila, quando i suoi genitori scorsero dei conoscenti poco più avanti e, per raggiungerli alla svelta senza essere intralciati dal passeggino, lo lasciarono solo con Giulia. Pochi attimi e gli si avvicinò una ragazzina (sfitinzia, secondo il gergo paninaro) con una grossa sacca di tela a tracolla. Era giovanissima e non era neanche tanto alta, ma a lui che era un pischello dodicenne sembrava già grande. Mora di capelli, scura di carnagione, carina di viso e ben fatta, indossava una maglia marroncina, una lunga sottana dello stesso colore ma un po’ più chiara e sopra la maglia un corpetto nero. I suoi abiti erano sdruciti, lisi e neppure pulitissimi, le sue scarpe erano logore. Lui immaginò che fosse una specie di hippy oppure una zingara. Non che la cosa lo meravigliasse granché, c’era sempre gente alternativa che partecipava al corteo. Semmai erano i paninari che latitavano.

    La tipa si chinò subito verso la sorella del ragazzino, appoggiando l’enorme sacca a terra. – Ma che bella creatura – esclamò entusiasta, mentre l’accarezzava. Nel piegarsi, corpetto e maglia le si erano un po’ staccati dal corpo e, siccome non portava reggiseno, poté intravederle le tette, una terza abbondante o forse anche una quarta. Poi lei rialzò la testa e lo guardò con quei suoi occhi verdi, sorridendo maliziosa, come se lo avesse colto in fallo. Luca arrossì violentemente. – E tu chi sei? Il fratellino suo? – gli chiese.

    Lui si limitò ad annuire, mentre era in preda a una tempesta ormonale. Notò tuttavia che un tipo si era avvicinato, piazzandosi a pochi passi da loro. Era piuttosto anziano, vestito di stracci, con le guance non rasate. Di sicuro era un barbone. Perché li stava fissando?

    Il barbone però gli uscì subito di mente, quando la ragazza si sporse verso di lui consentendogli nuovamente di dare un’occhiata al suo davanzale. Con una mano gli fece un ganascino su una guancia. – Ma quanta bella ciccia che tieni – disse lei ridacchiando.

    – Sì, ma mi sono messo a dieta – sentì il bisogno di giustificarsi.

    – Che ti sei messo?

    – A dieta. Sto cercando di mangiare meno.

    – Ma che, sei fesso? Quando ci sta da mangiare, bisogna mangiare. Non si sa mai che poi magari non ce ne sta più. Vabbuò, fatti dare un bacino, va, che me ne vado.

    A quel punto la tipa fece una cosa incredibile. Lo abbracciò, con le tette che premevano contro il suo petto e i suoi lunghi capelli corvini che gli sfioravano il viso, e lo baciò sulla bocca. Era la prima volta che una ragazza lo baciava sulla bocca, si sentiva eccitato e imbarazzatissimo. Avvertì la lingua di lei che cercava la sua, ma il tutto durò solo qualche istante, perché si staccò da lui quasi subito.

    – Statti buono – gli disse, facendogli un cenno di saluto con la mano e rimettendosi a tracolla la sacca, che aveva l’aria di essere molto più pesante di prima.

    In un attimo scomparve tra la folla, lasciandolo completamente inebetito. Gli sembrava impossibile che una cosa del genere fosse successa proprio a lui. Se l’avesse raccontato a scuola, nessuno gli avrebbe creduto. Forse però il barbone avrebbe potuto confermare, aveva visto tutto… Ma no, si era dileguato anche quello.

    Cominciò subito a rimproverarsi. Un vero cucador, un gallo di Dio, avrebbe fiocinato la sfitinzia chiedendole come si chiamava e dove avrebbe potuto rivederla. Lui invece era stato una frana, proprio il classico ginetto. Però, tentava di consolarsi, a parte il fatto che era vestita di merda, l’accento era inconfondibile. Napoletana o giù di lì, comunque terrona. Suo padre gli aveva sempre ripetuto che le donne del sud, appena fanno un po’ di figli, diventano delle chiattone inguardabili. Sì, ma in quel momento non era affatto inguardabile, anzi, era una da doppia o tripla libidine.

    Quando tornarono i suoi genitori era ancora immerso in quei tormentosi pensieri e aveva la faccia sconvolta.

    – Cos’è? Sei fuori di cotenna? – gli chiese subito la mamma. A lei piaceva usare ogni tanto il linguaggio dei paninari, le sembrava buffo.

    – È apparsa anche a te la Madonna? Come a quei cretini che vanno a Medjugorje? – commentò divertito il papà.

    Luca Mairaghi non sapeva se la Madonna avesse le tette così sode. E in ogni caso non credeva le strusciasse contro quelli cui appariva e li baciasse sulla bocca.

    – Almeno, hai fatto buona guardia a Giulia? – gli domandò la mamma, mentre si chinava verso il passeggino. Un istante dopo lanciò un urlo di disgusto. – Oddio, che schifo!

    – Che succede? – si informò suo padre.

    – Quella cosa schifosa… lì… – rispose sua madre indicando con la mano. Anche Luca guardò. Nel passeggino, al posto di sua sorella, c’era un rospo. – Leva subito quella cosa schifosa, potrebbe mordere Giulia! – fu l’ordine che la mamma diede al papà. – Ma… dov’è Giulia?

    Già. Dov’era finita?

    Suo padre non proferì verbo. Aveva solo un grosso punto interrogativo stampato in faccia.

    – Luca – gli domandò la mamma con voce tremante – dov’è Giulia?

    – Non lo so.

    – Come non lo sai?

    – Non lo so. Fino a un attimo fa era qua…

    – E poi? Ma cavolo, vi abbiamo lasciati soli appena un minuto!

    – Ha solo tre mesi, non cammina e nemmeno gattona, eppure nel suo passeggino non c’è – osservò il papà, con il volto sbiancato.

    La mamma si mise a chiedere freneticamente ai passanti se per caso avessero visto sua figlia, una neonata. Quelli per lo più si limitavano a squadrarla come se fosse una pazza.

    Cosa stava succedendo? Nell’arco di qualche minuto si erano verificati due eventi assurdi. Prima la tipa che lo baciava, poi Giulia che spariva nel nulla.

    – Ma tu proprio non hai visto niente? – gli domandò il padre, che stava facendo del suo meglio per mantenere la calma, mentre la madre era già fuori dalla grazia di Dio. – Tua sorella non può essersene andata da sola. Forse qualcuno, per sbaglio, l’ha caricata sul suo passeggino. Non si è avvicinato nessuno, mentre noi non c’eravamo?

    Quelle parole gli fornirono finalmente la soluzione del mistero. – Ma sì, certo, è stata lei! – esclamò.

    – Lei chi?

    – Una ragazza. E c’era anche un barbone. Mentre lei mi bac… cioè, mentre lei mi salutava, il barbone avrà messo Giulia in quella sacca gigantesca che aveva la ragazza.

    Naturalmente Luca Mairaghi fornì alla polizia l’identikit dei rapitori di sua sorella. Bisogna dire che il poliziotto disegnatore, senza avere a disposizione i software che ci sono adesso, fece davvero un buon lavoro. I ritratti che ne vennero fuori erano molto somiglianti. Luca pensava che, se oltre al volto di lei, avesse disegnato anche le tette, avrebbe reso ancor più l’idea.

    Il tizio lo identificarono subito. Era un senzatetto, un mendicante alcolizzato che andava sempre a dormire in una struttura della Caritas. Da quel 25 aprile, però, nessuno lo aveva più visto. Fu ritrovato al parco Lambro da un vecchietto che stava portando a spasso il cane, nella prima mattina del 28 aprile. Il mendicante aveva la gola squarciata ed era morto da più di due giorni.

    Probabilmente, se non ci fosse stato il rospo di mezzo, il rapimento della piccola Giulia non avrebbe avuto la risonanza che in effetti ebbe. Quel batrace riuscì ad accendere la fantasia popolare. Lo prese in consegna la polizia, per farne cosa non era chiaro. Magari pensavano che prima o poi si sarebbe trasformato in un principe e avrebbe rivelato nome, cognome e codice fiscale della colpevole, che era stata subito ribattezzata dai giornali e dalla televisione la strega. Questo perché, secondo la tradizione, le streghe rapivano i neonati e mettevano un rospo nella culla al loro posto.

    L’ipotesi più accreditata era comunque che si trattasse di una zingara. La perquisizione dei carrozzoni e degli alloggiamenti dei nomadi della zona non diede tuttavia risultati.

    Nessuno, in quei pochi giorni tra il 25 aprile e il 1° maggio, si fece vivo per chiedere alla famiglia Mairaghi un riscatto. – È presto – assicuravano gli investigatori.

    In compenso, vi furono parecchie segnalazioni alla polizia da parte di persone che ritenevano di avere avvistato la strega. Chi l’aveva vista davanti a una scuola a tentare di adescare i bambini, chi l’aveva incontrata in compagnia della bimba rapita in metropolitana, chi l’aveva notata camminare da sola, i capelli scarmigliati, intenta a guardarsi attorno come alla ricerca di qualcosa. E gli avvistamenti non si erano verificati solo a Milano, ma anche a Roma, Pisa, Napoli e soprattutto Torino. C’era chi giurava che la rapitrice faceva parte di un’oscura setta operante nel capoluogo piemontese, città magica ed esoterica per eccellenza.

    Nessuna delle segnalazioni si rivelò fondata.

    Intanto la madre di Luca, che era anche andata in tv per rivolgere uno straziante appello alla sequestratrice e ai suoi eventuali complici, non aveva più chiuso occhio, mentre il padre si imbottiva di tranquillanti. Quanto a Luca, era divorato dai sensi di colpa. Ogni oggetto appartenuto alla sorella, dal biberon al ciuccio, ai pannolini, alle tutine, era come se gli lanciasse un atto di accusa. «È colpa tua, è tutta colpa tua, se tua sorella è stata rapita. Sono bastate un paio di moine per non farti capire più niente».

    A scuola Luca non c’era più andato, era troppo sconvolto. Non avrebbe neanche più voluto tornarci. Con che faccia si sarebbe ripresentato davanti ai suoi compagni? Sarebbe diventato lo zimbello di tutti. Altro che gallo di Dio, nessuno era più gino di lui.

    Quel 1° maggio, sei giorni dopo il rapimento di Giulia, Luca si alzò abbastanza presto per essere un giorno di festa, erano circa le otto. La preoccupazione per la sorte di sua sorella non gli consentiva di dormire bene.

    Dopo la colazione, decise di fare quattro passi. La madre cercò di impedirglielo; ormai pensava che ci fossero rapitori di bambini a ogni angolo di strada. Intervenne il padre in sua difesa: – È grande, ormai, ed è pieno giorno. Cosa vuoi che gli capiti?

    Alla fine la mamma si lasciò convincere. – Sì, ma stai qui nei pressi – lo ammonì.

    Faceva un po’ troppo caldo per mettersi il Moncler senza maniche, così Luca uscì solo con la felpa. Constatò che, per la prima volta da giorni, non c’erano fotoreporter appostati fuori. Meglio così. Intuiva che l’interesse dei media da un lato era un bene, perché diffondendo i connotati della colpevole, ne rendeva più probabile la cattura; dall’altro era un male, perché i giornalisti tendevano a diventare asfissianti.

    Lui abitava in via Padova, che non era ancora la via multietnica di oggi. Non aveva una meta precisa, ma senza neanche accorgersi si incamminò verso il parco Trotter. Forse si stava dirigendo proprio lì perché era il luogo dove sua madre si recava più spesso con Giulia nel passeggino.

    Il parco era semideserto. Si fermò poco prima della fattoria didattica, una piccola azienda agricola urbana dove i visitatori, grandi e piccini, potevano ammirare piante e animali (polli, conigli, anatre, pesci, gatti), e ricevere interessanti informazioni sulle tecniche di coltivazione e di allevamento. In quel momento, però, la fattoria era chiusa. Si guardò attorno. Non c’era nessuno nelle sue vicinanze, a parte una coppia di pensionati che davano le briciole ai piccioni. Sua mamma non li chiamava così. Li chiamava schifosi ratti con le ali che insozzano Milano. A lui i piccioni invece non stavano né simpatici né antipatici. Bastava che non gli cagassero sul Moncler.

    Si sedette su una panchina all’ombra, in preda ai pensieri più cupi. I gomiti appoggiati alle cosce, le mani sulle tempie, si mise a fissare la punta delle Timberland. Come poteva andare avanti in quella maniera? Se Giulia non fosse stata ritrovata alla svelta, si sarebbe ammazzato. Avrebbe naturalmente lasciato un biglietto ai suoi genitori, scusandosi con loro per tutte le stronzate che aveva combinato nella sua vita e, in particolare, per non essere stato in grado di badare a Giulia. Chissà che fine aveva fatto, quella povera stella.

    – Ti ritorno la sorellina tua.

    Alzò la testa. Sorridente davanti a lui, con un fagottino in braccio, la sacca a tracolla e sciamannata come la volta precedente, c’era la rapitrice. Sì, non c’erano dubbi, era lei. Ed era proprio la sua sorellina, quella che gli stava porgendo. Giulia sembrava dormire placida. Ma quella criminale mica poteva passarla liscia! L’avrebbe fatta arrestare, chiamando in aiuto i due pensionati, ma… non c’erano più. In quel momento, a portata d’occhio c’erano solo lui e la strega, più qualche piccione che beccava le briciole residue.

    – L’ho pigliata con me per qualche giorno perché ci stava da fare una cosa importante assai – gli spiegò quell’impunita con tutta calma, come se il crimine che aveva commesso fosse stata l’azione più innocente del mondo. Si sedette accanto a lui sulla panchina. Afferrò con delicatezza una delle manine di Giulia, per mostrargliene il palmo. – Vedi qua? Tiene una voglia rossa, proprio come la tengo io. – Gli esibì la mano. – Questo è un segno – proseguì. – Un segno del diavolo.

    – Mica crederai a queste cazzate? – Era sinceramente stupito, essendo cresciuto in una famiglia rigorosamente atea, che bollava la religione come una forma di superstizione. Doveva però tenere presente che quella era una terrona, veniva da luoghi in cui credevano ancora al sangue di san Gennaro e idiozie simili.

    La ragazza lo fissò. – Senti a me, guaglio’ – disse inarcando le sopracciglia. – Quando una femmina tiene un segno come a me o come alla sorella tua, vuol dire che è predestinata. Quando il diavolo se la piglia, diventa una janara.

    – Eh? Cosa diventa?

    – Una strega. Dalle parti mie si dice janara. E la creatura già lo è, perché abbiamo fatto l’iniziazione. – Indicò una palpebra della neonata. C’era una piccola ferita, nulla di preoccupante. – Vedi? Quella l’ha fatta il diavolo, col corno suo. È stato ieri, che era Calendimaggio, una delle notti più belle per diventare janare.

    Luca guardò intensamente la tipa negli occhi. La sua sensazione era netta. Quella non stava scherzando, era convinta davvero delle pirlate che gli stava raccontando. Facile che si fosse montata la testa nel sentire la televisione. Con tutto quell’insistere sul fatto che la rapitrice aveva agito come una strega, doveva essersi persuasa di esserlo davvero. Era senz’altro pazza.

    – Mo’ non può ancora usare i poteri suoi, perché è piccirilla, ma quando diventa grande… – La ragazza si interruppe. – E vabbuò, tu sei come San Tommaso, non ci credi se non ci sbatti il naso.

    Non solo era pazza, ma con ogni probabilità era anche pericolosa. Finché fosse stato solo con lei, avrebbe fatto meglio ad assecondarla; poi, non appena fosse comparso qualcuno, si sarebbe messo a urlare e l’avrebbe fatta arrestare. – No, no – si affrettò pertanto a dire – adesso ho capito. Giulia è diventata una strega, una streghina. Eh sì, ma si vede, ha proprio la tipica aria da strega…

    La rapitrice lo interruppe, sorridendo divertita. – Tu mi vuoi coglionare, ma io non sono fessa. Lo so che non ci credi. E allora ti faccio vedere. Mo’ mi spalmo un unguento e mi trasformo in un gatto. – Si alzò dalla panchina e si sfilò il corpetto. Stava per sfilarsi anche la maglia, ma si bloccò, con grande delusione di lui. – Uhm… no, qua no. Se viene qualcuno, mi vede nuda. Meglio là. – Così dicendo, andò dietro una folta siepe, che delimitava su tre lati un piccolo spazio per i cani. Il quarto lato era costituito da un muro, quindi la ragazza era senz’altro al riparo da sguardi indiscreti.

    Da una parte il piccolo Mairaghi aveva la tentazione di prendere sua sorella e scappare via, dall’altra era curioso di restare a vedere cosa la mentecatta avrebbe combinato. Peraltro, se lui fosse fuggito, anche la rapitrice se ne sarebbe andata e non sarebbe più stata ripescata; invece quella disgraziata meritava di pagare per ciò che aveva fatto. Ma soprattutto, se lui non fosse rimasto lì, non l’avrebbe mai vista biotta.

    L’unica parte che spuntava di lei era la testa, il resto era nascosto dalla siepe. Maglia e gonna erano già state abbandonate sulla sommità della barriera vegetale, insieme al corpetto. Oltre che il reggiseno, non doveva portare nemmeno le mutandine, perché lui non le vedeva. Certo, c’era anche l’eventualità che non se le fosse tolte, ma Luca preferiva pensare che non le indossasse proprio.

    Quell’inaspettato striptease lo stava facendo uscire di testa. Sentiva il pisello che gli premeva contro la patta dei pantaloni come se avesse voluto uscirne, era un’esperienza che non aveva mai provato prima.

    – Quasi finito di spalmare, eh, mo’ esco fuori – gli annunciò con voce allegra la sfitinzia. Sì, in quel momento per lui era tornata a essere una sfitinzia, non era più la rapitrice o la strega.

    Quello fu per Luca il colpo di grazia. All’idea che fra qualche istante se la sarebbe ritrovata davanti completamente nuda, gli esplose qualcosa. Avvertì una sensazione di calore e di estremo piacere all’inguine e subito dopo un’impressione di bagnato, come se si fosse pisciato addosso. Si guardò la patta. Si stava già inumidendo. Cazzo, che figura! Si era pisciato addosso come un bambino, sporcando i suoi Levi’s troppo giusti. Non sapeva che quella che riteneva pipì era in realtà il suo sperma. Era la prima volta in assoluto che eiaculava, non poteva saperlo.

    Adesso non voleva più vedere la sfitinzia nuda, la sua eccitazione era venuta meno. Voleva solo andarsene alla svelta. Tirò giù la felpa più che poteva, in modo da coprire la patta, pregando in cuor suo che la ragazza non si fosse accorta dell’incidente. Non vedeva più la testa di lei, ma in compenso da dietro la siepe sbucò un gatto nero. Il micio lo raggiunse, si rizzò e, con una delle zampine anteriori, andò a toccargli proprio l’inguine bagnato. Fece per dargli un calcio, ma quello fu più rapido: si rimise fulmineamente a quattro zampe e balzò all’indietro.

    E la sfitinzia che fine aveva fatto? Perché non usciva? Sollevandosi sulle punte dei piedi, Luca sbirciò dietro la siepe. Non c’era nessuno. Dov’era sparita? Se se ne fosse andata, l’avrebbe notata, perché aveva sempre avuto lo sguardo fisso davanti a sé, salvo che per quei pochi attimi durante i quali si era controllato la patta. D’altronde, non c’erano altri nascondigli lì vicino e i vestiti di lei erano ancora dove li aveva lasciati. Possibile che se ne stesse andando in giro nuda?

    Il felino restò a fissarlo ancora qualche istante, miagolando flebilmente, quindi corse a ripararsi dietro la siepe. Qualche istante dopo, spuntò la faccia sorridente della ragazza. Lui si sollevò di nuovo sulle punte per guardare. C’era solo la sfitinzia, nuda e con la pelle un po’ oleosa, come se si fosse messa della crema abbronzante. Del gatto invece nessuna traccia.

    – Contento? – gli chiese. Non pareva per nulla imbarazzata di mostrarsi senza vestiti. Probabilmente non lo calcolava neppure.

    Lui annuì deglutendo. Era a tal punto impressionato da quello che riteneva un prodigio, da non badare nemmeno al fatto che, per la prima volta nella sua vita, era in presenza di una donna senza veli.

    La ragazza si rivestì velocemente e tornò a sedersi sulla panchina. – Pure la sorella tua, fra qualche anno, potrà fare lo stesso – gli assicurò. – E pure tante altre cose. E fra trentatré anni, vedrai.

    – Ma… ma… – balbettò Luca – tu prima mi hai parlato del diavolo. Una strega non è tanto una brava persona.

    Lei scrollò le spalle con noncuranza. – Embè? A te comunque non farà niente di male, perché sei il fratello suo.

    – Ma agli altri sì?

    La ragazza allargò le braccia. – E che ci vuoi fare? Qualcuno che se lo piglia in quel posto ci sta sempre.

    – Sei stata tu, vero, a uccidere quel mendicante? Quello che ti ha aiutato a rapire mia sorella?

    – Ma va! A quello gli ho dato una bottiglia di vino e tanti saluti. – Si alzò in piedi. – Me ne vado. Ma fra trentatré anni torno, perché tengo una cosa da fare con la sorella tua.

    Lui non aveva il coraggio di chiederle cosa avrebbe dovuto combinare insieme a Giulia. Immaginava che sarebbe stato qualcosa di poco bello.

    Questa volta la strega – ormai era così che lui la vedeva – non lo baciò. Semplicemente lo salutò e se ne andò. Luca notò che aveva preso via Padova in direzione piazzale Loreto, ma era così sconvolto per quanto era appena accaduto che non si preoccupò di inseguirla per farla arrestare.

    Fissò la sorellina, che aveva sempre gli occhi chiusi, immobile nel suo fagottino abbandonato sulla panchina. Gli sembrava impossibile che sarebbe diventata una strega. Ma in realtà una strega lo era già, stando a quanto aveva detto la ragazza, solo che non era ancora in grado di usare i suoi poteri. Pensò che una sorella così non la voleva. Sarebbe stato spaventoso avere in casa un essere del genere.

    E allora? Quale poteva essere la soluzione? Prese in braccio Giulia. Non muoveva un muscolo; evidentemente continuava a dormire, nulla pareva scalfirla. Non sapeva nemmeno lui cosa voleva fare. La scrollò per svegliarla. Niente. Le diede una scrollata ancora più violenta. Nulla. Provò a darle uno schiaffetto. Di nuovo nessun risultato.

    Anche se non faceva freddo, si sentì rabbrividire. Ebbe il presentimento che stesse accadendo qualcosa di brutto. Appoggiò l’orecchio al petto di Giulia. Non sentiva il cuore battere.

    Con la neonata in braccio si mise a correre più veloce che poteva, nella direzione in cui aveva visto incamminarsi la ragazza misteriosa. Lei era una strega, avrebbe ben saputo come salvare sua sorella. D’altronde, aveva detto che fra trentatré anni ne avrebbe avuto bisogno, perciò era anche nel suo interesse che Giulia stesse bene.

    – Avete visto una ragazza mora, capelli lunghi, borsa a tracolla…? – chiedeva ai passanti che incrociava, mentre correva trafelato.

    Un paio gli risposero che non ci avevano fatto caso. E sì che il suo identikit era stato diffuso da tutte le televisioni. Come avevano potuto non notarla, cazzo? E a pensarci bene, com’era stato possibile che tutte le segnalazioni dei giorni precedenti fossero state farlocche? Ma adesso non era il momento di menarsela su quegli enigmi, adesso era il momento di correre. Finalmente un tizio gli disse che sì, aveva visto una ragazza che rispondeva alla descrizione. – L’ho vista svoltare alla seconda a destra, neanche un minuto fa. Se corri, la raggiungi di sicuro.

    Lui nemmeno lo ringraziò e riprese a galoppare, con il cuore che già gli scoppiava (era ben poco atletico). Aveva percorso appena una ventina di metri, quando una macchina della polizia si accostò al marciapiede. Ce l’aveva proprio con lui.

    – Ehi, ragazzo, tutto bene? – gli chiese il poliziotto all’interno, dopo aver tirato giù il finestrino. Era l’ispettore Adriano Cazzaniga.

    – No, niente va bene – rispose lui con voce affannata. – Mia sorella sta male, anzi, è morta, e c’è solo una persona che può salvarla.

    L’uomo, un tizio sulla quarantina dall’aria simpatica, smontò dall’auto e si fece consegnare il fagottino. – Ma no, non è morta! Sento che respira. Comunque, chiamo subito un’ambulanza – concluse.

    – Lei deve acchiappare la rapitrice! Ha svoltato a destra, poco fa.

    – Rapitrice?

    – Sì, questa è Giulia Mairaghi, la bimba rapita, e io sono suo fratello!

    – Oh signur! – Il poliziotto fermò il primo passante che gli capitò a tiro e gli chiese di badare ai due bambini. Saltò in macchina e ripartì sgommando, azionando la sirena e il lampeggiante.

    Cazzaniga non sperava troppo di trovare la criminale, perché già nei giorni precedenti c’erano state molte segnalazioni, ma nessuna veritiera. E quel fiulèt non era mica tanto credibile. Tuttavia, pensò che era in ogni caso più prudente compiere un accertamento.

    Girò a destra e svoltò a sirene spiegate in via dei Transiti. Lì c’era davvero una ragazza mora che stava camminando tranquilla, come se fosse stata la persona più onesta del mondo. La ragazza era di spalle e poteva vederle solo il busto, perché le gambe di lei rimanevano nascoste dai veicoli parcheggiati, ma l’ispettore subito pensò di aver trovato quello che cercava, perché la corporatura e il vestiario corrispondevano alla descrizione.

    Abbassò il finestrino, intimandole di fermarsi. Quella però si mise a correre e svoltò in via Guinizzelli. La raggiunse e finalmente la vide in faccia. Era proprio lei, la sospettata del rapimento.

    Scese dalla macchina e le ribadì di fermarsi, ma quella gli fece la linguaccia e continuò imperterrita a correre.

    Giunta davanti al muretto dell’istituto Milano, una scuola superiore, lo scavalcò con sorprendente agilità. Il commissario la imitò, anche se risultò un po’ più goffo. Entrambi si ritrovarono così nel cortile della scuola.

    Eccola lì, la tusèta. Si era nascosta dietro un angolo dell’edificio, riparata alla vista della gente in strada. Stava strofinando con della roba unta una scopa che aveva trovato in cortile. Cazzaniga si pose di fronte a lei.

    – Sei tu che hai appena consegnato una neonata a un ragazzino?

    Lei sollevò la testa dalla scopa, pur continuando a ungerla, e gli sorrise. – Sì.

    – E sei stata tu a rapirla?

    – L’ho pigliata per qualche giorno…

    – E il tuo complice? Quello che ti ha aiutato a rapirla? Sei stata tu a ucciderlo?

    – Sì, e gli ho pure fatto un favore, perché stava messo proprio male.

    – Dunque sei rea confessa.

    – No, sono Apollonia.

    – Non fare tanto la spiritosa, che non ti conviene. Rischi di passare un bel po’ di anni in galera. E adesso, alza le mani. Ti dichiaro in arresto per il rapimento della neonata Giulia Mairaghi e per l’omicidio volontario del tuo complice nel rapimento. Hai il diritto di…

    Le parole gli si strozzarono in gola perché rimase a bocca aperta a guardare lo spettacolo. La tusèta non aveva alzato le mani, ma in compenso aveva alzato tutta sé stessa. Era montata a cavalcioni sulla scopa e si era sollevata in aria.

    Lui pensò che se lo avesse raccontato, nessuno gli avrebbe mai creduto. Se si fosse sollevata un altro po’, avrebbero potuto vederla anche in strada, o negli edifici lì attorno, ma così no. Era troppo in basso. Da una parte la copriva la scuola, dall’altra l’alto muro posteriore e laterale.

    – Come hai fatto? – le chiese.

    – A pigliare la creatura?

    – No, a… fare questo. Dov’è il trucco?

    – È l’unguento. L’ho spalmata con l’unguento.

    Il poliziotto allungò un braccio per toccare il manico di legno. Era tutto unto e viscido, ma alla fin fine era un normalissimo manico di legno. Si chinò e avanzò di un passo in modo da trovarsi proprio sotto la ragazza. Non c’era niente che la tenesse su.

    – Ehi, ma che fai là sotto? Stai a guardarmi il culo? – La ragazza scoppiò a ridere e gli sfiorò la testa con le sue scarpacce scalcagnate.

    L’ispettore allora si scostò, si riavviò i capelli che la malnata gli aveva arruffato e si rimise di fronte a lei. – Chi sei? – le domandò.

    – Apollonia, te l’ho già detto.

    – Sì, ma… intendo dire… sei davvero una strega?

    – Dalle parti mie si dice janara.

    – Quindi sei una serva di Satana.

    – Di Asmodeo, se ti importa saperlo. Asmodeo è…

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