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Somiglianze
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E-book499 pagine7 ore

Somiglianze

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Info su questo ebook

L’autrice tratteggia una storia intricata familiare vessata dalle separazioni e dal rancore, da silenzi e da un vuoto riempito di dubbi e paranoie. Molti sono i risvolti psicologici, infatti, l’analisi è soprattutto ricamata sulle emozioni dei suoi personaggi, in particolare da quella di Veronica e di sua figlia Maria Luce, attorno alle quali si stringono i restanti componenti con altrettanti e ben definiti ruoli-cardine e compiti esistenziali. Colpi di scena e inaspettati risvolti tengono con il fiato sospeso… L’abbandono di una moglie e madre di famiglia scatena le sorti di un Universo che
sembra voler ricucire le anime dilaniate proprio con lo stesso ago da sarto del papà Ernesto…

Noemi Mogliani è nata e vive a Recanati (MC), natio borgo del poeta Giacomo Leopardi. Da quei luoghi, proiettando lo sguardo verso la torre deI Il Passero Solitario e l’infinito che si apre “al di là della siepe”, corona il sogno di pubblicare un libro. Riscopre la passione per la scrittura, che aveva temporaneamente archiviata per dedicarsi alla professione di avvocato, dopo il diploma conseguito presso il Liceo Classico Giacomo Leopardi e la Laurea in Giurisprudenza presso l’Ateneo maceratese. Fonte di ispirazione del suo primo romanzo è un’esperienza di vita vissuta, spunto iniziale che lascia spazio a una storia del tutto nuova. L’autrice desidera sottolineare l’importanza di non rinunciare mai ai sogni, parte di noi come i ricordi, che debbono essere impreziositi e sublimati. Ma i sogni si realizzano cogliendo le opportunità e le occasioni che si presentano e grazie a un’immancabile dose d’entusiasmo, oltre che, non ultima, alla potenza dell’amore esclusivo e incondizionato, bene imperdibile.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830673175
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    Anteprima del libro

    Somiglianze - Noemi Mogliani

    LQ.jpg

    Noemi Mogliani

    SOMIGLIANZE

    Il sogno nel ricordo

    © 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-6803-4

    I edizione ottobre 2022

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    SOMIGLIANZE

    Il sogno nel ricordo

    Ogni riferimento a persone esistenti

    o a fatti realmente accaduti e luoghi descritti

    è puramente casuale

    e frutto di immaginazione.

    Dedicato a chi mi ha amata

    nel modo in cui credo sia amore.

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    PRIMA PARTE

    CAPITOLO 1

    Un segreto rosa

    Quelle mani grandi e tozze erano più avvezze a manovrare forbici da sartoria, che a dimenarsi tra le lunghe ciocche bionde della nipotina nell’ardua impresa di farle le trecce.

    «Ahi, basta tirare nonna!!!».

    Certo districarle i nodi che si erano formati dopo cinque giorni senza passare neppure un colpo di spazzola non era un gioco da ragazzi.

    «Non lagnarti come è tuo solito Veronica, sto facendo del mio meglio, ma ci sono mille nodi!».

    Sentir dire da nonna Irina che stava facendo il meglio proprio per lei, le alleviava non solo il dolore provocato da quelle mani maldestre che si posavano sui capelli, ma soprattutto il male, ben più lancinante, di un’assenza che ormai durava da troppo.

    Veronica non era mai stata abituata a trascorrere tanto tempo con la mamma, ma questa volta la lontananza era diventata insostenibile. Non riusciva a spiegarsi precisamente a cosa fosse dovuta, ma in seguito non le fu risparmiata la verità e, forse, otto anni appena compiuti erano ancora pochi per capire.

    Una stanza d’ospedale, per due mesi, significava molto. Un fratellino, o meglio, una sorellina, era sempre stato il suo più grande sogno, insieme a quello di fare le valigie per andare in vacanza con i suoi genitori.

    Ora le appariva paradossale e l’angustiava l’idea che quella che per anni aveva rappresentato la cosa più bella che le potesse capitare, si stava realizzando, ma portando con sé tanta tristezza. Sarebbe stata la sublimazione del desiderio che serbava dentro da sempre, senza tuttavia manifestarlo all’esterno, perché non era sua consuetudine rivelare i propri sentimenti.

    E non riusciva a rassegnarsi al fatto che l’avverarsi del suo sogno fosse causa di dolore, e il dolore non sembrava dovesse esaurirsi di lì a poco, acuendosi di giorno in giorno.

    Intanto, mentre questi pensieri le pervadevano la mente, si era fatto tardi, ma per fortuna la scuola era vicina e camminando veloce non avrebbe tardato.

    La scamiciata marrone a quadretti la indossava già, e sotto anche la maglia avana di lana a collo alto. Il cappotto, sì, anche quello era sopra al letto, pronto per essere infilato.

    I calzettoni erano già infilati e così le scarpe, e la merenda, persino quella era nello zainetto dalla sera prima. Due merendine per la precisione, oggi due Tegolini del Mulino Bianco, sempre due snack dello stesso tipo, ma potevano variare da un giorno e l’altro, potevano essere due Girelle, due Buondì, due Kinder Briosh, due Saccottini, e così via, tutta la gamma in vendita. Un’apparente organizzazione da encomio che strideva con la confusione interiore scatenata dall’improvviso ricovero.

    Ogni azione si svolgeva come da copione, un copione che ormai continuava ripetutamente dal primo giorno di scuola più o meno, ma negli ultimi tempi tutto si era fatto più duro, a causa di una separazione che non era dovuta al lavoro della mamma, come capitava quando questa si muoveva da Rimini per prendere le misure a qualche cliente di fuori che non poteva o voleva spostarsi.

    Eppure il distacco ora era attribuibile a qualcosa altro di non ben conosciuto, almeno da lei.

    L’immutabilità dei giorni, che già non l’aveva mai appassionata, era diventata angosciante, insopportabile, e non la confortava neppure pensare che poteva essere un modo per mettere al riparo la sua sorellina dal pericolo di perderla.

    Vivere in quella situazione senza vedere cambiamenti, ora dopo ora, e il tempo che sembrava non passare mai, la inquietava, sentendosi schiacciata da un vortice di sensazioni negative che la dominavano, ma non poteva certo esternarlo. A chi poi?

    Inesorabilmente le ore passavano e dopo la scuola si faceva sera, buio e poi la notte e poi ancora giorno, e l’interrogativo era una costante: Quando sarebbe tornata a casa?

    Oggi era forse il giorno giusto, quello che aspettava da tempo, ma in realtà sembrava essere trascorso un secolo dall’ultima volta… eppure, erano trascorse solo quarantotto ore dacché aveva varcato con lui, suo padre, la porta di vetro che ogni volta le dava accesso al Paradiso.

    Pioveva, ma le gocce d’acqua non si fermavano sul suo cappotto. Scese dall’auto di corsa e neppure lo aspettò, né si preoccupò della distanza che la distaccava da lui né di munirsi di un ombrello.

    Erano gocce che scivolavano via e avrebbe voluto che altrettanto fosse avvenuto ai brutti pensieri, per tutta la vita.

    Ma che vuoi che siano due gocce di pioggia, pensava.

    Non erano solo due bensì un acquazzone di inizio febbraio, in inverno pieno, ma immensa era la gioia di poter oltrepassare ancora quella porta.

    I capelli erano bagnati e le trecce inzuppate e disfatte, e probabilmente l’indomani nonna Irina non avrebbe avuto il tempo di rifarle, ma non importava, anzi meglio, perché se la nonna non se ne fosse presa cura, Veronica non avrebbe dovuto sopportare ancora il dolore delle ciocche stirate.

    Così avrebbe saltato una parte del rituale quotidiano, e non le dispiaceva affatto perché avrebbe avuto cinque minuti in più per restare a letto e pensare intensamente a loro, per prepararsi all’incontro che sperava avvenisse la sera stessa.

    Aveva immaginato il suo ingresso, lanciata verso il letto e poi avvolta nelle braccia della mamma, e il suo orecchio sopra il ventre rigonfio per ascoltare i movimenti della sua sorellina; e per fortuna era proprio una femmina. Glielo avevano detto i dottori, era il 1983, l’ecografia ormai poteva rivelare il sesso del nascituro, ma alla fine lei avrebbe accettato anche un maschio.

    Ogni cattivo pensiero era meno spiacevole sotto le coperte calde. Le sembrava tutto molto più sopportabile da lì, e i malumori, le grida, i rimproveri e le lacrime, si alleggerivano.

    Alzarsi per andare a scuola non era mai stato così difficile però come nelle ultime settimane.

    Non è il momento di pensare a questo… Si diceva.

    Doveva prepararsi all’evento più atteso della giornata, ed era indispensabile non divagare su altro e restare concentrati per godere appieno dell’istante magico, che purtroppo durava troppo poco soprattutto se confrontato con il resto del tempo che sembrava non scorrere mai.

    Ecco, la porta si era aperta e l’occhio del portiere era ancora caduto su di lei, come l’ultima volta… dietro quegli occhiali neri si intravedeva il volto di un signore sulla cinquantina che sembrava compatirla.

    Forse si chiedeva chi fosse quella bambina, oggi peraltro bagnata fradicia, che così spesso, si portava lì, sempre allo stesso orario, un orario diverso da quello in cui era permesso entrare ai più piccoli e durante il quale lei non sarebbe potuta andare perché nessuno l’avrebbe accompagnata coincidendo con quello di apertura della sartoria… si leggeva nel volto della bambina ardente il desiderio e il bisogno di entrare, di percorrere lo stesso corridoio e le stesse scale, il prima possibile.

    L’idea che quell’uomo la osservasse e si domandasse questo di lei la rendeva insicura, suscitandole un sentimento quasi di vergogna. Fargli pena non le piaceva affatto, facendola sentire inadeguata.

    Venticinque scalini per ogni rampa, in totale cinquanta scalini, i primi venticinque e poi altri venticinque con il fiato in gola e gli occhi sgranati ed incollati sull’ultimo scalino, una liberazione, ansimava ma era felice.

    E nel contempo era un po’ come vivere il suo incubo ricorrente: lei in una stanza spaziosa, immensa e vuota, i soffitti altissimi, ci si perdeva e si sentiva così piccola, sempre più piccola e impotente, incapace di scappare, paralizzata.

    Ma ora poteva muoversi ed era il tempo di farlo e di affrettarsi, più secondi avesse sprecato per salire quegli scalini, meno a lungo avrebbe potuto restare con loro.

    Il fatto che fosse l’unica bambina di otto anni a presentarsi a quell’ora da un lato la imbarazzava, dall’altro mitigava la sgradevole sensazione destata dallo sguardo di quell’uomo dietro il vetro della portineria, pensando che forse era una privilegiata.

    La sua mente era pervasa da interrogativi a cui non sapeva dare risposta. Forse l’uomo semplicemente non era abituato a vedere bambini e voleva soltanto darle il benvenuto, rassicurarla, sorriderle, metterla a suo agio, e dirle che le permetteva di entrare anche se era così tardi perché sapeva che tutto dipendeva da quando il padre riusciva a liberarsi dal lavoro, e questo la costringeva a sperare che la sartoria chiudesse presto e che ogni sera fosse quella buona ed a sperare che le lancette dell’orologio della hall dell’ospedale non si spingessero oltre l’orario limite consentito per l’accesso, prima che lei potesse varcare quella soglia, seppur con tutta la disponibilità di quell’uomo.

    Veronica sapeva che come lei ardeva entrare, l’uomo ardeva dal desiderio di uscire, per andare a casa, per cenare e giocare con i suoi figli e per dare un bacio a sua moglie, e per questo non poteva aspettarla sino a tardi.

    Gli occhi dell’uomo sembravano dolci e le facevano immaginare lui che giocava con i bambini. Gli occhiali neri nascondono i suoi veri sentimenti e la sua tenerezza, lo rendono burbero ma lui è buono. Così pensava o almeno a lei piaceva immaginarlo così, per distinguerlo da lui, da suo padre, che al contrario non portava gli occhiali, e proprio perché non li portava, se avesse avuto uno sguardo dolce lei l’avrebbe potuto percepire in maniera ben più evidente.

    E se non lo percepiva significava che non vi era nessun’espressione di dolcezza, e comunque suo padre, diversamente dall’uomo della portineria, non aveva mai giocato con lei dopo il lavoro, e in realtà neppure prima, certo non alle sei di mattina, che era l’orario in cui si metteva all’opera in sartoria… tagliava, cuciva, ricuciva… non c’era spazio per altro, tanto meno per una bambina.

    Ancora, Veronica si ripeteva che non era quello il tempo per distrarsi in sterili riflessioni che non le risolvevano il problema, né la rendevano più sicura, né le avrebbero garantito un rientro a casa diverso, né la sera stessa, quando quel momento magico sarebbe finito, né le sere successive, dopo il lavoro.

    Un minuto... solo un minuto rimaneva prima di vederle, dopo aver percorso il secondo corridoio, quello della corsia. Lo aveva atteso a lungo e ora la sua mente non doveva dare spazio ad altri pensieri che avrebbero avuto soltanto l’effetto di inquinarle l’unico istante di felicità. Doveva concentrarsi nel prolungare quel solo, breve ed unico istante e farlo sembrare interminabile.

    Avrebbe desiderato che il tempo si fermasse e che il suo mondo fosse soltanto quello e nessun altro.

    Niente contava più, niente, se non fare ingresso nella camerata.

    Non c’era posto neppure per lui e che fosse entrato o restato fuori non importava perché sarebbe stata una presenza inutile ed inafferrabile, e almeno mentre lei godeva di quell’incantesimo non avrebbe udito le sue grida. Beh, però quelle le risparmiava per la sera dopo cena, a casa… non era mica permesso alzare la voce in ospedale, le era stato detto!

    A Veronica piaceva credere che loro erano in tre e che il padre rimanesse fuori in ogni caso, entrasse o meno da quella porta, lui ne sarebbe rimasto comunque fuori. Non faceva parte di loro.

    Che cosa meditasse Ernesto in quegli attimi non era una sua preoccupazione, era del tutto irrilevante come lo era il resto, e persino il pensiero di dover uscire da quella camera e riprendere il copione sospeso non doveva distoglierla ora, ora tutto doveva essere dedicato a loro e loro dovevano essere tutte dedicate a lei.

    Sentiva già il sapore di quei biscotti che la mamma le avrebbe offerto e che erano riposti sopra il comodino, Athena si chiamavano, quelli che raffiguravano nella confezione dei disegni di ispirazione greca, simili proprio alle cornicette che sua zia Eliana le faceva fare in quel quaderno a quadretti prima che iniziasse le elementari, quando tutti gli altri bimbi andavano all’asilo, ma lei no, a lei poteva badare la zia a casa mentre la mamma era a tagliare, cucire e ricucire. La zia le poteva insegnare anche a scrivere le lettere dell’alfabeto e quindi non era necessario l’asilo. Della presenza della zia avrebbe volentieri rinunciato almeno per mezza giornata, non perché non le volesse bene, anzi, ma per scoprire finalmente il luogo misterioso dove gli altri bimbi andavano.

    Certo che zia Eliana era severa, pensava Veronica. Era vietato alzarsi prima di aver completato tutto l’alfabeto nelle lettere minuscole e maiuscole e le cornicette. Poi la zia si era trasferita in America, a Los Angeles, poco prima che Veronica iniziasse le elementari, perché aveva conosciuto uno straniero, e se ne era innamorata, era andata via con lui e non era più tornata.

    Soprattutto ora che la mamma era all’ospedale, a Veronica la zia mancava, dato che si era affezionata a lei… e però le aveva scritto una lettera dove le diceva che avrebbe voluto riabbracciare la sua nipotina ma che lì, a casa, non era più la benvenuta, senza aggiungere altro.

    Nonostante questo, Veronica aveva capito che evidentemente sia nonna Irina che lui, suo padre, non avevano accettato quella fuga. Zia Eliana non ottenne mai il perdono né della madre né di Ernesto, il fratello maggiore.

    Ma a che servivano questi ricordi ora che era il momento fatidico, quello di tuffarsi sul loro letto? Fantasticava e si immaginava già il letto, le coperte, la vestaglia, la tazza del latte e la tovaglietta sopra il comodino, sì, tutto, tutto memorizzato ed impresso nella sua mente come un quadro.

    «Noooooooo! Nooooooo! Cosa è successo? Il letto è vuoto!».

    Erano scomparse? E lei, attonita, a fissare le lenzuola e le coperte ben stese, e il comodino vuoto.

    Si sentì morire, non poteva credere ai suoi occhi. Si voltò all’indietro per cercare questa volta lo sguardo di suo padre, che la seguiva, quasi per trovare conforto, e la stupiva che lo cercasse proprio da lui.

    Suo padre, forse sapeva cosa era successo ma non glielo aveva detto e l’aveva lasciata illudere che le avrebbe trovate lì ad aspettarla? Sarebbe stato capace di tanta crudeltà?

    Oh no, anche questo no, disse tra sé e sé. Non può essere successo a me!

    Si vedeva persa, sola, stanca, e ora anche bagnata fradicia, per quelle gocce di pioggia cadutele addosso pochi minuti prima, di cui ora avvertiva tutto il peso.

    Non aveva il coraggio di chiedere dove fossero sua mamma e la sorellina, ma lo fece il padre, per fortuna, e fu rincuorata dal fatto che ciò significava che neppure lui sapeva. Si era diretto in infermeria, cercando la caposala, che era assente.

    C’era solo l’infermiera del turno di notte, che però non seppe dare spiegazioni, perché durante il giorno non c’era stata ed era nuova, era alla sua prima notte lì e quel letto vuoto non le diceva niente.

    «E come posso sapere dove è la signora?», aveva replicato. «Non è che quando sono entrata ho fatto il giro di tutte le camerate e delle pazienti!».

    La risposta frettolosa e secca, per certi versi sgarbata, lasciò Veronica di gesso, immobile, incapace anche di respirare.

    Che significava tutto questo? Erano sparite senza lasciare traccia? Era verosimile che l’infermiera, seduta su una sedia a braccia conserte, non sapesse niente e non potesse neppure contattare il dottore di turno per capire cosa fosse accaduto e per offrire sostegno alle due povere anime in pena? Veronica si preoccupava e anche il padre, il quale ignorava ogni dettaglio.

    Come un’infermiera alla vista di due volti persi, potesse rimanere così fredda, lei non se ne capacitava, ma forse meglio così, terrorizzata come era dall’ascoltare la risposta, mentre i suoi interrogativi le tuonavano in testa.

    Forse erano fuggite, rapite o semplicemente spostate di sotto, di sopra, in un altro reparto o in un altro ospedale? Giacevano in qualche lettino o in quella che aveva sentito chiamarsi sala operatoria? Ma lei non sapeva neppure cosa fosse.

    Oh no, quell’ipotesi era l’ultima cosa a cui pensare, si disse. Doveva scacciare quella terribile immagine, che tuttavia si faceva avanti impetuosa.

    Veronica era piccola, avrà avuto cinque anni quando aveva sentito per la prima volta parlare di morte.

    Ricordò che stava in terrazzo, accoccolata sopra le gambe della mamma, due in una sola sdraio. A fare da sfondo una serena notte di agosto, una di quelle notti in cui il cielo è pieno di stelle, l’aria è pulita e si vedono le lucciole. Sì, le lucciole allora ve ne erano tante, anche a Rimini, ma si vedevano solo lontano dalle luci cittadine e loro abitavano un po’ isolati, in una casa singola.

    Allora lei domandò: «Ma cosa significa che è morta?».

    E mamma Ester rispose senza la minima esitazione, un’esitazione che forse con il senno di poi sarebbe stato meglio avere.

    «Morta significa che quella signora non c’è più, tutto continua ma lei non c’è più».

    E Veronica sconcertata: «Come? Dove va?».

    «Il mondo continua, tutto si muove, i bambini continuano a nascere ed a giocare, a ridere, le mamme a partorire, a lavorare, le macchine a camminare, ma chi muore non fa più niente di tutto ciò. Smette di vivere e viene seppellito in cimitero e ad ognuno di noi tocca prima o poi questa sorte!».

    Quanto fosse profonda la sensazione di angoscia che la pervase in quella notte di mezza estate, Veronica non fu mai capace di decifrarlo e quell’angoscia divenne un vero e proprio terrore incancellabile, che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita.

    La sensazione di assenza di movimento e di stasi irreversibile sarebbe stata la sua più grande paura. E allora doveva farsi forza a rifuggirla ed a non farsi sovrastare da quell’immagine terrificante. Un pochino ci riuscì. Aveva giurato a se stessa che sarebbe stata più forte di quel pensiero, ma come era vivo e reale ogni volta che imperversava ripresentandosi all’improvviso, così vivo e reale che quasi le sembrava di sentire gli schiamazzi dei bimbi che giocavano e il pianto di quelli appena nati, mentre tutto in lei era stato messo a tacere dalle tenebre, e questo la atterriva.

    Quante volte avrebbe desiderato che la mamma non avesse pronunciato parole così crude per descriverle la fine di ogni uomo e che le avesse detto che la signora era andata in cielo a trovare Gesù in un mondo pieno di angeli e privo di sofferenze, dove tutti vivono felici.

    Così non era stato, e ora doveva rimboccarsi lei le maniche e farsi coraggio per rimediare agli effetti catastrofici della maledetta verità rivelata a chi non poteva capire, e che invece aveva capito molto, forse troppo, e forse pure troppo bene.

    Adesso di fronte alla stanza vuota, più che mai doveva combattere e sconfiggere quel terrore e pensare ad altro. Prese in considerazione l’ipotesi che la mamma fosse stata trasferita perché il letto era scomodo o magari che l’avessero portata in una camera più accogliente, con fiori e con tanta luce che penetrava dalla finestra ad ogni ora del giorno. Una camera che si affacciava in un giardino rigoglioso pieno di rose colorate e con alberi da frutto così alti che non ci si arrivava neppure con la scala a raccoglierli.

    E sì, poteva essere, ma ora che fare? Come superare la notte? Un’ennesima notte con il padre, sul letto matrimoniale nel posto lasciato vuoto dalla mamma, sola con lui, come se insieme si facessero compagnia, e invece erano a migliaia di chilometri di distanza l’uno dall’altra, e quella notte sarebbe stata ancora più tremenda, sapendo che lei, anzi loro, non erano più lì ad aspettarla e che chissà dove fossero finite… nessuno poteva saperlo.

    Niente da fare, i brutti pensieri la assalivano, ma per fortuna non più quel terrore delle tenebre che avrebbe cercato di imparare a gestire, impedendo che le occupasse la mente più di trenta secondi.

    Mentre era assorta, il medico fece ingresso nella camera vuota dove si erano portati di nuovo lei e il padre, nella speranza di trovare degli indizi. Non era il primario, ma quel medico che avevano visto il giorno precedente e che sembrava trattare con una certa confidenza la mamma.

    «Sono desolato… la signora Ester ha firmato il foglio di dimissioni e se ne è andata… le avevo detto che le sue condizioni stavano migliorando ed è probabile che abbia commesso un errore, una leggerezza, non potevo ipotizzare che arrivasse a tanto… sì, insomma, mi sembrava una donna così indifesa e fragile ed invece si è imposta con tanta decisione e veemenza. Se non l’avessi lasciata andare sarebbe diventata ingestibile, persino aggressiva. Non ha voluto ascoltare storie, voleva lasciare l’ospedale e non so ora dove sia e se sia pericoloso, sono sconvolto quanto lei signor Ernesto».

    Il medico si rivolse al padre, senza minimamente premurarsi di non farsi sentire da una bambina di appena otto anni che aveva sempre pensato alla mamma come la più affettuosa e gentile di tutte, e che lo guardava incredula, con il volto inumidito, questa volta non dall’acqua piovana, bensì dalle lacrime, che non riusciva a trattenere e che le cospargevano il visetto rotondo.

    Ma lei a questo ci era abituata, perché nessuno l’aveva mai lasciata credere alle favole, neppure a quella di Babbo Natale, perché tutti le avevano sempre detto le cose come stavano, a cominciare dalla descrizione nuda e cruda della morte che non le aveva risparmiato la madre. Persino la gravità delle minacce d’aborto non le era stata nascosta, anche se lei non si capacitava del perché il sogno tanto agognato di una sorellina si fosse trasformato in una tragedia, e però non aveva osato chiedere spiegazioni.

    Il padre era in volto bianco, di quel bianco simile a quello di un cadavere. Veronica non volle sentire altro. Scappò di corsa fuori dal reparto, non sapeva cosa fosse un foglio di dimissioni, ma erano bastate due parole per capire.

    Se ne è andata. Questo era tutto.

    La rabbia mista a sconsolazione la travolse, eppure stentava a crederci perché la mamma era così tenera e premurosa con lei, di un’amorevolezza che tutte le altre mamme non possedevano, o almeno lei voleva convincersi che fosse così, e non poteva capitare proprio a lei di essere lasciata sola senza una parola, senza un abbraccio, senza un bacio.

    E fu una sorpresa per Veronica ammettere di provare gelosia perché la mamma nell’andarsene si era portata via il suo splendido sogno e lei ora altro non poteva fare che piangere accoratamente e correre via, scappare, anche lei.

    D’altronde l’alternativa era tornare in quella casa gelida, per continuare a sentirsi rimproverare di essere una bambina disobbediente e irrispettosa del lavoro, e del padre e persino della nonna, che facevano di tutto per lei in un momento tanto difficile, mentre lei non li ricompensava aiutandoli almeno nelle faccende domestiche, quindi urla e grida piovevano, per farle capire che stava sbagliando e che doveva comportarsi diversamente.

    I primi sensi di colpa però comparvero in quell’attimo in cui piangere e correre erano le uniche vie di salvezza. Ora temeva di aver commesso errori con la mamma, di non averle mostrato abbastanza affetto, non avendola abbracciata, accarezzata, aiutata a superare le difficoltà, alleviandole le fatiche che magari potevano aver messo in pericolo la salute di una donna in cinta. Ecco che pensava che fosse colpa sua se la mamma se ne era andata forse... o forse no… forse la causa era lui, il padre.

    E sì, perché non lo aveva mai visto abbracciare o baciare la mamma, mai una carezza o una parola dolce, sempre rimproveri e imprecazioni, accuse e invettive, mai gesti d’amore.

    Fu tutto chiaro ai suoi occhi. Doveva essere andata proprio così. Lui l’aveva fatta scappare e ora Veronica ne faceva le spese trovandosi completamente sola e desolata.

    «È tutta colpa tua» gridò a lui che le si avvicinava di corsa per trattenerla, scendendo gli stessi scalini che pochi minuti prima aveva salito con ardente desiderio ed immenso entusiasmo, ora sostituiti dalla disperazione.

    Lui le afferrò il braccio destro con forza sino a farle male, e lei imperterrita: «Tu l’hai fatta scappare, l’ho capito».

    «No non è così, non è come dice il medico, ci deve essere una spiegazione e ti assicuro che la troverò e la riporterò a casa».

    Veronica rimase meravigliata da quelle parole e dal modo deciso in cui il padre le aveva pronunciate, e per la prima volta si sentì protetta da lui, che finalmente avrebbe fatto qualcosa per lei, per renderla felice.

    Era proprio vero, mai si era sentita vicina al papà come in quell’istante, tanto da desiderare di dargli un bacio ed abbracciarlo forte, cosa che non era mai successo perché lui la teneva a distanza, come teneva a distanza la moglie.

    Forse per avvicinarsi a lui doveva allontanarsi da lei? Si chiese Veronica e ammutolì, presa da un vortice di sensazioni contrastanti. L’amore perso e l’amore trovato, in unico contesto che mai avrebbe potuto immaginare, ma era un’illusione.

    «Vieni qua e andiamo a casa, chissà mai che mamma sia tornata da sola, certo è difficile nelle sue condizioni e senza saper guidare, ma magari le ha dato un passaggio qualcuno, magari voleva avvertirci ma non è riuscita a farlo, o magari ci voleva fare una sorpresa, magari… magari… insomma si deve esser sbagliato quel medico, lui non sa sicuramente cosa è successo. Vieni con me».

    Veronica non ebbe coraggio di replicare nulla a quel goffo tentativo di rassicurarla. Sperava che lui avesse ragione e che la mamma fosse a casa, seduta sul divano a vedere la televisione, però in cuor suo sapeva che non poteva essere andata così.

    Pensò che sua madre non avrebbe mai lasciato che lei varcasse quella porta per vedersi davanti il letto vuoto, conscia che la bimba ci sarebbe rimasta male e che ne avrebbe sofferto. Ne era certa, lui no, ma la mamma sapeva che reazione avrebbe avuto, conoscendo quanto era importante per sua figlia oltrepassare quella porta e trovarla a letto ad aspettarla.

    E allora lui si sbagliava di certo e la stava prendendo in giro. O credeva veramente in quello che diceva?

    Decise però di affidarsi a suo padre, e per una volta di prendere per buone le sue parole, non perché si illudeva che potessero essere vere ma perché le piaceva l’idea di ricevere protezione da lui. Era la prima occasione in cui si sentiva uguale agli altri bimbi, nell’avere anche un papà che l’amava e che avrebbe fatto tutto per lei, per vederla sorridere ed essere felice, come portarla al parco a giocare, al mare, in montagna.

    Ma quell’istante era destinato a non durare a lungo, giusto l’illusione di un attimo.

    CAPITOLO 2

    Stoico Natale

    «Quest’anno sarà un Natale super, ancor più di quello dell’anno scorso, un Natale stellare, e se farai la brava Babbo Natale ti porterà i doni che hai chiesto nella tua letterina… te lo assicuro Maria Luce sarà una gran festa».

    «Sì, ma papà non sarà con noi».

    L’albero addobbato e il presepe c’erano sempre anche a casa di Veronica quando era piccola, ma mancava qualcosa per essere una vera festa. Un’atmosfera gioiosa e il calore del focolare domestico che sognava erano qualcosa di diverso e per questo si era ripromessa che quando avrebbe avuto i propri figli non sarebbero mancati, come a tanto amore, prima di tutto, e poi una tavola imbandita.

    Da piccola aveva spergiurato che le festività natalizie con i suoi bambini sarebbero state un appuntamento sacro, il menu sarebbe stato scelto già a fine novembre e si sarebbe andati a fare la spesa tutti insieme selezionando accuratamente gli ingredienti e i cibi, i dolci, i vini… si sarebbe incominciato a cucinare quasi una settimana prima, e ciascuno avrebbe dato il proprio contributo; chi si sarebbe occupato di impastare, chi di chiudere i tortellini, chi del brodo di cappone, chi delle mostarde, della salsa verde e della maionese con le uova freschissime. Niente sarebbe stato lasciato al caso. Ma per i bambini la cosa più bella sarebbe stata comprare gli addobbi, sempre nuovi ogni anno.

    Sarebbero stati comprati insieme anche i regali, poi Babbo Natale li avrebbe consegnati.

    La Veronica bambina, il suo futuro Natale, se lo immaginava così, come un vero e proprio rito.

    Questo le rimaneva dopo quella fuga che si era portata via anche il suo desiderio più grande: la sorellina.

    Tuttavia anche prima che rimanesse sola con il padre, non scriveva a Babbo Natale, perché le era stato rivelato sin da subito che non esisteva.

    A scuola le avevano insegnato a scrivere la letterina ai genitori, che veniva letta prima di iniziare il pranzo di Natale, e nella letterina c’erano sempre i buoni propositi. Veronica prometteva di fare la brava, di fare i compiti impegnandosi al massimo, di aiutare i genitori e la nonna che lavoravano molto e sempre sino a tardi, anche la Vigilia di Natale perché la sartoria era sempre l’ultima a chiudere; ci si doveva sbrigare a confezionare i vestiti ordinati e rimasti indietro, abbelliti con brillantini, lustrini, perline e strass, elegantissimi per la sera del 24 e per la festa di Capodanno, a cui la sua famiglia non era mai invitata e poi anche se lo fosse stata non avrebbe partecipato alle famigerate feste poiché c’era sempre un cliente arrivato in ritardo e si doveva completare tutti gli abiti iniziati.

    Nonostante la letterina, e nonostante ci fosse anche zia Eliana a cena oltre alla nonna ed ai suoi genitori, lei ricordava dei Natali tristi, così li percepiva, eppure anche a casa sua si cucinava, a farlo era la nonna, che le aveva inculcato quella che sarebbe diventata una vera passione.

    Ma il Natale era diverso da come lo desiderava Veronica, e i pranzi di Natale a casa sua duravano poco ed erano fatti di un menù composto da poche portate, perché nonna Erina, benché le piacesse, aveva poco tempo per dedicarsi alla cucina. La priorità era la sartoria.

    La sera della Vigilia si giocava a carte ma non c’erano altri parenti, neppure i nonni materni che lei non ricordava neanche e che secondo i racconti della mamma l’avevano andata a trovare a mala pena due o tre volte dopo il parto, perché la notizia che la figlia era rimasta in cinta a diciassette anni non l’avevano proprio digerita. Veronica non sapeva se abitassero in un paese vicino o lontano, di sicuro non a Rimini, essendosi trasferiti quando lei era piccolina.

    Nel pomeriggio del 25 dicembre si giocava ancora, e persino a tombola, ma sempre tra lei, mamma Ester, zia Eliana, nonna Irina e lui, Ernesto, sorseggiando un punch al mandarino, che malgrado fosse un po’ alcolico, Veronica assaggiava perché nessuno si preoccupava che fosse troppo piccola, e tutto questo mangiando le castagne. A messa invece si andava la mattina di Natale.

    I Natali più duri furono quelli dopo la fuga della mamma, davvero un orribile incubo, si stamparono come un ricordo da dimenticare nella mente di Veronica, che era sempre più in preda ad una straziante solitudine e ad un incontenibile desiderio di fuggire lontano.

    Era per questo che meditava che per i suoi figli il Natale avrebbe dovuto essere perfetto e loro si sarebbero sentiti amati più del resto dell’anno.

    Se non che, in contrapposizione a quel sogno, una volta venute al mondo le sue bimbe, trascurò qualcosa di fondamentale perché tutto si avverasse.

    Il dolore sopportato per troppo tempo le aveva lasciato un segno indelebile, permeando il suo animo sino a farle perdere di vista che alle sue bambine sarebbe mancato l’affetto del padre.

    Non comprese che per le figlie la cosa più importante sarebbe stata festeggiare insieme al papà, piuttosto che aspettare un fantomatico Babbo Natale che si presentava puntualmente a mezza notte per distribuire i regali, ma poi se ne andava via, tornando solo l’anno successivo. Al loro padre non era concesso vedere spesso le bimbe.

    Questo perché Veronica ad un certo punto si convinse che un padre presente non servisse.

    Giulio, il suo ex compagno, in realtà aveva cercato di farle capire che essere accanto alle figlie, a Natale e non solo, non era un dettaglio, ma lei aveva creduto di poter fare da sola, come aveva fatto sempre sin da bambina, dacché era stata abbandonata.

    Quello che sembrava, tuttavia, il meglio per Veronica, non lo era per le bambine, ma finì per ignorarlo.

    Dopo tanti anni vissuti in solitudine, a casa, accanto al padre e lontana dalla mamma, aveva concluso che la figura paterna non fosse indispensabile e che bastasse una mamma veramente presente, e Veronica lo era.

    Non si rendeva conto del paradosso in cui era caduta, desiderando il meglio per le sue bimbe sin da quando era piccola e fantasticando di diventare madre, e ora privandole del calore del loro padre.

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