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Storie ordinarie e straordinarie
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E-book86 pagine

Storie ordinarie e straordinarie

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Info su questo ebook

Raccolta di racconti brevi, diversi uno dall'altro ma testimoni di una quotidianita` a volte straordinaria.Selezionati dalla prima edizione del premio. Hoffmann & Hoffmann per racconti brevi inediti. Autori esordienti.

LinguaItaliano
Data di uscita13 apr 2019
ISBN9781947488410
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    Anteprima del libro

    Storie ordinarie e straordinarie - Maria Perella

    I

    Anche Houlot ha iniziato da piccolo

     Biografia immaginaria di Monsieur Hulot

    Ramsis Deif Bentivoglio

    1

    Anche Houlot ha iniziato da piccolo

    Biografia immaginaria di Monsieur Hulot

    Ramsis Deif

    La nascita del piccolo Hulot meravigliò tutta la famiglia. Dopo diverse ore di travaglio e di sofferenza per la madre, il piccolo Hulot venne estratto, non senza fatica, dal caldo giaciglio che l’aveva ospitato nove mesi e dieci giorni, e portato alla luce con soddisfazione e parecchie gocce di sudore sulla fronte dal medico che lo prese per le gambine, lo rivoltò a testa in giù e gli diede un colpo sul sedere per farlo piangere. Ed ecco la cosa strana, quella che meravigliò la madre sfinita e il padre impaziente. Invece di piangere rise, o almeno quella fu l’impressione che destò nei presenti.

    Buon Dio! esclamò un infermiera che doveva prenderlo in cura appena dopo avergli tagliato il cordone, pesandolo e pulendolo.

    Rise quindi. Sul suo faccino ancora sporco e livido, con gli occhietti appiccicati e i tratti ancora indefiniti, balenò un sorrisetto, sembrava quasi soddisfatto, dichiarò qualcuno dopo.

    Soddisfatto di cosa non si capì mai. Anche da adulto, chiedendoglielo, non aveva saputo cosa rispondere, bofonchiando come suo solito parole incomprensibili, quelle che usava sempre per esprimere ogni suo dubbio.

    Il dottore che era abituato a sentire piangere, così come gli avevano insegnato alla specialistica di medicina di Paris facendogli credere, giurando, che fosse normale " tutti i bambini piangono" in aggiunta a quello che diceva da secoli la Chiesa " gli uomini nascono, vivono e muoiono piangendo", e aveva cercato di forzargli un urletto, ma non c’era stato nulla da fare. Quasi sconsolato lo aveva passato alle infermiere per le procedure di analisi e pulizia. La madre era troppo sfinita per chiedere spiegazioni e si era addormentata.

    Il padre, invece, che non tollerava anarchie neonatali e voleva tutto sotto controllo, chiese spiegazioni, uscendo dalla sala parto e inseguendo come un segugio il primario di ginecologia.

    Non so che dirle, sono sconvolto anch’io, è innaturale che un bambino non pianga, sarebbe come se… e indugiò su quale metafora usare, rimanendo a metà di una frase che poteva completare con brillantezza ma che forse avrebbe fatto preoccupare ancora di più i genitori del bambino, niente, comunque sta bene.

    Il padre era rimasto sulle sue ma non aveva insistito.

    Tornato in camera dalla moglie le aveva sorriso a fatica, ora che si era risvegliata solo per suo figlio.

    Il piccolo Hulot, ancora con gli occhi chiusi, aveva un gran sonno, era stato ripulito, pesato, avvolto in una calda e pulita coperta, analizzato e passato da varie mani femminili fino, nuovamente, al grembo materno. Hulot aveva analizzato il nuovo ambiente solo attraverso il nasino che aspirava tutte le particelle odorose nell’aria e mantenendo quella strana espressione sorridente sul viso.

    Di nuovo tra i suoi genitori si era addormentato, col sorriso.

    Lo portarono a casa dopo qualche giorno e per tutto il tempo non pianse mai. Mugolava qualcosa ogni tanto, quando aveva fame o voleva sentire il calore di sua madre, per nient’altro si lamentava. I medici dicevano che era sano e, in fin dei conti, era quello che importava veramente.

    Dopo una settimana aprì gli occhietti, azzurri quasi cristallini, curiosi e vivaci.

    Era la sua indole. Allegrezza e gioia.

    Lentamente contagiò quasi tutti, tranne suo padre, troppo morigerato e serio per ridere. Il riso abbonda sulla bocca degli stolti, recitava un adagio latino e così doveva essere, ma in fondo gli voleva bene lo stesso.

    Verso l’anno e mezzo di età imparò a camminare da solo. Arrancava con fatica, dondolava per le stanze, ciondolava, ma sembrava farcela.

    Suo padre, intimamente, desiderava che inciampasse, per vedere di farlo piangere.

    Qualsiasi bambino cadendo avrebbe pianto e il piccolo Hulot non avrebbe fatto eccezione.

    E un giorno ovviamente cadde, anche rovinosamente, si graffiò le ginocchia e si sbucciò un po’ le mani. Involontariamente erano tutti pronti a placare i suoi pianti, a consolarlo, a curarlo e a dargli qualche bacio, anche se non troppi. In fondo, il compito del genitore, almeno nei primi anni, si riduce nel consolare e curare il proprio bambino da inevitabili cadute.

    Erano già lì in attesa che scoppiasse in lacrime, frignasse per molti minuti, chiedesse l’aiuto… il piccolo Hulot cadde, come detto, steso a terra e ci rimase. Si guardò qualche secondo le ferite con espressione sbalordita, fece vibrare le labbra, come se stesse per piangere e invece rimase insensibile guardando stupito i suoi che lo guardavano a loro volta stupiti e un po’ indispettiti.

    Suo padre sbottò.

    Dannazione, cosa ci vuole per farlo piangere! disse andandosene.

    Sua madre era d’accordo con lui, ma quella stranezza e particolarità le dava una certa soddisfazione, anche se avesse voluto sentirlo piangere almeno una volta, almeno una, non le sembrava di chiedere troppo. Comunque lo curò e consolò lo stesso, con lo stesso amore se avesse pianto.

    A due anni e qualcosa iniziò a parlare, o almeno ci provava. In realtà bofonchiava, parlottava, emetteva suoni quasi incomprensibili. Sembrava avesse detto babbo o mamma, ma nessuno ne era sicuro.

    A turno lo spronavano a dire qualcosa di chiaro. Sillabavano parole semplici, gli facevano vedere come fare, anche muovendogli la bocca con le mani, ma niente. Emetteva suoni onomatopeici. Bùuolonnn, blamamanna, voluon… bloonn…

    Nessuno capiva quello che diceva. Anche interpretando era quasi impossibile. Si andava ad intuito. Se aveva fame borbottava una cosa, se aveva fatto puzze, un’altra e così via.

    Prima o poi dirà qualcosa, vedrai aveva detto sua madre a suo marito.

    Anche lui aveva bofonchiato qualcosa e se ne era andato chiedendosi di chi fosse figlio quel piccolo bambino strano.

    Per tutta l’infanzia non aveva parlato molto. Non che fosse stupido o ritardato, come malignamente qualcuno aveva insinuato, era soltanto molto introverso. Di amici non ne aveva, anche andando all’asilo non se ne era fatti. Per lo più se ne stava in disparte a guardare gli altri giocare. Negli anni era cresciuto molto

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