Le undicimila verghe. Il manifesto dell'erotismo
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Le undicimila verghe, scriveva Louis Aragon, non è un libro erotico, è un gioco: «È un libro in cui tutta l’abilità di Apollinaire e la sua conoscenza di una certa volgarità conturbante vengono alla luce a spese della sincerità e della vita. Ma è forse il libro di Apollinaire in cui l’humor si mostra con maggiore purezza».
Nella trama (se di trama si può parlare) galleggiano tutte le immagini e le situazioni tipiche della tradizione del feuilleton, dei romanzi sentimentali di infimo gusto e degli opuscoli erotici d’accatto, immancabilmente ambientati tra grandi alberghi di frontiera, vagoni ferroviari di prima classe e transatlantici di lusso in cui si muovono enigmatiche avventuriere e nobili dall’irresistibile fascino slavo…
Una farsa forsennata (fin dal titolo grottesco-carnevalesco) che irride e prende le distanze sia dall’amore che dall’erotismo. Echi di Sade? Sì, ma in una sontuosa, saporitissima salsa alla Rabelais.
Guillaume Apollinaire
(questo il nome che dal 1902 adoperò Wilhelm Albert Apollinaris de Kostrowitsky) nacque a Roma nel 1880 da un’aristocratica polacca, Angelica de Kostrowitsky, e da padre italiano, forse un ufficiale borbonico. Legato ai più importanti movimenti d’avanguardia della sua epoca, fu il teorico del cubismo e contribuì a orientare verso il simbolismo la poesia surrealista. Dopo aver girovagato a lungo per l’Europa, nel 1913 si trasferì definitivamente a Parigi, dove morì nel 1918 in seguito alla febbre spagnola.
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Anteprima del libro
Le undicimila verghe. Il manifesto dell'erotismo - Guillaume Apollinaire
Titolo originale: Les Onze Mille Verges, traduzione di Roberto Rossi Testa.
Guillaume Apollinaire: la verge pour la vierge
Nella sua Bibliographie du roman erotique, Louis Perceau¹ riporta una nota (che Michel Décaudin opportunamente definisce «sorniona»)² tratta da un catalogo di libri clandestini del 1907, dove si reclamizza Les Onze Mille Verges ou les Amours d’un hospodar, di recentissima pubblicazione. Tale nota (alla quale Toussaint Médecin-Molinier³ suppone che Apollinaire, pur non essendone forse il redattore, si sia divertito a porre mano quasi parodiando se stesso) parla del romanzo in termini quanto mai ingannevoli (e a una lettura appena attenta addirittura risibili), ma adattissimi ad allettare e ingolosire il lettore borghese in cerca di sollazzi «proibiti»:
«Più forte del Marchese de Sade»: è così che un celebre critico ha giudicato il nuovo romanzo di cui si parla a bassa voce nei salotti più esclusivi di Parigi e all’estero.
Questo libro è piaciuto per la novità, per la sua impagabile fantasia, per la sua audacia appena credibile.
Supera di gran lunga le opere più efferate del Divino Marchese; ma l’autore ha saputo amalgamare il piacere allo spavento.
Nulla è mai stato scritto di altrettanto tremendo dell’orgia nel vagone-letto, che si conclude con un duplice assassinio. Nulla di più toccante dell’episodio della giapponese Kilyemù il cui amante, invertito confesso, muore impalato come ha vissuto.
Vi sono scene di vampirismo senza precedenti, la cui protagonista è un’infermiera della Croce Rossa bella come un angelo, che, orchessa insaziabile, viola i morti e i feriti.
Le bettole e i bordelli di Port Arthur fanno rosseggiare in questo libro le fiamme oscene delle loro lanterne.
Le scene di pederastia, di saffismo, di necrofilia, di copromania, di bestialità si fondono nei modi più armoniosi.
Sadici o masochisti, i personaggi delle Undicimila verghe appartengono ormai alla letteratura.
LA FLAGELLAZIONE
, quest’arte voluttuosa di cui si è potuto dire che coloro che la ignorano non conoscono l’amore, è qui trattata in modo assolutamente nuovo.
È il romanzo dell’amore moderno scritto in una forma letteraria perfetta.
L’autore ha osato dire tutto, è vero, ma senza mai scivolare nella volgarità⁴.
Romanzo dell’amore moderno, dunque? Una tale affermazione potrebbe risultare valida se nelle Onze Mille Verges si parlasse, per l’appunto, di amore o quanto meno di erotismo. Ma fin dalle prime pagine Apollinaire prende subito le distanze sia dall’uno che dall’altro, dando spesso all’azione un andamento pseudo-meccanico, forsennatamente farsesco. Si veda ad esempio, alla fine del secondo capitolo, la scena dell’orgia (risolta in poco più di una pagina) fra Alexine, Culculine e il principe Mony, alla quale a un certo punto intervengono a sorpresa il cocchiere e una guardia: il tutto ha i ritmi accelerati e l’esagerazione caricaturale di una «comica» del cinema muto, con il cocchiere che dopo aver posseduto Alexine sodomizza Mony, mentre la guardia infila il suo «cazzo regolamentare»⁵ nel culo di Culculine e la povera Alexine si arrangia da sola con il manganello d’ordinanza… «Les Onze Mille Verges non è un libro erotico (…) è un gioco», afferma a chiare note Louis Aragon in un suo scritto del 1930, per poi concludere: «È un libro in cui tutta l’abilità di Apollinaire e la sua conoscenza di una certa volgarità conturbante, la cui espressione migliore è la cartolina postale, vengono alla luce a spese della sincerità e della vita. Ma è forse il libro di Apollinaire in cui l’humor si mostra con maggiore purezza»⁶. Del resto, il titolo stesso è già di per sé significativo, con il suo carattere grottesco-carnevalesco inneggiante alla più smodata abbondanza rabelaisiana: così come Pantagruel ingurgitava voracemente qualsiasi cosa con la sua enorme bocca espellendo poi il contenuto del suo ventre per le vie evacuatorie, allo stesso modo le «undicimila verghe», fagocitano – ovvero respingono, rigettano, rifiutano – il familismo piccolo-borghese con i suoi tabù, la sua ipocrisia e il suo bigottismo. Non a caso le «onze mille verges» rifanno il verso alle «onze mille vierges», vale a dire le undicimila vergini di Sant’Orsola massacrate in età medievale, venerate a Colonia: il ludico, irriverente gioco di parole «verge/vierge» (spia, fra l’altro, secondo alcuni, di una propensione all’omosessualità), oltre a riconfermare – se mai ce ne fosse bisogno – Apollinaire estroso e abile «inventeur de langage», stabilisce da subito il carattere umoristico, disturbante e blasfemo dell’opera.
Nella trama (se di trama si può parlare) galleggiano tutti i cascami pescati a bella posta dalla più vieta tradizione del feuilleton, dei romanzi sentimentali di infimo gusto e degli opuscoli erotici d’accatto, immancabilmente ambientati tra grandi alberghi di frontiera, vagoni ferroviari di prima classe e transatlantici di lusso in cui si muovono enigmatiche avventuriere e nobili dall’irresistibile fascino slavo… Apollinaire osserva la società borghese con l’aria sorridente e distaccata di chi si diverte a frugare sulle bancarelle del marché aux puces scettico sull’eventualità di scovare qualche carabattola decente in mezzo a tanto ciarpame, ma in fondo dispostissimo a farsi affibbiare una vecchia brocca di princisbecco pagandola per argento… Anche lui, con una strizzata d’occhio, non esita, come si è visto, a rifilare stracci e orpelli a chi non è in grado di capire: Sade? Sì, ma in una sontuosa, saporitissima salsa alla Rabelais.
Verso la conclusione del suo scritto, Louis Aragon cita dal capitolo quarto del libro: «La lettera annunciava al principe Vibescu che era stato nominato tenente in Russia, nel contingente straniero, nell’esercito del generale Kuroparkin. Il principe e Cornaboeux manifestarono il loro entusiasmo inculandosi a vicenda», e commenta (anche lui con aria sorniona): «Permettetemi di farvi osservare che tutto questo non è serio»⁷.
RICCARDO REIM
1 Louis Perceau, Bibliographie du Roman Erotique au
XIX
e siècle: donnant une description complète de tous les romans, nouvelles et autres ouvrages en prose, publiés sous le manteau en français de 1800 à nous jours, et de toutes leurs réimpressions, Parigi 1930.
2 Lo scritto di Michel Dècaudin prefaziona l’edizione parigina del 1873, la prima a fornire un testo corretto del romanzo (afflitto, nelle edizioni successive, da refusi, tagli e omissioni) condotto sull’edizione del 1907. Vedi a tale proposito l’apparato critico a corredo dell’edizione italiana Guillaume Apollinaire, Le undicimila verghe, Milano 1991.
3 Lo scritto di Toussaint Mèdecin-Molinier è del 1963.
4 Vedi nota 1.
5 Guillaume Apollinaire, Le undicimila verghe, cap.
II
.
6 Lo scritto di Louis Aragon è del 1930. Anche in questo caso vedi l’apparato critico a corredo dell’edizione italiana di Guillaume Apollinaire, Le undicimila verghe, cit.
7 Vedi nota 6.
Capitolo primo
Bucarest è una bella città in cui si direbbe che Oriente e Occidente giungano a confondersi. Da un punto di vista puramente geografico si è ancora in Europa; ma si è già in Asia rispetto a certe usanze del paese, ai turchi, ai serbi e alle altre razze macedoni di cui si possono scorgere, nelle strade, pittoreschi esemplari. Tuttavia è un paese latino; i soldati romani che lo colonizzarono avevano senza dubbio il pensiero costantemente rivolto a Roma, allora capitale del mondo e capoluogo di tutte le raffinatezze. Questa nostalgia dell’Occidente si è trasmessa ai loro discendenti: i rumeni pensano sempre a una città in cui il lusso è naturale e la vita è allegra. Ma Roma è decaduta dal suo splendore, la regina delle città ha ceduto la sua corona a Parigi e, fatto sorprendente, il pensiero dei rumeni, per un fenomeno atavico, è di continuo rivolto verso Parigi, che ha così ben rimpiazzato Roma alla testa dell’Universo!
Come tutti gli altri rumeni, il bel principe Vibescu sognava Parigi, la Ville Lumière, dove le donne, tutte belle, son pure tutte di coscia leggera. Mentre era ancora al collegio di Bucarest, gli bastava pensare a una parigina, alla Parigina, per rizzare ed essere costretto a menarselo lentamente e con beatitudine. Più tardi si era scaricato nelle fiche e nei culi di tante deliziose rumene. Ma, se ne rendeva ben conto, gli ci voleva una parigina.
Mony Vibescu apparteneva a una famiglia molto ricca. Il bisnonno era stato hospodar, titolo che in Francia corrisponde a quello di sottoprefetto. Ma questa carica era stata trasmessa come onorificenza a tutta la famiglia, sicché il nonno e il padre di Mony avevano entrambi portato il titolo di hospodar. Anche Mony Vibescu aveva dovuto fregiarsene, in onore del suo avo.
Ma aveva letto abbastanza romanzi francesi da farsi beffe dei sotto-prefetti: «Figuriamoci», diceva, «non è forse ridicolo farsi chiamare sottoprefetto perché lo è stato un vostro avo? Via, è grottesco!». E per esser meno grottesco aveva sostituito il titolo di hospodar, sottoprefetto, con quello di principe. «Ecco», esclamava, «un titolo che si può trasmettere per via ereditaria. Hospodar distingue una funzione amministrativa, ma è giusto che chi si è segnalato nell’amministrazione abbia il diritto di portare un titolo. Io mi nobilito. In fondo sono un capostipite. I miei figli e i miei nipoti me ne saranno grati».
Il principe Vibescu era amico intimo del viceconsole di Serbia: Bandi Fornoski, il quale, a quanto si diceva in città, non disdegnava mai d’inculare il fascinoso Mony. Un giorno il principe si vestì con eleganza e si diresse verso il viceconsolato di Serbia. Per