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L'innocente
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E-book381 pagine5 ore

L'innocente

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Info su questo ebook

A cura di Gianni Oliva
Edizione integrale

Costantemente infedele alla moglie Giuliana, Tullio Hermil in un tardivo tentativo di riavvicinamento alla propria consorte scopre che questa porta in seno il frutto di un unico, irreparabile tradimento. Fra lui e la rinnovata passione verso Giuliana si frappone il piccolo intruso, e Tullio non esita a provocare la morte della creatura innocente. Influenzato da Tolstoj e Dostoevskij, intriso delle letture di neurologia e psichiatria, questo romanzo dannunziano conobbe alla sua uscita nel 1892 un grande successo in Francia e nel resto dell’Europa, prima ancora che in Italia. Seconda prova, dopo Il piacere e prima del Trionfo della morte, della cosiddetta «trilogia della rosa», L’innocente – che nel 1976 ha ispirato a Luchino Visconti una magistrale versione cinematografica – ci costringe ancora oggi a misurarci con una figura «al di là del bene e del male» e con la ricerca sperimentale verso una forma novecentesca del romanzo.

«Posso andare davanti al giudice, posso parlargli così? Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi. Eppure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi. Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno. A chi?»


Gabriele D'Annunzio

(Pescara 1863 - Gardone Riviera 1938) esordì giovanissimo con la raccolta di versi Primo Vere. La sua vastissima produzione poetica, narrativa, drammatica, tradotta in tutte le lingue, ebbe risonanza mondiale. Dopo la composizione delle Laudi, divenne il "vate nazionale". Eroe della prima guerra mondiale e "comandante" di Fiume, fu considerato a lungo un "maestro di vita". La Newton Compton ha pubblicato Il piacere, L'innocente e La figlia di Iorio.
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2011
ISBN9788854130401
Autore

Gabriele D'Annunzio

Gabriele D’Annunzio (1863-1938) was an Italian poet, playwright, soldier, and political figure. Born in Pescara, Abruzzo, D’Annunzio was the son of the mayor, a wealthy landowner. He published his first book of poems at sixteen, launching his career as a leading Italian artist of his time. In 1891, he published his first novel, A Child of Pleasure, followed by Giovanni Episcopo (1891) and L’innocente (1892), which earned him a reputation among leading European critics as a member of the Italian avant-garde. By the end of the nineteenth century, he turned his efforts to writing for the stage with such tragedies as La Gioconda (1899) and Francesca da Rimini (1902). Radicalized during the First World War, D’Annunzio used his experience as a decorated fighter pilot to spread his increasingly nationalist ideology. In 1919, he spearheaded the takeover of the city of Fiume, which had been ceded at the Paris Peace Conference. As the leader of the Italian Regency of Carnaro, he sought to establish an independent authoritarian state and to support other separatist movements around the globe, but was forced to surrender to Italy in December 1920. Despite his failure, D’Annunzio inspired Mussolini’s National Fascist Party, which built on the violent tactics and corporatist system advocated by the poet and his allies. Toward the end of his life, D’Annunzio was named Prince of Montenevoso by King Victor Emmanuel III and served as the president of the Royal Academy of Italy.

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    Anteprima del libro

    L'innocente - Gabriele D'Annunzio

    Indice

    D'Annunzio e il suo tempo. Saggio introduttivo di Giovanni Antonucci e Gianni Oliva

    D'Annunzio prosatore. Introduzione di Gianni Oliva

    Cronologia di Gabriele D'Annunzio

    Nota bibliografica

    L'INNOCENTE

    IInvito alla lettura de L'innocente, di Mario Cimini

    261

    Gabriele D'Annunzio

    L'innocente

    A cura di Gianni Oliva

    Saggio introduttivo di Giovanni Antonucci e Gianni Oliva

    Edizione integrale

    Newton Compton editori

    Prima edizione ebook: febbraio 2011

    © 1995, 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3040-1

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    D'Annunzio e il suo tempo

    Saggio introduttivo di Giovanni Antonucci e Gianni Oliva

    «Venite a guardare il mio viso due o tre ore dopo la morte - annota Gabriele D'Annunzio nel Libro segreto - allora soltanto avrò il viso che mi era destinato, immune dagli affanni, dalle fatiche, dai patimenti, dagli innumerevoli eventi che forzò e forzerà pur in estremo il mio disperato coraggio.» Nel volto composto dalla morte, il poeta immaginava, da vivo, il ricupero di quella autenticità, di quella verità umana alla quale aveva rinunciato per tutta la vita in favore di una maschera: quella dell'artista inimitabile, del vate, del maestro di vita, del poeta armato, del politico. Una maschera, anzi tante maschere, di un personaggio che ha dominato per quasi sessantanni la cultura italiana ed europea, ma anche il costume e la società. D'Annunzio, oltre a essere un grande scrittore i cui testi ci appaiono oggi di una modernità e di una forza stilistica stupefacenti, è stato una personalità unica, in grado di creare uno stile e un modello di riferimento per centinaia di migliaia di Italiani. D'Annunzio coinvolgeva non solo con la sua poesia, ma anche con il suo stile di vita, con le sue azioni pubbliche e private, l'interesse dell'aristocrazia come delle classi popolari, della piccola borghesia come di quella medio-alta. Il seduttore, poi, nel senso in cui lo intendeva Casanova, fu un personaggio che diventò popolarissimo: il seduttore raffinato e sottile, non certo il dongiovanni volgare e routinier. Piero Chiara ha scritto ¹ una biografia di D'Annunzio soprattutto per sottolineare questo aspetto della sua esistenza: un aspetto che non fu mai privato ma che diventò un evento pubblico.

    Il personaggio D'Annunzio ha solcato la vita italiana ed europea imponendo un'immagine di sé talmente forte da lasciare segni indelebili. Il dannunzianesimo fu un fenomeno singolare, che ebbe un'influenza importantissima sul costume del nostro paese, sui gusti e sugli atteggiamenti di milioni di Italiani. D'Annunzio creò una vera e propria mitologia sulla sua immagine e sul suo ruolo, una mitologia che egli riuscì ad alimentare fino quasi alla morte, nonostante la sua opera fosse conclusa e il suo esilio al Vittoriale fosse il segno di una sconfitta. Bastano due soli esempi, fra i tanti che si potrebbero fare, per confermarlo. Andrea Sperelli risultò subito non solo un grande personaggio di romanzo qual era, ma anche un modello di esistenza e di stile per ogni giovane, perfino per chi non aveva i mezzi e la cultura per esserlo. La «vita come opera d'arte» diventò, nell'immaginario collettivo, una sorta di obiettivo primario. Vent'anni più tardi, in un contesto completamente diverso, quello dell'irredentismo legato alla quarta sponda dell'Adriatico e del patriottismo, La nave creò una mitologia altrettanto significativa e duratura. Leo Longanesi ha scritto ² una pagina graffiante, eppure di grande interesse, sull'influenza di D'Annunzio sul modo di pensare di gran parte degli Italiani: «Dato il via [...] alla sua nave, Gabriele D'Annunzio ha solcato col vento in poppa tutti i cieli e i mari d'Italia [...] La bruciante passione di un signore solo che aveva letto Nietzsche e sognava loriche, incenso, levrieri, cortigiani, veleni e vestali, diventò la passione di mezza Italia [...] Tutto fu cominciare: una passione tirò l'altra. Si trovò la maniera d'innestare l'adriaticismo simbolico nelle arti figurative e De Karolis, caduto nell'anella, creò lo stile mare-nostrum con le galee, i sansoni di gomma, i malatestini dalle calze a righe, gl'incudini col-l'alloro e le ghiande; si rimisero in scena il cuoio bulinato, le pietre dure e il fìnto damasco; si gonfiarono i lampadari di Murano e le frasi più sonanti; si estrassero dal materiale mitologico di D'Annunzio, teorie, dottrine e i nomi per liquori; s'iniziò un modo di vestire, di parlare, di camminare, di scriver dediche, di legare le scatole dei confetti e sopra tutto ci si sentì grandi, eroici, individualisti ed eterni». Longanesi, pur in un contesto del tutto negativo contro il dannunzianesimo che egli definiva «un male sottile, contagioso e impalpabile» dilagato in tutti gli stati sociali, coglieva perfettamente il ruolo determinante di D'Annunzio nel promuovere una mitologia in cui si erano riconosciuti praticamente tutti.

    Un ruolo di primo piano che egli impersonò fu successivamente anche quello del poeta armato, del poeta soldato, che si schierò con gli interventisti e che partecipò direttamente alle azioni di guerra. La guerra fu per lui, inizialmente, uno stato d'animo lirico e artistico, ma presto diventò qualcosa di più. Il personaggio dell'eroe della beffa di Buccari e del volo su Vienna ebbe un 'influenza enorme su milioni di Italiani: li convinse definitivamente della necessità della guerra e degli obiettivi patriottici che essa si proponeva. L'immagine del poeta armato che, in realtà, fu un combattente straordinariamente coraggioso e audace, ebbe la stessa diffusione, se non maggiore, di quelle riguardanti il maestro di vita inimitabile e il vate nazionale. La guerra combattuta da D'Annunzio finì per acquistare agli occhi di tutti i tratti non di un 'esperienza individuale, anche se fuori dal comune, ma del coraggio e dell'audacia dell'intero popolo italiano nel sostenere le sue legittime rivendicazioni contro l'Austria. L'Italia in guerra si identificò in un personaggio che da poeta si era trasformato nel combattente disposto a «osare l'inosabile».

    La guerra, d'altra parte, segnò anche la nascita del politico D'Annunzio, che non era mai stato, nonostante fosse stato eletto deputato e avesse fatto una pur modestissima attività parlamentare. La verità è che egli scoprì la politica, l'essenza della politica, solo durante la guerra, a contatto con la gente comune, con i soldati provenienti da quei ceti sociali, popolari e borghesi, che prima aveva rifiutato o ignorato. «Fu la guerra ad incidere sulla crosta del suo individualismo esasperato e solipsistico - ha scritto³ lo storico Francesco Perfetti -, a fargli scoprire il valore e la virtù degli umili, pronti all'eroismo, alla solidarietà e al sacrificio estremo. Fu la guerra a fargli scoprire, sempre in chiave poetica e lirica ma con ben altre valenze, il senso del cameratismo, di quel cameratismo che, di lì a qualche tempo, avrebbe costituito il cemento, il vero collettore dell'impresa di Fiume.» Un'impresa, quest'ultima, che finalmente ha trovato in Renzo De Felice e nello stesso Perfetti gli storici rigorosi ed equilibrati. Si trattò, infatti, di un evento che ebbe un significato di grande rilievo non soltanto per D'Annunzio, ma soprattutto per la storia italiana. A Fiume, D'Annunzio incarnò agli occhi di tutti i connazionali un personaggio assolutamente nuovo: quello del Capo politico interprete delle aspettative e delle speranze del paese. Nell'impresa fiumana «venne creato, in una quasi mistica comunicazione di letteratura e azione, un nuovo modo di fare e gestire politica, attraverso l'uso di riti di massa e cerimonie simboliche, attraverso il ricorso a simbologie religiose in un contesto laico, attraverso la prefigurazione di una società dai connotati libertari e progressisti, ma al tempo stesso profondamente nazionalisti. Lì, in quel vero e proprio laboratorio di esperimenti politici, venne saggiato un tentativo inedito, estraneo a tutte le categorie politiche precedenti, di combinare individualismo superomistico e sentimento comunitario» ⁴ .

    D'Annunzio fu insomma una personalità eccezionale e un personaggio che ha lasciato una traccia importante, se non decisiva, nella storia del nostro paese. Ma soprattutto - ciò che più conta - è stato un grande scrittore, i cui testi ci appaiono oggi ben superiori a quei gesti che fecero di lui, come abbiamo visto, il punto di riferimento e il modello di generazioni di italiani. Lo scrittore e l'artista hanno preso definitivamente il posto del personaggio, osannato da molti, odiato da tanti altri, soprattutto da coloro che hanno usato le contraddizioni del personaggio per colpire il poeta.

    La storia della fortuna critica di D'Annunzio è, del resto, la storia di due eccessi: quelli degli apologeti pronti a esaltare tutto di lui, una minoranza peraltro, e quella dei nemici e dei denigratori per partito preso, per motivi ideologici, per provincialismo, per invidia, la maggioranza. Questi ultimi hanno vinto la partita per molti anni, relegando D'Annunzio fra gli scrittori minori, fra i testimoni di un 'epoca, buoni tutt'alpiù a lasciare un'impronta nel gusto del tempo⁵. Un giudizio, quest'ultimo, che non proveniva solo dalla critica ma anche da molti scrittori e poeti, uniti in una sacra alleanza a parlare del tintinnio falso dell'opera dannunziana e addirittura del suo «provincialismo». Il paradosso è che la maggioranza di essi rappresentava proprio una letteratura autarchica, spesso inguaribilmente provinciale.

    Ma questo fenomeno acquistava aspetti ancora più assurdi considerando che ognuno degli antidannunziani in servizio permanente nascondeva il proprio scheletro nell'armadio, avendo prelevato da D'Annunzio più di un tesoro. Fu un poeta del talento di Eugenio Montale, per nulla sospettabile di dannunzianesimo, a smascherare⁶ la realtà: «D'Annunzio è presente in tutti perché ha sperimentato o sfiorato tutte le possibilità linguistiche e prosodiche del nostro tempo. In questo senso non aver preso nulla da lui sarebbe un pessimo segno». Un altro poeta più giovane, Mario Luzi, all'indomani della morte di D'Annunzio, avvertiva⁷ che la sua esistenza, così ricca di avvenimenti significativi, era, nonostante tutto, poca cosa di fronte all'opera letteraria che egli ci aveva lasciato. Erano voci isolate, ma autorevoli e quasi profetiche di una fortuna critica che, in questi ultimi anni, è via via cresciuta, in Italia ma anche all'estero. Non mancano studiosi, anche illustri, pieni ancora di pregiudizi e di riserve mentali, ma la sterminata opera di D'Annunzio è nell'insieme oggetto di una cura e di un 'attenzione che egli, forse, non aveva precedentemente avuto, neppure nel momento del suo maggiore successo. Saggi d'insieme, studi filologici, analisi delle varianti dimostrano quanto sia mutata l'atmosfera attorno allo scrittore. Perfino le biografie hanno un taglio più rigoroso e ricorrono sempre di meno a quell 'aneddotica, fatta di disinformazione e di pettegolezzo, che di solito finiva col ridimensionare il poeta piuttosto che il personaggio.

    D'altra parte, la figura e l'opera di D'Annunzio acquistano nuovi tratti grazie alle ricerche sul fascismo (che rendono sempre più improponibile l'immagine fuorviante del D'Annunzio «fascista»), agli approcci formalistici sempre più rigorosi, alle indagini sul ruolo dei miti e degli archetipi, alla straordinaria fortuna attuale (un vero e proprio revival) dell'art nouveau e del liberty. C'è un nuovo clima culturale che permette finalmente di situare D'Annunzio nel posto di primo piano che gli spetta nella cultura italiana ed europea. Una cultura che egli ha rinnovato dalle fondamenta in tutti i campi, dalla poesia alla narrativa, dal teatro alla memorialistica. Nessuno, neppure Pirandello, ha svolto un ruolo così innovatore, così completo e così articolato. Bisogna risalire a Manzoni per trovare una figura di scrittore «universale», in grado di lasciare una traccia indelebile in qualsiasi campo dell'arte e della cultura. Un artista che coniuga la forza irresistibile del poeta, dotato di una miracolosa capacità d'invenzione, con l'uomo di cultura, capace di percorrere con piena consapevolezza intellettuale tutti i terreni dell'arte e della letteratura del suo tempo. Poeta, insomma, di prodigioso talento e insieme intellettuale dominatore di tutti i problemi estetici di un 'epoca ricca di creatività. In questa linea. D'Annunzio anticipa l'artista-critico che ha in Ezra Pound, in Thomas Stearns Eliot e in Paul Valéry tre figure diverse ma ugualmente significative.

    D'Annunzio, il vero D'Annunzio, non ha come scrittore nulla di dannunziano, se ci è permessa la battuta. Al contrario, tutta la sua opera nasce da una perfetta fusione di intelletto e di sentimento, di consapevolezza e di istinto prodigioso, di rigore e di invenzione. Poeta per dono divino, di una rara precocità, rivela subito una straordinaria consapevolezza estetica e culturale. Egli comprende che il «carduc-cianesimo» imperante nel nostro paese era ormai datato, anche se molti non se ne erano accorti, e che egli doveva porsi come «altro» da Carducci. Un 'istituzione rivelatasi lucida e anticipatrice, ma che, allora, sembrava temeraria: un 'intuizione che gli permise di prendere una strada tutta sua, una strada che guardava alle esperienze più spregiudicate e più audaci della poesia europea, francese prima fra tutte. La sua conoscenza aggiornatissima della poesia d'oltralpe si incontrò con un talento lirico tanto rigoglioso quanto sostenuto da una cultura sterminata e acuta. In lui poesia e critica finirono coll'identificarsi in una sintesi rarissima. Una poesia la sua, nelle esperienze più alte, che non aveva nulla di estetizzante e di «esteriore», come si è detto da più parti, ma che condensava l'apollineo e il dionisiaco, la luce e l'ombra, il D'Annunzio «diurno», se così possiamo chiamarlo, e il D'Annunzio «notturno». Una poesia ricca di toni, estremamente varia nei temi, sempre consapevole.

    La stessa lucidità dimostrò, fin da giovane, nella narrativa, dissolvendo le strutture del naturalismo e proponendo, anzi realizzando, un romanzo che fosse «un poema moderno»: l'espressione di una sensibilità e di una concezione della realtà del tutto nuova e originale. D'Annunzio inventò una prosa «poetica», dove la forza e l'originalità del narratore erano irrobustite dalla finezza e dalla sottigliezza del poeta.

    La stessa originalità di prospettive portò nel teatro, creando la «tragedia moderna»: non un'imitazione classicista dai tragici greci ma al contrario, una forma d'espressione nuova, in grado di legare passato e presente, parola e azione, tradizione e innovazione⁸. Un teatro, per giunta, dove la parola era strettamente legata a una gestualità e a una sensibilità che non è per nulla azzardato definire «espressionistica» per alcuni aspetti, addirittura «futuristica» per altri. Ma addirittura rivoluzionaria fu la sua concezione del pubblico come attivo protagonista dell'evento teatrale, al quale doveva collaborare con un atteggiamento opposto a quello allora corrente.

    C'è in tutto questo, per limitarci alla poesia, alla narrativa e al teatro (ma come non ricordare almeno il Notturno, capolavoro di una memorialistica modernissima?), un inesauribile sperimentalismo che ha rari precedenti nella nostra cultura. D'altra parte, per cogliere l'essenza dell'arte dannunziana, bisogna riferirsi a quel fondamentale concetto che è l'invenzione⁹ , intesa come ritrovamento. Trovare deriva etimologicamente da tropare, esprimersi con tropi, cioè trasferire una parola o un oggetto, e quindi anche un luogo letterario, dal suo proprio significato a un altro significato, o figurato o posto in un altro contesto. In questa prospettiva, la poetica dell'invenzione assimila anche gli aspetti marginali dell'esistenza, trasformando il documento in evento. Una dimensione, quest'ultima, che fa di D'Annunzio un caposcuola e lo pone, quindi, alle radici della sensibilità contemporanea, come intuì¹⁰ Benedetto Croce in un saggio che fu travisato da molti. Il «dilettante di sensazioni» di Croce è, a considerarla nel suo vero significato, una formula tutt'altro che negativa. Croce, pur consapevole che D'Annunzio apparteneva a un'epoca dominata da una crisi di valori gravissima, ebbe la consapevolezza della novità e della grandezza della sua arte fin dal 1903, data del saggio. In esso, infatti, egli paragonò D'Annunzio non solo a Carducci, com'era logico e giusto, ma anche, e soprattutto, a Manzoni e a Leopardi, pur rilevandone con lucidità le profonde differenze nei loro riguardi: un paragone colto significativamente sul terreno della «serenità dell'arte». Su questo terreno, Croce chiarisce perfettamente il senso di quel «dilettantismo» di cui parlò, assai diverso dal significato fuorviante che successivamente è stato dato al termine da legioni di crìtici, di manualisti e di insegnanti, anti-dannunziani per partito preso. Per Croce¹¹, D'Annunzio «in quanto egli fissa lo sguardo limpido, sereno e sicuro sulle cose, è artista: in quanto le cose gli appaiono fuori dalle loro connessioni superiori, come perle sciolte da una collana, e perdono il loro valore di relazione, e sola guida tra esse è il caso e il caprìccio della fantasìa o l'allettamento sensuale, è dilettante. Dilettante, ma artista: artista del dilettantismo, che in quanto tale è artista grande, perché niente di umano dev'essere alieno'dall'uomo, e anche questa disposizione spirituale ha la sua propria realtà e il suo significato». Croce, nel suo saggio, poneva D'Annunzio a simbolo ed espressione dell'arte del suo tempo e gli riconosceva, con quel paragone - che a molti poteva apparire audace - a Leopardi e a Manzoni (oltre che a Carducci), un ruolo fondamentale nella storia della poesia e della cultura italiana ed europea.

    D'altra parte, che Croce avesse ragione e che D'Annunzio sia stato una figura chiave dell'arte europea, l'hanno confermato i giudizi autorevoli ed equilibrati (privi delle passioni e dei pregiudizi italiani) di scrittori del talento di Hofmannsthal, Musil, Brecht, Henry James, Joyce, Barrés, Gide, Proust, Valéry, Hemingway, che in lui videro un loro simile o un loro antecedente sul piano dell'arte, al dì là delle differenze ideologiche e culturali. In D'Annunzio, essi'coglievano, senza quel moralismo che da noi ha intorbidato e deformato il giudizio critico, la più autentica problematica dell'arte moderna. In particolare Proust lo collocò senza alcuna esitazione, nella Prigioniera, fra gli artisti che ai suoi occhi incarnavano l'essenza della modernità: Ibsen, Renan, Dostoevskij, Tolstoj, Wagner, Strauss.

    Tutta l'opera maggiore di D'Annunzio, senza distinzione fra poesia e narrativa, fra teatro e memorialistica, è l'espressione, risolta artisticamente, della coscienza di un 'epoca malata, incerta, piena di paure e di angosce, nella quale la crisi del positivismo aveva dato orìgine a una generazione di uomini fragili e inquieti, in cerca di nuove, difficili e improbabili certezze. Una generazione di cui l'Andrea Sperelli de II piacere, come il Des Esseintes di Joris-Karl Huysmans, il Marius l'Epicureo di Walter Pater e il Dorian Gray di Oscar Wilde, fu una figura-simbolo, oltre che un grande personaggio di romanzo: il simbolo dell'uomo di cultura e di intelligenza superiore che, rifiutando la realtà oggettiva, finiva col ritenere l'idea più concreta del fatto in sé. Un critico italiano dell'epoca spiegò¹⁰ con grande sottigliezza l'orientamento degli uomini alla Sperelli verso l'artificio: «La risposta io credo potremmo trovarla tutti infondo a noi stessi. Pur lasciando da parte l'esame delle complicate cause che ci conducono coscientemente o meno a certe conclusioni [...], chi di noi può sottrarsi a quell'immenso sentimento pessimistico che ha per noi tutta l'esistenza? Quanti di noi hanno ancora la potenza di godere serenamente, quanti di noi, che pur lo credono, non s'accorgono degli artifizi che mettono in opera nella ricerca del piacere ? E se non sono arrivati alle sottili elaborazioni spirituali, sanno essi quanto ciò, più che da loro, sia dipeso dalla eredità e dalle condizioni esteriori?».

    Con D'Annunzio, il nostro paese, provinciale culturalmente per tanti aspetti, entra a vele spiegate nella cultura europea. Egli - come Croce sul piano della filosofia - è uno scrittore che porta l'Italia in Europa e l'Europa in Italia: un'operazione di straordinaria portata e assolutamente necessaria per uscire da una sostanziale angustia di prospettive che era proria dell'Italia fin de siècle. D'Annunzio ne ebbe piena consapevoleza e lo dichiarò¹³ apertamente in un 'intervista molto importante, rilasciata nel 1895 al critico Ugo Ojetti. In essa, tenne a sottolineare come «nell'artista moderno non debba ripercuotersi la vita della nazione soltanto, ma quella del mondo, e come l'arte moderna debba avere un carattere di universalità, debba abbracciare e armonizzare in un vasto e lucido cerchio le più diffuse aspirazioni dell'anima umana». Era una dichiarazione che non rimase tale, ma che D'Annunzio concretizzò negli anni seguenti con un'opera la cui fecondità e varietà non era mai subordinata alla qualità dell'arte. Un 'arte che oggi viene riscoperta non solo in Italia, ma anche in nazioni culturalmente più vive e più spregiudicate della nostra come la Francia, la Germania, l'Inghilterra e perfino gli Stati Uniti, dove le università di Yale e di Harvard sono in prima linea - come in Italia il Vittoriale di Gardone e il Centro Nazionale di Studi Dannunziani di Pescara - nell'indagine su tutti gli aspetti dell'opera dannunziana. La verità è che, nonostante i pregiudizi, le incomprensioni e le chiusure ideologiche nei suoi confronti, l'opera di D'Annunzio, nei suoi capolavori ma talvolta anche in qualche testo «minore», ha una vitalità e una forza stilistica che non teme il trascorrere del tempo, oltre che il mutare del gusto e delle mode. Ma - ciò che più conta e che probabilmente spiega il suo sorprendente ritorno all'attenzione dei lettori più giovani - la sua arte ci appare oggi per nulla datata, anzi per molti aspetti attuale.

    È un'affermazione, la nostra, che a qualcuno potrà sembrare forzata o temeraria ma che, in realtà, rispecchia le singolari consonanze fra l'epoca storica in cui egli operò e quella in cui ci troviamo a vivere. L'arte di D'Annunzio è l'espressione creativa di un'epoca nella quale, caduti certi valori morali, la vita si regge sulla «gara delle cupidigie», sull'affermazione delle forze distruttive e sull'«epicureismo pratico», come intuì¹⁴ ancora una volta Croce. Senza voler fare analogie troppo rigide fra periodi storici così lontani fra loro, è certo, tuttavia, che esistono indiscutibili riferimenti all'oggi. Forse non è casuale che in D'Annunzio la nuova generazione trovi inquietudini che sono proprie del suo modo di pensare e di porsi nei confronti della realtà. Il successo de II piacere (long book giovanile in Italia come in Francia), ad esempio, è più spiegabile in questa direzione che con le straordinarie qualità poetiche e stilistiche del romanzo. Il momento attuale è caratterizzato - soprattutto se lo consideriamo dal punto di vista dei giovani - da tutta una serie dì incertezze e dì paure che lo rendono in qualche maniera simile a quello di cui D'Annunzio è stato l'interprete più lucido e più sottile. Il mondo - è un pericolo che molti avvertono -rischia di ridursi - ora come alla fine dell'Ottocento — «a un gioco, a una fonte di commozioni più o meno disgregate e fuggevoli»¹⁵ . Un pericolo che D'Annunzio non esitò a sottolineare, anche se la sua rappresentazione della crisi dell'uomo, del caos in cui è caduto, non è magmatica, ma «alcìonica», limpida, tutta risolta sul piano della «serenità dell'arte».

    GIOVANNI ANTONUCCI / GIANNI OLIVA

    ¹ Cfr. P. Chiara, Vita di Gabriele D'Annunzio, Milano, Mondadori, 1978.

    ² Cfr. L. Longanesi, La morte del cigno, in «L'Italiano», 30 novembre 1928, cit. da S. Costa, Gabriele D'Annunzio. Volti e maschere di un personaggio, Firenze, Sansoni, 1988, p. 287.

    ³ F. Perfetti, «D'Annunzio, ovvero la politica come poesia», in AA.VV., D'Annunzio e il suo tempo. Un bilancio critico, I, Genova, Sagep editrice, 1993, p. 375.

    ⁴ Ivi, p. 376.

    ⁵ Cfr., per esempio, N. Sapegno, «D'Annunzio lirico», in AA.VV., L'arte di Gabriele D'Annunzio, a cura di E. Mariano, Milano, Mondadori, 1968, p. 159.

    ⁶ Cfr. E. Montale, Sulla poesia, Milano, Mondadori, 1976, p. 68.

    ⁷ Cfr. G. Pampaloni, «L'eredità di D'Annunzio», in AA.VV. D'Annunzio europeo, a cura di P. Gibellini, Roma, Lucarini, 1991, p. 45.

    ⁸ Cfr. G. Antonucci, «D'Annunzio e il teatro di poesia», in Storia del teatro italiano del Novecento, IV ed., Roma, Studium, 2002, pp. 11-22. Sull'atteggiamento della critica verso il teatro dannunziano, cfr. anche G. Antonucci, Storia della critica teatrale, Roma, Studium, 1990.

    ⁹ Cfr. G Oliva, D'Annunzio e la poetica dell'invenzione, Milano, Mursia, 1992.

    ¹⁰ Cfr. B. Croce, «Gabriele D'Annunzio», in La letteratura della nuova Italia, IV, Bari, Laterza, 1973, p. 7-66.

    ¹¹ Cfr. B. Croce, op. cit., p. 11.

    ¹² Cfr. G.S. Gargano, «Giovanni Des Esseintes», in Vita nuova, n. 32, agosto 1889.

    ¹³ Cfr. U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati (1895), a cura di P. Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1957, p. 342.

    ¹⁴ Cfr. B. Croce, op. cit., p. 12.

    ¹⁵ Ivi, pp. 12-13.

    D'Annunzio prosatore

    1. Nella prosa ritmata a respiro breve del Libro segreto D'Annunzio tornava qualche volta con la memoria alle letture dell'infanzia, alla voglia di avventura respirata sulle pagine di capitan Cook¹ . La rievocazione del «rapimento gioioso e tormentoso», peraltro mai più avvertito con tale intensità, e l'anelito al sogno meraviglioso simboleggiato nel blu in margine alle terre, più che una nostalgia di sentimenti perduti e comunque legittimi nel vecchio solitario, può leggersi soprattutto come riaffermazione della sua precoce tendenza a trasfigurare, magari fantasticando sulla carta geografica all'inseguimento di paesi esotici e di mondi sconosciuti. È un modo per sottolineare il suo istintivo rapporto con il reale, inteso non come riproduzione fotografica, esattezza di dati oggettivi, ma come precoce e dinamico controllo dei fenomeni esterni attraverso il filtro della mente creativa. L'esperienza infinita gli aveva insegnato che «Viaggiare non giova», perché la diretta conoscenza dei luoghi non conta più dell'immaginazione nella solitudine della stanza, a ulteriore esibizione della poetica decadente che rivendicava l'indiscusso primato del sogno.

    A queste confessioni tardive fa da pendant la consapevolezza, maturata già dagli anni verdi, della sua prorompente inclinazione a cercare «oltre l'aspetto delle cose», a dare ad esse «un significato», «uno spiracolo di vita», a individuare, insomma, i «pensieri della natura»² . Ma allorché D'Annunzio avviò la sua attività di narratore con le novelle di Terra vergine (1882), il panorama culturale dell'Italia post-unitaria, vario e complesso, esigeva ben altro che il vagheggiamento di terre lontane. Al contrario si diffondeva sempre più l'e-sigenza di aderire al concreto e di riprodurne le sfaccettature regionali dietro l'influsso del naturalismo. La nuova nazione stimolava gli scrittori a restringere i propri campi d'indagine alle province e alle zone periferiche, in modo che l'osservazione dei costumi offrisse un quadro particolareggiato di un unico corpo territoriale, le cui singole voci partecipassero al coro, a quella che Croce chiamerà con «la grande conversazione». Lo scopo era di rendere nota un'Italia remota e sconosciuta con le sue abitudini, tradizioni e bisogni dissimili da un luogo all'altro, facendo magari balzare in primo piano le questioni sociali del Mezzogiorno, le «miserie», gli «affetti» e le «condizioni presenti delle classi bisognose». Erano propositi sostenuti energicamente da riviste molto lette come la Rassegna settimanale di Franchetti e Sonnino, che non a caso ebbe tra i suoi collaboratori anche Verga. E c'è forse da dire che senza tali direttive entrate nella coscienza comune, difficilmente avremmo avuto nell'Italia degli anni Settanta e Ottanta la vasta fioritura di romanzi e novelle del realismo provinciale o verista.

    Con gli altri narratori della nuova stagione, in cui suo malgrado si trova a operare, D'Annunzio ha in comune il punto di partenza, ma non gli esiti. Affascinato certamente dal mondo di Verga, del quale si mostra presto accanito lettore, non sempre gli è fedele nella tecnica riproduttiva, giungendo per suo conto a costruire una realtà quasi rovesciata rispetto a quella del modello. E le ragioni di tale diversità non sono forse da cogliere unicamente nei rispettivi temperamenti individuali, l'uno concreto e positivo, l'altro esuberante e fantasioso, ma anche nelle diverse condizioni culturali e nelle suggestioni specifiche che D'Annunzio ricava dal mito della terra d'origine attestato nella tradizione antica e recente.

    Fin dai tempi del Boccaccio, che nelle novelle di Calandrino e di fra' Cipolla aveva alimentato una curiosa mentalità popolare, l'Abruzzo era stato addirittura identificato con una regione esotica, pressoché confinante con quella della pietra filosofale. Gli stessi viaggiatori delle età successive, pur cogliendo gli aspetti realistici del paesaggio e delle abitudini, avevano mantenuto in vita certe credenze spesso fraintendendo i comportamenti degli abitanti, esagerando le incursioni dei briganti, correndo dietro alla suggestione delle asperità naturali, delle montagne, dei sentieri impervi e delle foreste impenetrabili. Di questo Abruzzo «pittoresco» era inevitabile che si impadronisse poi la letteratura gotica inglese, di cui offre un calzante esempio Anne Radcliffe, l'autrice de L'Italiano ovvero il confessionale dei penitenti neri (1797), opera di ampia risonanza, non ultimo per i suoi influssi su Keats, Byron, Scott, Coleridge. Il paesaggio descritto è quello di una geografia di carta con gole rocciose, «pianori lontani e vette montuose», con un fiume dalla «forza impetuosa» che scorre negli abissi «come a voler reclamare il dominio esclusivo di quel luogo selvaggio e solitario»: «Il suo letto occupava l'intero fondo del crepaccio, formatosi probabilmente da qualche convulsione della terra, tiranneggiando lo spazio persino alla strada lungo il suo margine. Il suo tracciato pertanto era portato più in alto, fra i dirupi che sovrastavano il fiume, e pareva sospeso nell'aria mentre la paurosa vastità dei precipizi che torreggiavano al di sopra e affondavano sotto, unite alla forza sorprendente e al ruggito delle acque impetuose, contribuivano a rendere quella gola più terrificante di quanto la penna possa descrivere o la lingua raccontare»³ .

    D'altro canto, la tradizione narrativa indigena, anche se scarsa e di poco rilievo, non era stata da meno nell'offrire esempi che confermavano il piacevole stereotipo: dai novellieri di educazione romantica presenti nel Giornale abruzzese di Pasquale De Virgiliis (si pensi al modesto racconto di imitazione manzoniana di Raffaele d'Ortenzio dal titolo I fidanzati abruzzesi), a un attardato scrittore come Ignazio Cerasoli, autore di un volumetto di Novelle abruzzesi intonato alle fattezze del racconto storico in pieno 1880 (Milano, Ambrosoli, 1880), al primo Ciampoli, tornava un Abruzzo come paesaggio di fantasia dalla natura vergine ed esuberante⁴ .

    2. D'Annunzio, dunque, pur prendendo l'intonazione dal Verga di Vita dei campi, aveva certo di che nutrirsi, sia pure indirettamente, nell'ambito della letteratura regionale e di quella non specifica. Rispondeva così al richiamo dei tempi alimentando dal canto suo un'immagine della terra d'orìgine confacente al collaudato e un po' desueto cliché, di certo lontano dai criteri di rappresentazione promulgati dai naturalisti e dai veristi. In più si affidava all'esuberanza carnale della sua giovinezza, allo straripamento delle energie vitali, all'orgia di profumi, di colori e di sensazioni che gli venivano dal temperamento sensuale e dalla innata capacità a deformare il fenomeno.

    La sua pagina si carica di elementi esotici, dì tipo vegetale e zoologico (non si dimentichino i riferimenti alla pantera, al giaguaro), che si ricollegano alla decisa volontà di attuazione del sogno inappagato di terre lontane. Come quando fantasticava dietro ì resoconti di Cook, egli disegna un Abruzzo in qualche modo somigliante all'Africa, mito dei suoi giorni, dopo la scoperta del Continente nero da parte dei grandi esploratori, da Livingstone a Stanley. Un riflesso di quel clima si scorge anche nella contemporanea produzione poetica

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