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Profondità: vita e segreti dell'uomo degli abissi
Profondità: vita e segreti dell'uomo degli abissi
Profondità: vita e segreti dell'uomo degli abissi
E-book247 pagine3 ore

Profondità: vita e segreti dell'uomo degli abissi

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Info su questo ebook

La vita di un uomo è l'intervallo di tempo fra la sua prima e la sua ultima respirazione. Le immersioni di Guillaume Néry si collocano tra un'ultima e una prima respirazione. Ogni immersione di questo campione del mondo di apnea in assetto costante è un percorso spirituale, un viaggio interiore verso una migliore conoscenza di sé, una rinascita a sensazioni scomparse fin dalla fondazione del mondo. In questo libro, Guillaume Néry ci fa immergere nel cuore del suo allenamento, della sua routine, delle sue prestazioni, delle difficoltà tecniche che deve superare. Più che uno sport l'immersione è per lui una filosofia di vita, un mezzo per riconnettersi con se stesso, per esplorare l'oceano, questo sesto continente ancora sconosciuto, per confrontarsi con il pericolo, ma soprattutto con l'abbandono, con l'accettazione delle pressioni psicologiche e climatiche al fine di adattarsi all'universo "altro" che è il fondo dei mari. Un percorso fuori dal comune che ci porta alle frontiere dei limiti umani.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2015
ISBN9788827226377
Profondità: vita e segreti dell'uomo degli abissi
Autore

Guillaume Nery

Campione francese di apnea, ha battuto per quattro volte il record del mondo di apnea in assetto costante (discesa e risalita con la sola forza delle pinne, o senza) ed è campione del mondo a squadre. Nel 2011 è diventato campione del mondo grazie a una discesa a — 117 metri. Oggi si immerge fino a — 125 metri.

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    Anteprima del libro

    Profondità - Guillaume Nery

    1. Inspirazione (preparazione)

    La vita di un uomo

    La vita di un uomo è l’intervallo tra il suo primo e il suo ultimo respiro.

    Le mie immersioni si svolgono tra un ultimo e un primo respiro.

    Qui c’è un cammino inverso, un percorso esplorato marginalmente, una rottura con il buon senso, secondo cui respirare è d’una certezza mai sondata, di una banalità mai messa in discussione, fino all’ultima ora che porterà uno specchio sopra le labbra livide e, per l’assenza di vapore sul vetro, dichiarerà che è stato esalato l’ultimo respiro.

    Da diciassette anni, i miei momenti più ansanti, più intensi, si svolgono a bocca chiusa, col naso serrato, senza proferire parola, senza nemmeno baci sulle guance. C’è una perdita volontaria di certe sensazioni a favore di un perfezionamento assoluto di altri sensi, di altri sentimenti.

    Vivo in apnea, e i profumi mi sono negati durante i quattro minuti che mi portano e mi riportano dall’alto in basso e dal basso in alto.

    Vivo nell’acqua salata, e non gusto mai l’amarezza. Vivo in un carico di carne e di ossa, trasportando preziosamente alcuni litri di ossigeno e di anidride carbonica, che si diluiscono nelle membra delle mie terminazioni nervose, nei pistoni del mio motore naturale, nei casseri di poppa delle mie sinapsi sincopate.

    Vivo andando e tornando dai fondali di un mondo nascosto, regolando metro dopo metro nel visore dei miei occhi chiusi il piano portante di un’architettura dell’universo. Vivo respirando ampiamente e profondamente, pervaso dall’alito degli uomini, senza mai lasciar espirare la mia voglia di capire da dove vengo e da dove risalgo, uomo verticale dalle domande a bolla di sapone.

    Mattino grigio

    La mattina di un’immersione, ci si risveglia lentamente. È come se non fosse davvero necessario risvegliarsi.

    È come se la discesa potesse andare meglio se la notte continuasse un poco, se il sonno non fosse per forza scandito dalle streghe dell’attività, se i sogni e gli incubi continuassero a inseguirsi come poliziotti e ladri, come se l’onirismo fosse più interessante del dolorismo per giungere a ristorare la mente e liberare i neuroni al tempo stesso.

    Mi alzo, vado a fare pipì, poi mi lavo i denti. Faccio qualche saluto al sole. Eseguo in sequenza dodici posizioni di yoga che ritmano la respirazione. Faccio tutto lentamente, senza un gran coinvolgimento né un reale interesse. Non parlatemi soprattutto di risveglio muscolare né di cura di vitamine, e ancor meno di ginnastica musicale coi tormentoni di Radio NRJ urlati a squarciagola o i jingle dell’informazione ansiogena.

    Sono un poco assente, non molto interessato. È inutile parlarmi, rispondo vagamente. Lascio aleggiare l’incertezza sulla mia presenza al mondo e il dubbio sulla mia connessione alle vibrazioni 4G dell’umanità attiva.

    A colazione, sgranocchio i quattro angoli delle fette biscottate nella mia distrazione. Non dico granché, mi metto in modalità risparmio energetico, corpo e mente a basso consumo.

    Tutto questo non è la natura del malumore, o i gesti in ciabatte di una persona che si è alzata con il piede sbagliato. Tutta questa mollezza della volontà, tutto questo abbandono delle interazioni, richiede un’accettazione, un lasciar perdere e lasciar correre tipici delle economie post-libidiche.

    Paradossalmente, bisogna un po’ sforzarsi di mantenere il proprio corpo al rallentatore. Si fa una scelta di lentezza, alla quale bisogna attenersi, senza rafforzare eccessivamente la decisione. Metto un filtro alla mia identità sociale. Non venite a sollecitare la mia attenzione!

    Ho avuto a lungo un problema di concentrazione. Dovevo comportarmi come se tutto quel che mi stava attorno non fosse grave, come se non fosse niente, rimbalzavo di gruppo in gruppo, una palla dura che sbatteva contro il muro di uno squash umano, e che fendeva le pareti dell’acquario comune.

    Parlavo, scherzavo.

    Ero quello mezzo matto, il giovane lupo, il lupo mannaro. Mi imballavo come mi succede di fare la sera, ero quello sempre sopra le righe, l’intrattenitore un po’ grossolano. Tendevo al superlativo, all’emozione, all’autoderisione, poiché tutto era un piacere minore, senza una sfida più grande.

    Ho finito per non raccontarmi più storie e per affrontare le cose con il ragionamento. Sì, tutto ciò non è molto grave e ci sono cose più importanti, drammi e disastri ben più terribili che infieriscono su questa terra di miseria.

    Sì, bisogna apprezzare la propria attività ed è uno dei motori della questione.

    Sì, bisogna evitare di sacralizzare l’esercizio, di ritualizzarlo come se divenisse pertinenza del religioso, della fede.

    Ma no, non bisogna affrontare tutto questo con leggerezza.

    No, non bisogna dar più importanza al dilettantismo quando si sa bene che la disciplina richiede concentrazione e rilassamento, preparazione e distacco, valutazione e impegno.

    Ho smesso di sghignazzare davanti a quelli che si mettevano la muta due ore prima per poter cogliere il fiore di loto del loro mentale.

    Ho smesso di comportarmi come un ragazzino con la testa tra le nuvole che, mezz’ora prima dell’ora prestabilita, si ricordava di avere un impegno un po’ particolare e che forse era arrivato il momento di smetterla con le sue stupidaggini.

    Rompendo con la teoria yogi così come con la strategia dello sdrammatizzare, ho realizzato che mettermi in modalità tranquilla quando mi alzo è quel che mi riesce meglio.

    Routine

    Gli ultimi concorrenti, quelli che scendono più in basso, in generale partono verso le 13.

    Alle 11 mangio una barretta ai cereali e m’inoltro passo dopo passo in un conto alla rovescia che non ha niente a che vedere con quello di un thriller. Mi applico invece a coltivare quella letargia nella quale distendo la mia finta pigrizia.

    Prima, procedevo come uno sportivo che scalda il corpo, che sgranchisce le articolazioni, come un ballerino che ripete le sequenze per avviare automatismi e tenere a bada l’angoscia.

    Mi mettevo in acqua quaranta minuti prima dello start. Facevo due o tre discese a 10-15 metri e poi un’altra più profonda a 30 metri con poca aria nei polmoni per abituarli meglio alla pressione che avrebbero subito a grande profondità.

    Agivo esattamente come uno scattista che si abbassa sui blocchi di partenza, per verificare la sua reattività, oppure prolunga un poco la sua fase di spinta per oliare bene la sua falcata e anticipare le sensazioni che bisognerà riattivare.

    Questo momento di riscaldamento era un tempo di introspezione, un istante di dubbio e un tentativo di rassicurazione. È una buona giornata per me? Sto provando le giuste sensazioni? La mia mente è in sintonia con il mio corpo?

    Ormai, non faccio più niente, quasi più niente, soltanto alcuni esercizi di respirazione per preparare i miei polmoni e la cassa toracica alla deformazione che subiranno a –125 metri. In compenso, nessuna immersione a un livello minimo, nessuna apnea.

    Non metto più la testa in acqua, non mi bagno nemmeno la nuca come facevano i nostri nonni, ai quali avevano insegnato che così si evitava lo choc termico, e che bisognava raffreddare la lucertola surriscaldata dalle spiagge per trasformarla in un pesce fresco con il cervello refrigerato.

    Il più delle volte, il luogo della competizione si trova a circa 200 metri dalla spiaggia. In Grecia, a Calamata, ci vogliono dieci minuti di battello. Alle Bahamas, è ancor meglio. Si raggiunge la piattaforma in un minuto di nuoto tranquillo, naso al vento, come una nonnina che non vorrebbe rovinare la sua permanente.

    Diving reflex

    William Trubridge, uno dei miei avversari più coriacei, è all’origine di questa evoluzione dei comportamenti.

    Il diving reflex, o "riflesso d’immersione", è un meccanismo innato che si attiva in ogni essere umano quando si immerge. Nel momento in cui l’uomo si fa pesce si innescano due fenomeni.

    1) La bradicardia. Nel volto ci sono dei recettori sensibili al freddo. A contatto con l’elemento liquido, questi recettori mettono l’organismo in una logica di economia d’ossigeno. Il ritmo cardiaco cala. L’apneista allenato abbassa più velocemente le sue pulsazioni rispetto a un terrestre medio, ma il principio è lo stesso. Il mio cuore batte a 40, 42 pulsazioni al minuto al risveglio. Sono a 60 pulsazioni prima dell’immersione. E nell’acqua calano molto velocemente a 30 pulsazioni.

    2) La vasocostrizione periferica. Dal momento in cui si mette il volto nell’acqua, il sangue defluisce dalle estremità e si concentra sugli elementi vitali, cuore, polmoni, cervello. L’organismo comprende che si deve adattare a un nuovo ambiente, che deve modificarsi per difendersi. Economizza l’energia disponibile e polarizza la sua attenzione sugli organi principali, li difende e li tratta con dolcezza.

    Abbiamo questo riflesso d’immersione in comune con i mammiferi marini, che sono in grado di far battere il loro cuore cinque volte meno forte, passando da 50 a 10 pulsazioni al minuto, ma il principio resta lo stesso.

    Loïc Leferme, il mio amico scomparso, il modello dei miei esordi nizzardi, e Pierre Frolla, amico e campione d’apnea monegasco, hanno partecipato nel 2000 a uno studio comparativo con i leoni marini, per individuare questo meccanismo.

    L’idea di Trubridge è quella di affidarsi agli automatismi innati del corpo immerso a sorpresa in un liquido di una temperatura inferiore alla sua, piuttosto che tentare di adattarlo a una nuova richiesta, di prepararlo a un nuovo elemento.

    Trubridge pensa che il riscaldamento a base di immersioni poco profonde mandi un segnale negativo al corpo. Questo modo di procedere gli farebbe credere che il suo proprietario prende il controllo. Il corpo, deresponsabilizzato, ritarderebbe così il momento del riflesso d’immersione.

    Secondo Trubridge, è meglio non esercitarsi in niente, in modo che il riflesso d’immersione ritrovi i suoi parametri pavloviani e funzioni immediatamente.

    Ho adottato questo metodo e mi ci trovo bene. Risparmiare le piccole immersioni mi rende fisicamente più fresco, più recettivo e pronto.

    Psicologicamente, il fatto di entrare in una sola volta, di buttarsi letteralmente in acqua, mi segnala che è il mio turno, non ci sono più rinvii, non c’è più da avviare negoziati con il mio superego.

    Dare confidenza alle profondità senza preamboli è il risultato di un lungo processo di adattamento: mi immergo fin da quando avevo diciassette anni. Il mio corpo è plasmato dall’oceano e mi permette questa tecnica, che non va praticata assolutamente senza lunghi anni di esperienza!

    Sono sulla schiena, lo sguardo al cielo, filtrando il sole tra le ciglia e mi dico: Staremo a vedere.

    Non sono uno sportivo che cerca di sviluppare i muscoli per le sue prestazioni. Sono un mammifero umano che deve riesumare capacità che possedeva quando era cugino dei mammiferi marini.

    Non si tratta di facilitare attitudini, di moltiplicare competenze, di esigere potenza. Si tratta di liberare arcaismi, di aprire potenzialità, di calarsi in un elemento conosciuto da lungo, lungo tempo.

    Bisogna cercare di ritrovare una scatola nera che abbiamo tutti posseduto da tempi immemorabili, che abbiamo lasciato si perdesse per negligenza o che abbiamo barattato con altre attitudini.

    Siamo ben pochi a cercare quella scatola nera, dispersa nel fondo di ciascuno di noi, in fondo all’oceano costituito da ogni essere umano, siamo ancora in minor numero a trovarla. E ancor peggio, una volta dissepolto il tesoro, spesso ci accorgiamo che ci manca il modo di usarlo.

    La decrittazione si esegue a tentoni: secondo la fortuna e il talento che ci sono stati concessi. E anche quelli più interessati, anche quelli meglio dotati, si accorgono che il software è difficile da usare, che il codice resiste ai migliori hacker in mute isotermiche.

    Non iperventilare

    Si crede spesso che gli apneisti debbano ventilare a oltranza fino a spolmonarsi prima di immergersi, e che questo permetta loro di ottimizzare il loro deposito di ossigeno, che l’ossigeno è l’unico carburante e che senza abbondanza di questo petrolio umano non arriveranno alla fine della strada.

    Si è pensato a lungo che l’iperventilazione coi polmoni alla soglia massima era una pratica necessaria, indispensabile, raccomandata. Ci si è poi resi conto che è vero il contrario.

    La nostra attività è giovane ed è normale che le realtà del passato diventino gli strafalcioni di oggi. Ed è possibile che i metodi accettati attualmente diventino oggetto di scherno per gli apneisti del futuro.

    L’iperventilazione è un falso amico. Rimpinzarsi di ossigeno parrebbe intelligente. Se ne assorbe una gran quantità, dunque si dovrebbe riuscire a stare più tempo senza respirare. Questa parrebbe una procedura dettata dal buon senso. Però la macchina corporea ha i suoi limiti. Una ventilazione tranquilla e profonda è sufficiente a saturare di ossigeno l’emoglobina. L’iperventilazione non porterà O2 supplementare all’organismo. In compenso, eliminerà la CO2 dal sangue.

    Il problema è che, disfacendosi della CO2, arretra la soglia del dolore. In realtà, si disattiva l’allarme, si minimizza la sensibilità dei recettori, si modifica l’equilibrio interno.

    È l’aumento del tasso della CO2 nel sangue che invia il primo segnale d’allarme, la prima voglia di respirare, per ricordarci che non siamo pesci. Inoltre, respingere l’allarme frena il riflesso di immersione che riserva l’ossigeno alle funzioni vitali.

    Nell’apnea profonda, in assetto costante – la mia disciplina – le braccia sono ferme, tese sopra la testa. Ma le gambe lavorano, gli addominali hanno un moto ondulatorio, i lombari accompagnano il movimento. Quando si verifica il riflesso d’immersione, il sangue lascia la periferia del corpo e si concentra nel cuore, nel cervello e nei polmoni. I muscoli funzionano in privazione di ossigeno. L’acido lattico scorre a fiumi, fa male, brucia, ma è un buon segno! È stata attivata la modalità sopravvivenza.

    Diversamente che negli altri sport, noi non cerchiamo di respingere la montata di acido lattico. L’acido è nostro amico per lo spazio di un viaggio, è la prova che l’O2 è in un luogo sicuro.

    Non ha importanza se le nostre parti basse soffrono, finché il cervello conserva un chiaro panorama dell’insieme del dispositivo.

    È un po’ lo stesso meccanismo delle vetture ibride: nel nostro organismo il mentale potrebbe seguire sul suo diario di bordo l’evoluzione del corporeo. Come nei Prius, uno schema evolutivo si proietta sui nostri Google Glass immaginari, sui nostri schermi di controllo di uomini subacquei. Ci mostra i livelli di consumo sanguigno, la parte dell’energia fossile, dell’elettrico, del cinetico, il sopravvento che prendono gli uni sugli altri, i trasferimenti, le compensazioni, i segnali di pericolo con fumogeni prima arancioni e poi rossi.

    Fare la carpa

    Il mattino dell’immersione, ho scaldato il mio diaframma, l’ho impastato, stirato, fatto salire, fatto scendere.

    Per tutta l’attesa, continuo a fare lavorare questo muscolo, a tenerlo in movimento, per conservare la sua flessibilità.

    Faccio un’inspirazione più profonda possibile, riempio fino all’orlo i polmoni. 9 litri di aria li gonfiano come palloncini, mentre la mia capacità media a riposo è di 5 litri e, proprio in fondo, saranno compressi e conterranno meno di 1 litro.

    A quel punto, blocco e succhio l’aria con le labbra arricciate, respirando come una carpa, facendo delle bolle come fa questo pesce in fondo al suo lago. Del resto, noi chiamiamo questa tecnica la carpa.

    Giocando con la glottide, arrivo a comprimere l’aria nei miei polmoni. Posso aggiungervi tra 1 e 2 litri di aria supplementari, il che fa la differenza quando si è a più di 120 metri di profondità.

    Quindi, mi svuoto completamente, tentando di strizzare dai miei polmoni l’ultimo centilitro di gas che vi potrebbe ancora essere trattenuto, un po’ come una lavandaia che torce le lenzuola dopo averle sbattute al torrente.

    Ed è come se sbrogliassi quelle due masse spugnose per poi piegarle in quattro e farle stare in uno spazio troppo piccolo per loro, così come fanno i contorsionisti che entrano nel baule e vi si attorcigliano perché il coperchio si possa ripiegare sulla loro schiena.

    Alga languida

    Restano tre minuti prima della partenza. Mi lascio scivolare dalla piattaforma e mi avvicino a quel che viene chiamato cavo ma che di fatto è una corda da scalata.

    Ci tengo a recarmi lì con i miei mezzi, mentre altri, per risparmiarsi del tutto, si lasciano prendere sotto le ascelle e trasportare da due assistenti fino alla zona della partenza. È un po’ come se, già prima di avere cominciato, si facessero portare, pallidi, come feriti gravemente dalla vita, come fiori velenosi già appassiti.

    Se non sono capace di recarmi sul posto da solo, significa che non sono capace di andare a fondo.

    Mi allungo, sempre sul dorso, il viso offerto all’immensità del cielo, gli occhi socchiusi per filtrare la luce, con l’acqua che sbatte mollemente sulle mie guance in un allegro sciabordio. Mi dedico a tranquillizzarmi, a rallentare il ritmo, a far scendere la temperatura.

    Sono nella posizione distesa dei dormienti, in quel fluttuare d’acqua languida, nel distacco dei trapassati.

    Sono in una culla di vimini, neonato cullato dal fiume.

    Ultimi istanti

    I miei ultimi minuti da terrestre hanno il languore di una respirazione che rallenta. La massa infinita dell’oceano mi dondola. Sopra, il cielo apre una porta verso l’infinito. Non c’è nessun limite, la vertigine ha il sopravvento, dolcemente.

    Arrivato al cavo, aggancio il mio cavetto di sicurezza. Si tratta di 1 metro di filo da pesca solidissimo che ha una resistenza di 400 chili e può trascinare un marlin.

    Il tintinnio del moschettone lancia il conto alla rovescia. Mi aggancio? Inizio dell’immersione. Mi sgancio? Fine dell’immersione. Respiro senza esagerare, senza sovraccaricare i polmoni. Inspiro con il naso e con il ventre. Mi blocco per tre o quattro secondi. E poi espiro con la bocca.

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