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Terra Sacra: Religione e natura degli Indiani d'America
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E-book262 pagine5 ore

Terra Sacra: Religione e natura degli Indiani d'America

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Questo viaggio illuminante attraverso il territorio della spiritualità degli Indiani d’America, con le loro tradizioni di riverenza verso la terra, si contrappone al rifiuto del sacro da parte della società contemporanea – e alla sua arrogante fede nel proprio potere di controllo sul cosmo. L’Autore ricostruisce il significato archetipico e simbolico dei rituali e dei siti sacri degli Indiani d’America, esaminando la loro spiritualità nel contesto delle grandi religioni mondiali. Il confronto mette in evidenza la ricchezza e l’universalità del loro approccio verso la terra, considerata come un essere vivente da amare e rispettare, e rivela la povertà dei nostri attuali atteggiamenti verso l’ambiente e le sue creature viventi.
Senza perorare una conversione di massa alle tradizioni religiose degli Indiani d’America, o un’imitazione delle loro pratiche autoctone, Versluis ci mostra in che modo queste tradizioni rivelano la nostra vera eredità spirituale come esseri spirituali, indipendentemente dalla nostra ascendenza.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788827228920
Terra Sacra: Religione e natura degli Indiani d'America
Autore

Arthur Versluis

Arthur Versluis insegna letteratura, mitologia e scrittura al College of Arts & Letters della Michigan State University. Autore di numerosi libri e articoli sulle religioni e le culture tradizionali, è anche direttore della rivista Avaloka: A Journal of Traditional Religion and Culture.

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    Anteprima del libro

    Terra Sacra - Arthur Versluis

    introduzione all’edizione italiana

    Qualcosa ‘di aquilino e di solare’.

    Primordialismo degli Indiani d’America

    e civilizzazione di Occidente

    a O.

    Mi natura dedit leges a sanguine ductas.

    Properzio, Elegie 4,11

    αἰὼν παῖς ἐστι παίζων πεσσεύων• παιδὸς ἡ βασιληίη.

    Eraclito, fr. B52

    Solo dopo che l’ultimo albero sarà abbattuto, solo dopo che l’ultimo lago sarà inquinato, solo dopo che l’ultimo pesce sarà pescato, voi vi accorgerete che il denaro non può essere mangiato.

    Toro Seduto

    Nell’annus fatalis 1968, J. Evola scriveva ne L’arco e la clava: I pellirosse erano razze fiere con un loro stile, con una loro dignità, una loro sensibilità e una loro religiosità; non a torto uno scrittore tradizionalista, F. Schuon, ha parlato della presenza, nel loro essere, di qualcosa ‘di aquilino e di solare’. E noi non temiamo di affermare che se fosse stato il loro spirito a improntare in misura sensibile, nei suoi migliori aspetti e su un piano adeguato, la materia immessa nel ‘crogiuolo americano’, il livello della civiltà americana sarebbe stato probabilmente più alto¹.

    Non troppo paradossalmente, è proprio da questo crogiuolo estre­mo-occidentale che è giunta – all’intersezione fra studi antropologico-religiosi, pratica etnografica e orientamento tradizionale, e quindi in una nicchia marginale della società statunitense – la spinta per un significativo religious awakening delle tradizioni proprie dei pellerossa (in particolare Lakota). Verso la fine degli anni Quaranta del Novecento – decade particolarmente difficile per la nazione indiana – si situa infatti l’incipit dell’opera di J.E. Brown (1920-2000), che fu assistente della massima autorità nel campo degli studi sugli Indiani d’America, A. Hultkrantz², dal 1970 al 1972 docente presso l’Università dell’Indiana (Bloomington), e quindi, dal 1972 al 1989, presso l’Università del Montana (Missoula). Probabilmente incoraggiato dalla convergenza con R. Guénon in merito a un’approfondita indagine sullo sciamanesimo quale erede della tradizione primordiale³, nel 1946 F. Schuon spinse Brown a mettersi in contatto con Alce (in realtà Cervo) Nero (Hehaka Sapa, 1863-1950), medicine man (pejuta wikasa) dei Sioux Oglala, battezzato con rito cattolico nel 1904 e deceduto nella riserva di Pine Ridge, South Dakota, già oggetto dell’autobiografia, curata da J.G. Neihardt, Black Elk Speaks. Being The Life Story of a Holy Man of the Oglala Sioux as Told to J. Neihardt⁴, pubblicata nel 1932 (la prima traduzione italiana risale al 1968⁵), venerato come uno dei più grandi santi che siano mai nati⁶. Si trattava, nel caso di Schuon e Brown, di un’operazione pressoché pioneristica – visto che l’interesse occidentale per lo sciamanesimo indiano era a quel tempo quasi inesistente – che si concretò nella pubblicazione, nel 1953, dell’importante testo The Sacred Pipe. Black Elk’s Account of the Seven Sacred Rites of the Oglala Sioux⁷ (la prima traduzione italiana del libro si ebbe nel 1970⁸), tradotta in francese nello stesso anno dal medesimo Schuon (Les rites secrets des Indiens Sioux. Textes recueillis et annotés par Joseph Epes Brown⁹). Quest’opera, frutto dell’attento lavoro sul campo e della trascrizione delle parole di Alce Nero, che Brown ef­fet­tuò negli inverni del ’47 e del ’48 per circa otto mesi, svelava, per la prima volta, i sette riti dei Sioux Oglala connessi alla Sacra Pipa – che, secondo il mito autoctono, era stata consegnata ai progenitori dalla Donna-Bisonte Bianca (Pte San Wi), e che sarebbe riapparsa alla fine dei tempi: di lì, la storia della Sacra Pipa¹⁰era stata tramandata in una catena ininterrotta sino a Testa d’Alce (Hehaka Pa), custode della Sacra Pipa che l’aveva a sua volta trasmessa a tre uomini, dei quali l’unico a essere vivo al tempo in cui operò Brown era proprio Alce Nero –, attraverso cui si mandano le voci all’Essere Supremo, unendosi a tutti i popoli, a tutto l’universo e a Wakan Tanka (Grande Spirito, letteralmente Grande Misterioso); un tale gridare i misteri dai tetti fu dovuto sia alla presa di coscienza da parte di Alce Nero, or­mai anziano, che una tale ritualità era in serio pericolo¹¹, sia al suo riconoscimento della serietà, della profondità e quindi dell’importanza dell’opera di Brown e della santità di Schuon¹². Alce Nero legò strettamente quella che considerava un’autentica missione alla pubblicazione e alla diffusione del libro in questione¹³: e, provvidenzialmente, in quel periodo, dopo innumerevoli e terribili travagli, la spiritualità dei Lakota riemerse in maniera tanto imprevedibile quanto significativa¹⁴.

    ***

    L’autore del libro che andiamo a introdurre, dedicato alla sacralità della terra e della natura dell’America autoctona, è Arthur Versluis (1959-), professore di American Thought and Language alla Michigan State University e direttore del dipartimento di Religious Studies della medesima istituzione accademica. Editor del Journal for the Study of Radicalism e Founding Editor di Esoterica (attualmente Studies in Esotericism, una collana semestrale di testi dedicati al tema), è anche presidente dell’Association for the Study of Esotericism e direttore della rivista Avaloka. A Journal of Traditional Religion and Culture. Specialista di "Western Esotericism – con particolare riferimento alla teosofia cristiana"¹¹⁵ e agli influssi del platonismo sull’esoterismo occidentale e sul trascendentalismo statunitense –, ha scritto, tra l’altro, in merito ai tentativi di recupero di un culto della natura in Occidente, al rapporto fra il trascendentalismo statunitense (indagandone peraltro le radici esoteriche) e le religioni orientali e, per l’appunto, alle tradizioni dei pellerossa. La sua tesi di dottorato è stata pubblicata, nel 1993, col titolo American Transcendentalism and Asian Religions (Ox­ford University Press). Si può dire che il focus della sua ricerca è costituito dall’intersezione fra letteratura, esoterismo e storia intellettuale nella prospettiva di una valorizzazione delle realtà culturali di margine (religiose lato sensu, oltre che diacronicamente e spazialmente spesso molto distanti). Noi stessi siamo consapevoli di come proprio nelle derive e nei "fringes metaculturali si annidino potenze inesauste, ammassate sotto le ceneri della modernità onnivora, oltre che potenziali segni e snodi cruciali dei percorsi storici di Occidente (e quindi, di possibili riorientamenti e di auspicabili paradigm shifts").

    ***

    Sacred Earth. The Spiritual Landscape of Native America (prima edizione inglese 1992¹⁶, appena precedente, quindi, la pubblicazione della sua tesi di dottorato), ora tradotto per la prima volta in italiano, è agilmente organizzato, dopo una breve ma significativa introduzione, in tre parti: fondamenti, simbolismo spirituale (particolarmente pregnanti le discussioni sulla grande capanna indiana quale microcosmo [cap. 2.4], ogni architettura sacra costituendo un riflesso dell’ordine celeste, e sulla distinzione recisa, di tratto guénoniano, tra iniziazione e sue inversioni moderne [cap. 2.5]) e "spiritual landscape" (si potrebbe dire l’ubi consistam del lavoro) dei pellerossa, con particolare riferimento allo stato del Kansas. Un’appendice documenta il deprecabile caso (anticostituzionale?) del processo Lyng vs. Northwest Indian Cemetery Protective Association, risalente al 1988 (vi si riportano anche autorevolissimi pareri discordanti in relazione alla sentenza); a essa segue una buona bibliografia sintetica.

    Il lavoro ha inizio con un’icastica citazione tratta da The Feathered Sun di Schuon, che – sebbene Versluis non sia organicamente connesso all’orientamento perennialista (pur essendone certamente un simpatizzante, se così ci possiamo esprimere, e avendo manifestato almeno fin dall’inizio degli anni Novanta, come emerge dalla lettura di Sacred Earth, la sua vicinanza al suddetto orientamento) – costituisce una sorta di summa programmatica del testo: Questo grande dramma può esser definito come la lotta […] tra la civiltà urbana (nel senso strettamente umano e peggiorativo del termine, con tutte le sue relazioni con l’artificio e il servilismo) e il regno della Natura considerato come l’abito solenne, puro e illimitato dello Spirito Divino. Ed è da questa idea della vittoria finale della Natura (finale perché primordiale) che gli Indiani traggono la loro inesauribile pazienza malgrado le sventure sofferte dalla loro razza; la Natura, di cui loro stessi si sentono l’incarnazione, e che, al tempo stesso, è il loro santuario, finirà conquistando questo mondo artificiale e sacrilego, perché è l’Abito, il Respiro e la Mano stessa del Grande Spirito.

    L’estratto da Schuon sintetizza anche alcuni degli argomenti centrali del lavoro e dell’opera complessiva di Versluis. Qui ne andiamo a trattare, compendiosamente, un paio.

    In primo luogo, è posta la tesi del conflitto tra urbanesimo (artificio) e natura (autenticità originaria, per l’appunto primordiale, cui quin­di è destinata la vittoria finale), significativamente (e poeticamente) intesa non quale creato ontologicamente distinto quasi per iatum dal Creatore, ma per l’appunto come "abito solenne, puro e illimitato dello Spirito Divino"¹⁷, santuario, respiro e mano del Grande Spirito. Si potrebbero qui suggerire analogie con la Prakṛti indù (come forza motrice primordiale) e con la Vergine, tanto cara a Schuon. In un’ottica meno concordistica, si può anche ricordare che certo pensiero tedesco del tardo Ottocento opponeva per diametrum Gemeinschaft (comunità, basata sul sentimento dell’appartenenza a una stirpe e a un suolo: a una sacra terra madre, per l’appunto) e Gesellschaft (società, razionalmente e contrattualisticamente fondata), Normaltypen di organizzazioni sociali inconciliabili e divaricatesi successivamente alla rivoluzione industriale¹⁸. Il nazionalsocialismo, cui pure F. Tönnies, primo presidente della Società Tedesca di Sociologia, si oppose, riprese tali paesaggi teoretici, specificando l’idea di comunità con la categoria della Volksgemeinschaft (comunità di popolo, cui è connesso un destino: questa nozione risaliva all’epoca del primo conflitto mondiale, cui, successivamente, fu legato un profondo e organico tentativo di ruralizzazione della Germania e dell’Europa presso alcune alte gerarchie di regime¹⁹), ove la relazione tra sangue e spirito era considerata strettissima²⁰.

    In secondo luogo, il dramma storico degli Indiani d’America interseca (trovandovi una sua giustificazione suprastorica) una visione metafisica della natura vergine, apparentemente in contrasto col Cristianesimo (certamente con le sue derive razionalistiche, per non parlare di quelle occidentaliste e mondialiste, proprie del volgare situazionismo à la Bergoglio), che vi introduce quasi ab origine lo strappo del peccato: ma, se pensiamo a ciò che rappresenta la Vergine nella tradizione cristiana di Oriente e di Occidente (nel suo attributo cattolico di Immacolata, oltre che nelle sue relazioni con la natura, esemplificate dai suoi molteplici titoli connessi a elementi naturali e fenomeni atmosferici), si intuisce come lo iato tra le due tradizioni, su ciò, si possa ridurre non di poco. Da questo punto di vista, si dovrebbe anche fare riferimento all’importanza della prassi della contemplazione della natura (theoría physiké) presso la prima Patristica (ad esempio in Origene, Evagrio, Gregorio di Nissa). Nella tradizione pellerossa, è evidente che la natura, nel suo aspetto vergine, costituisce un’autentica teofania (cap. 1): ciò che non pare in contrasto, per l’appunto, in specie con la prima Patristica orientale (contra, in specie, l’agostinismo²¹e certo tomismo).

    ***

    Sul punto dirimente (perché, ancora, facilmente equivocabile) del­l’am­bientalismo, risulta evidente a ogni coscienza in ordine la distanza incolmabile tra la visione indiano-americana della natura e quella dell’ecologismo spurio (spesso, lo notiamo en passant, impunemente multiculturalista, genderista, postumano). Nel primo caso, in­fat­ti, si tratta di una concezione (e di una prassi da essa derivante) eminentemente metafisica; nel secondo, di un immanentismo tutto orizzontale, di tratto sentimentale e talora antiumano (non è un caso che spesso gli ecologisti à la Greenpeace siano allo stesso tempo a favore della conservazione della foca monaca, ma anche dell’aborto, propagandato su larga scala). A tal proposito, Versluis afferma con chiarezza adamantina: L’ambientalismo separato da una comprensione spirituale del po­sto dell’uomo nel cosmo è semplicemente una versione sublimata della stessa mentalità che sta causando la distruzione del nostro piane­ta²². Il vuoto spirituale (il nichilistico oblio dell’essere, filosoficamente) determina il carattere onnivoro e distruttore della (post)modernità, che si nutre di intrattenimenti succedanei – tra cui gli stessi musei e i parchi nazionali – per compensare i suoi baratri spiri­tua­li (e, quindi, intellettuali ed etici) e i suoi rimorsi: oltre alla noia che si muta spesso in paranoia, si ponga mente solo all’inesausta orgia dei consumi, prodotta dalla (ed esponenzialmente riproducente la) an­go­scia esistenziale, autentica Stimmung dell’Occidente contemporaneo²³.

    Non a caso, come Versluis spiega nella sua Introduzione, il lavoro è stato scritto per la comprensione del modo di vita degli amerindi inteso non in senso meramente storico (tantomeno storicistico), ma secondo un orientamento universalistico (discorde però rispetto alle derive New Age, prive di saldi addentellati teoretici e di una seria e legittima pratica spirituale, ben inquadrata all’interno di una tradizione), e funzionalmente a un arduo ma auspicabile risveglio spirituale dell’uomo occidentale. Significativamente, la felix culpa del­l’antitradizione ha prodotto in Occidente, quasi per reazione e per compensazione provvidenziale, la riscoperta, lo studio (non solo accademico) e (talora) la fruizione operativa dei tesori sapienziali presenti nei vasi d’argilla delle varie tradizioni religiose autentiche. A conferma di ciò, l’autore afferma che "l’intenzione di questo libro è di infondere nella coscienza generale una consapevolezza della spiritualità del paesaggio e degli esseri che ci circondano: gli esseri umani non sono delle creature meccaniche che vivono isolate in immensi formicai, programmate dai mass media a lavorare, consumare, dormire e morire. Siamo esseri spirituali all’interno di un cosmo spirituale"²⁴: ciò che combacia col famoso, stentoreo (e più socialmente orientato) l’uomo non è una macchina adibita ad altra macchina²⁵. Se rettamente intesa, la spiritualità aborigena, semplice e poetica, ci può pertanto aiutare a comprendere le nostre radici comuni: Loro avevano ciò che il mondo ha perso. Lo hanno ancora…²⁶. Oltre e più profondamente dell’America del capitalesimo (il mondialismo capitalistico come laicissima teologia dogmatica), esiste una America dello spirito²⁷: una terra primordiale, un luogo sacro che va riscoperto (e non semplicemente valorizzato come pezzo da museo, con ciò ricadendo nella utilitaristica ideologia borghese), essenzialmente per il tramite di uno studio non accademicamente distaccato, ma teoreticamente (ed esistenzialmente) partecipante.

    ***

    Un paio di riflessioni finali, dunque, s’impongono, giustapponendosi (e intersecandola) alla questione cruciale dei rapporti tra culture autoctone e Occidente: anticipando, in tal modo, la conclusione di queste nostre brevi note.

    In un certo senso, si può affermare che quella della prima metà del Novecento (con qualche prolungamento, non del tutto residuale, nei decenni successivi) avrebbe potuto essere l’epoca delle sintesi sovraformali (metapolitiche²⁸ e religiose): ossia, di inedite alleanze fra universi metaculturali antiliberali (antioccidentali), favorite da contingenze, congiunture e convergenze teoricamente propizie. Peraltro, quando le impalcature istituzionali della Chiesa di Occidente cominciarono a dare segni di cedimento, tra modernismo e temporalismo giuridicista, emersero non a caso forme di mistica politica e di realismo eroico²⁹, che si richiamavano esplicitamente a parole d’ordine e a miti non direttamente tratti dal cattolicesimo (ma non necessariamente a esso avversi): la politica, allora, mutata di segno, esplose in una sua precipua riproposizione di tratto (e di origine) mitologico, per poi repentinamente – e tragicamente – implodere su di sé. Si trattò, com’è inevitabile quando si cala in ambito moderno il mito (in questo caso politico) – in certo modo decontestualizzandolo –, di una riformulazione certamente significativa, possente e titanica (e quindi tragica), ma pure produttrice di alcuni cortocircuiti (in specie con l’immersione di tali mitologhemi in un ambiente metasociale già dominato dalla tecnica).

    D’altra parte, uno dei nodi in assoluto più problematici della ricerca storico-teoretica sui temi qui compendiosamente esposti – tutti tratti, esplicitamente o per suggestione, dalla lettura del testo presentato – è costituito dalla relazione tra Cristianesimo, Occidente e tecnica. Da un lato, la specifica prospettiva escatologica cristiana sembra cozzare contro il primordialismo dei pellerossa (e di Schuon ed Evola). Ciò, tra l’altro, ha potuto costituire un problema dottrinale di non poco conto nell’ambito dei rapporti storici tra missionari e indigeni: quanto tende necessariamente verso il futuro della salvezza individuale una tantum appare orientato in un senso inverso rispetto a quanto è indirizzato cosmicamente verso l’origine (qualcuno ha anche parlato, in altro ambito e a ragione, di ideologia dell’origine³⁰). Eppure, se il Cristianesimo costituisse una forma tradizionale provvidenzialmente parziale (senza che ciò ne sminuisca affatto il carattere pubblicamente misterico: e anzi, forse, proprio per questo), se ne potrebbe dedurre una sorta di quadratura del cerchio: la freccia del tempo, in realtà, a un certo punto deviando, diviene un cerchio, che ricongiunge inizio e fine. Sul tema, risultano significative le parole di un autorevole esponente della tradizione sioux, C.A. Eastman (Ohiyesa, il vittorioso): Dopo trentacinque anni di esperienza diretta, personalmente credo che non esista una vera e propria ‘civiltà cristiana’. Credo che il Cristianesimo e la civiltà moderna siano due entità opposte e irreconciliabili, e che lo spirito del Cristianesimo sia essenzialmente uguale a quello della nostra religione originaria³¹. Probabilmente, si riproduce qui, per altra via, la menzionata contrapposizione tra comunità e società³², tra civiltà e civilizzazione. E infatti, aggiunge sapientemente a ciò Versluis: "Fondamentalmente questa interpretazione è corretta – ma è anche vero che i missionari cristiani hanno agito per distruggere le altre tradizioni religiose del mondo, come missionari non della religione, ma solo della civilizzazione³³. Il Cristianesimo istituzionale, allora, era già divenuto Occidente.

    Per concludere, ci permettiamo di riportare un nostro ricordo, che fa da spunto per l’esito di questa nostra introduzione. Nel giugno 2008, a Berkeley con una Borsa Fulbright, ricevemmo in dono da H. Smith (1919-2016) un breve manoscritto, che riepilogava, in forma di sintetica bozza, le sue esperienze con i pellerossa³⁴. Smith, nato in Cina da missionari metodisti, decano dei religious studies negli USA e perennialista sui generis³⁵, ha contribuito, insieme a Brown e Schuon, alla diffusione della sapienza degli Indiani d’America negli Stati Uniti: il suo lavoro, a ogni modo, si è talora orientato in senso più divulgativo³⁶. Nei nostri incontri discutemmo, tra l’altro, del rapporto fra Occidente e culture autoctone: riflettemmo sul fatto che, se l’uomo della Tradizione (tanto più il pellerossa, la cui forma religiosa è autenticamente originale) vede una cascata come espressione del trascendente da contemplare, il borghese razionale la intende come fonte di energia da sfruttare. Non ci può essere, allora, compatibilità tra le due prospettive³⁷. Giungemmo quindi a concordare su un punto cruciale: la tradizione pellerossa e quella cristiana erano state fortemente depauperate e quasi svuotate ab intra dalla Potenza di Occidente (anche se rimane, necessariamente, un atomo di fuoco operante in esse, sempre accessibili al singolo individuo che si situi organicamente al loro interno). L’Occidente, il cui destino è la Potenza, ha infatti attuato il proprio dominio tramite la tecnica (che è eminentemente Potenza); ma, col passaggio dalla vitale civiltà (Kultur) alla estenuata, mortifera civilizzazione (Zivilisation)³⁸, e il conseguente trion­fo più o meno planetizzato dei suoi modelli (tendenzialmente anarcoliberali, e in ultima analisi nichilistico-passivi) sul piano superficiale della histoire événementielle, la tecnica ha costituito anche la molla del suo epocale tramonto mitostorico, iscritto indelebilmente nel suo stesso nome.

    Marco Toti

    Dresda, maggio 2018


    1 Edizioni Mediterranee, Roma, 1995, p. 40-41. In nota, Evola aggiunge significativamente, rispondendo a S. Quasimodo, che un sano razzismo non ha niente a che vedere con il pregiudizio della pelle bianca, dicendosi pronto ad ammettere una superiorità ai ‘bianchi’ degli strati superiori indù, cinesi, giapponesi e di alcuni ceppi arabi malgrado la pelle non bianca, visto lo stato di degenerazione cui la razza bianca si era nel frattempo ridotta all’epoca del colonialismo (ivi, p. 41, n. 29).

    2 Di cui si può vedere, tra gli altri lavori, la recente edizione italiana di Soul and Native Americans (1997, che risale al 1953): Concezioni dell’anima tra gli Indiani del Nord America, Ester, Caprie (Novaretto), Torino, 2016, che costituisce una ineguagliata panoramica sulle concezioni dell’anima riscontrabili presso le diverse culture dei nativi nord-americani (E. Comba, Introduzione ad A. Hultkrantz, Concezioni dell’anima, cit., p. 13).

    3 Vedi, sull’interesse che Guénon aveva nei confronti della cosmologia e di alcuni simboli e riti propri dello sciamanesimo – e sulle sorprendenti analogie che mostravano alcune cerimonie vediche, "in particolare quelle più chiaramente derivanti dalla tradizione

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