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A Sanremo si gioca sporco
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E-book204 pagine

A Sanremo si gioca sporco

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Info su questo ebook

Una truffa al Superenalotto organizzata nella provincia di Imperia frutta ai partecipanti una spettacolare vincita milionaria. Uno solo, l’ideatore, conosce l’identità dei componenti del gruppo, e quando l’assassino si metterà in caccia tutti scopriranno a loro spese che non sempre l’anonimato è una protezione. Un thriller mozzafiato che si svolge, con continui colpi di scena, tra gli scorci di alcune delle più suggestive località del Ponente ligure. Uno dopo l’altro i componenti della giocata scompariranno, barbaramente uccisi con un arpione. Spetterà agli ultimi sopravvissuti, in una disperata corsa contro il tempo, cercare di riconoscere e fermare colui che li sta sterminando.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2012
ISBN9788875637385
A Sanremo si gioca sporco

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    Anteprima del libro

    A Sanremo si gioca sporco - Moriano Ugo

    Capitolo 1

    Domenica 8 novembre 2009

    – Faites vos jeux, messieurs.

    La voce tranquilla e pacata del croupier, seduto al vertice del tavolo verde, segnalò l’inizio di una nuova giocata alla roulette e un istante dopo la pallina bianca iniziò a roteare all’interno del disco. Molti dei giocatori presenti si affrettarono a effettuare le proprie puntate sul tavolo, quasi non si fossero fidati a farle prima che la piccola sfera, una volta d’avorio ed ora di resina, iniziasse il proprio cammino.

    Giorgio ascoltò distrattamente l’annuncio e non si interessò a quanto stava accadendo intorno a lui; senza seguire alcuna particolare strategia aveva effettuato le proprie puntate subito dopo che era stata pagata la precedente vincita. Aveva coperto la dozzina centrale, quella che comprendeva i numeri dal tredici al ventiquattro, con due carré e due cavalli, puntandoci sopra dodici fiches da dieci euro ciascuna.

    Gli altri partecipanti alla giocata si affannavano a segnalare ai croupier dove desideravano puntare e snocciolavano serie veloci di numeri o tipi di giocate già codificate.

    – Les jeux sont faits, rien ne va plus.

    La frase segnalò ai presenti al tavolo che non era possibile procedere oltre con le puntate, anche se una signora di mezz’età, fasciata in un vestito lungo di colore rosso cupo, riuscì, alzando un po’ il tono della voce, a farsi accettare una posta sugli Orfanelli effettuata proprio mentre la formula di rito veniva pronunciata.

    La pallina bianca perse definitivamente il proprio slancio e scivolò, rimbalzando, sulle caselle contenenti i numeri della roulette; alcuni giocatori fissavano il disco, mentre altri evitavano accuratamente di volgersi verso il punto in cui si stava decidendo il destino delle proprie giocate. Ognuno metteva in atto, più o meno inconsciamente, tutta una serie di riti scaramantici destinati a propiziare l’attenzione della dea bendata.

    – Le numéro gagnant est dix-neuf.

    Le parole del croupier, mentre sul tabellone luminoso alle sue spalle si accendeva il numero diciannove, accompagnarono il rituale gesto con cui posò il rastrello che teneva in mano sulla casella del tavolo contenente il numero vincente, in tal modo si spensero molte aspettative. Solo cinque dei presenti gioirono per la vincita di piccole somme legate ad una sestina, due Passe, un carré e una puntata sulla colonna.

    Il sesto vincitore era Giorgio che aveva coperto con un cavallo i numeri diciannove e ventidue, ma, paradossalmente, lui, un giocatore incallito, non provò alcuna soddisfazione quando gli vennero consegnate fiches corrispondenti alla vincita di cinquecentodieci euro.

    Automaticamente lasciò sul tavolo la puntata vincente e ricoprì la prima dozzina con due cavalli e due carré, poi ritornò a seguire il corso dei propri pensieri.

    * * *

    Quella domenica sera, dopo aver consumato una leggera cena, aveva indossato con cura lo smoking osservando con occhio critico, poi, la propria immagine nello specchio sull’anta centrale dell’armadio. Era un uomo di cinquantasette anni, alto un metro e ottanta, spalle larghe e un fisico ancora asciutto, anche se non più muscoloso come qualche anno prima. I suoi occhi azzurri e i folti capelli grigi, che portava pettinati con la scriminatura a sinistra, erano quelli che considerava i suoi veri punti di forza quando si trattava di affascinare il prossimo, soprattutto se si trattava di donne. Soddisfatto per quanto aveva visto nello specchio, era uscito dalla sua abitazione, una piccola casa unifamiliare, sita in via Poeta Pellegrino a Chiusavecchia, ereditata dopo la morte di sua madre avvenuta sette anni prima. A bordo della sua Ford Focus, si era messo in viaggio per raggiungere il casinò di Sanremo.

    Dopo un inizio di autunno particolarmente mite, che si era protratto per tutto il mese di ottobre, la prima settimana di novembre aveva fatto registrare un brusco abbassamento della temperatura accompagnato da abbondanti piogge accolte con contrarietà da tutti coloro che, in quella parte occidentale della riviera ligure, coltivavano olive, in quanto rendevano difficoltoso l’avvio della bacchiatura in un’annata che si prospettava particolarmente promettente.

    La strada che portava a Imperia era bagnata dalla leggera pioviggine che aveva caratterizzato tutta la giornata, ma Giorgio, che non aveva alcuna fretta di giungere a destinazione, guidava in tutta sicurezza a velocità moderata mentre i fari della sua macchina illuminavano l’asfalto bagnato e abbagliavano leggermente le poche autovetture che, dopo le ventitré, percorrevano la via in senso inverso al suo.

    Sarebbe paradossale aveva pensato sollevando leggermente il piede dall’acceleratore e riportando la propria velocità sotto i settanta chilometri orari, se, proprio ora che la mia vita sta per cambiare completamente, mi ammazzassi in un incidente stradale.

    Arrivato a Oneglia, in piazza Dante, svoltò verso destra lungo via della Repubblica per poi attraversare il ponte sul torrente Impero e procedere verso Porto Maurizio.

    Sull’Aurelia, tra Imperia e Sanremo, vi era pochissimo traffico e lui decise di non percorrere il breve tratto di Aurelia Bis che inizia ad Arma di Taggia e preferì continuare sulla semideserta statale.

    Ho davanti a me un’intera settimana di ferie, poi rientrerò ancora un paio di giorni in ufficio per sistemare le ultime faccende e predisporre le pratiche per il licenziamento. Un sorriso soddisfatto gli si disegnò sul volto. Sarà un vero piacere vedere la faccia del direttore quando gli comunicherò la mia intenzione di lasciare l’Istituto.

    Giunto a destinazione parcheggiò, come tutte le altre volte, nel grande slargo ricavato all’interno della vecchia stazione ferroviaria della città e, senza neppure accorgersene, mise in atto il primo di tutti i riti scaramantici che ormai adottava da moltissimi anni. Lasciò la propria macchina nel parcheggio più a destra possibile rispetto all’ingresso.

    Chiusa la portiera, e verificato tre volte che fosse realmente bloccata, si avviò verso l’uscita cercando contemporaneamente di aprire il costoso ombrello acquistato solo due giorni prima presso un piccolo ma rinomato negozio di Alassio; fatica inutile, nonostante lo avesse pagato cinquantadue euro, non riuscì a trovare il modo di farlo restare aperto e, visto che la pioggia si era intensificata, si adattò a tenerlo aperto bloccandolo con una mano subito sotto le bacchette che reggevano la copertura.

    Fatti pochi passi si accorse che le scarpe, pure queste particolarmente costose, acquistate quello stesso pomeriggio presso un negozio di calzature sotto i portici di via Bonfante a Imperia, gli stavano lacerando la pelle delle caviglie e dovette fare uno sforzo per non mettersi a zoppicare.

    Uscito dal parcheggio svoltò a destra e, dopo aver attraversato la strada, salì la scala che lo portò in corso Giacomo Matteotti per poi imboccare corso degli Inglesi. Dopo pochi metri iniziò a salire le due rampe di diciassette scalini ciascuna che conducevano all’ingresso del casinò.

    Giunto davanti alla porta girevole dell’edificio in stile liberty che da tutti veniva considerato il monumento della belle époque nella città matuziana, si accertò che nessuno stesse per uscire, poi spinse il battente, con moto da sinistra verso destra, ed entrò nell’atrio.

    Ignorando completamente la sala liberty che, con le sue slot machine, si apriva alla sua sinistra, dopo aver salutato con un cenno del capo e un sorriso la dipendente del casinò presente nell’atrio d’ingresso, si diresse verso il guardaroba dove lasciò il proprio cappotto a Carla, l’addetta che quella sera era di servizio.

    Ritornato sui suoi passi, toccò con due dita della mano destra il piede della Cica, la scultura in marmo che raffigurava una ragazza nuda colta nell’attimo di fare le corna con ambedue le mani. Salì la rampa di destra della scala di marmo coperta dal classico tappeto rosso che conduceva al primo piano della casa da gioco.

    Non era un giocatore raffinato e, pur considerandosi un discreto esperto di roulette, non aveva mai frequentato le sale private che si aprivano a quel piano. Dopo aver mostrato il tesserino alla sorveglianza, raggiunse la sala Luigi De Sanctis, detta anche sala gialla, dedicata a uno dei più grandi gestori della casa da gioco che, sul finire degli anni Trenta, l’aveva portata ai più alti livelli di popolarità nel panorama culturale internazionale.

    Sala quota ventiquattro virgola trentadue, eccomi qui forse per l’ultima volta pensò salutando la sala con il nome che veniva ancora usato da molti anziani addetti al casinò.

    Nella sala De Sanctis vi erano tavoli da gioco americani e dieci roulette inglesi, ma lui li ignorò e raggiunse la più piccola Sala Comune dove vi erano le roulette francesi. Salutando educatamente i presenti e il croupier, prese posto su una sedia libera accanto al suo solito tavolo alla destra della porta d’ingresso e si preparò a trascorrere alcune ore al suo gioco preferito.

    * * *

    – Le numéro gagnant est cinq.

    Ancora un carré, ormai pare proprio che la fortuna non riesca più a dimenticarsi di me pensò Giorgio quando vide posarsi il rastrello su una delle caselle che aveva coperto con una delle sue puntate di tre fiches da dieci euro. Avevano ragione i romani, la fortuna è una dea neutra e capricciosa che ti favorisce quando ormai non ne hai più bisogno e ti ignora quando la cerchi disperatamente. Se solo tre mesi fa avessi vinto come mi sta accadendo in queste ultime due settimane, forse non avrei trovato il coraggio di organizzare il colpo che mi ha reso milionario. Ormai però è fatta e per il resto della vita non dovrò più preoccuparmi di nulla.

    – Se non ti levi d’intorno ti do un calcio nei coglioni! – urlò una voce femminile sovrastando e interrompendo il brusio di tutte le altre voci che componevano il sottofondo sonoro della sala da gioco.

    – E dammelo il calcio nei coglioni, che poi ti faccio vedere io come si trattano le puttane come te! – rispose, seppur con un tono più basso, una voce maschile altrettanto adirata.

    – Non permetterti di insultarmi! Vivi rubando le vincite, quelli come te non dovrebbero poter entrare qui dentro! – ribatté la donna fronteggiandolo con piglio feroce.

    Quando Giorgio, distratto dai suoi pensieri, si era voltato verso la fonte dell’alterco, l’aveva individuata in un’alta signora di mezz’età che da anni frequentava quei tavoli. Vestita con un lungo abito da sera nero, aveva i capelli tinti di un rosso appariscente e il collo e le orecchie adornati da vistosi gioielli sicuramente falsi.

    – Questa donna deve smettere di insultarmi, se no, non rispondo più di me stesso! Io ho vinto regolarmente e le fisches sono le mie!

    L’antagonista si rivelò essere un uomo di circa settant’anni, vestito con una lisa giacca bordeaux e un paio di pantaloni neri resi lucidi dall’uso prolungato, che si agitava ad un paio di metri di distanza dalla sua agguerrita rivale.

    I frequentatori del tavolo, imitati da altri seduti ai tavoli vicini, seguirono senza eccessivo interesse lo scambio di battute tra i due contendenti che terminò con l’allontanamento dell’uomo, effettuato in modo cortese ma fermo da parte di due dipendenti della casa da gioco. Seguì un breve strascico di commenti, rivolti ad un pubblico già distratto dalle imminenti giocate, da parte della donna che, dopo aver incassato la vincita consistente in meno di cinquanta euro, decise che per quella sera non era più il caso di soffermarsi in quella sala e, ignorata da tutti, si allontanò verso le casse.

    Giorgio aveva seguito con poco interesse il diverbio, limitandosi ancora una volta a notare tra sé che sotto una patina di signorilità con cui si ammantavano quasi tutti i presenti, spesso si celava una buona dose di villania che non aspettava altro che un pretesto per ritornare a galla prepotentemente. Ad un frequentatore occasionale poteva quasi parere inverosimile una tale caduta di stile, ma per chi invece bazzicava assiduamente le sale da gioco, non era una sorpresa che ogni tanto il tintinnio della pallina sulle caselle del disco della roulette venisse sovrastato da grossolane volgarità proferite da giocatori fino a pochi istanti prima pieni di sussiego.

    Gente senza dignità. Certi comportamenti sminuiscono chi li compie, indipendentemente dai torti e dalle ragioni.

    – Buona sera Giorgio, ho notato che da qualche tempo hai scoperto il sistema per sbancare il casinò senza tanto chiasso.

    – Ciao Barbara, paradossalmente non metto in atto nessuno dei sistemi che conosco e mi limito a coprire a caso una delle dozzine. Pare, però, che la pallina sappia quasi sempre dove io ho puntato e ogni volta decida di favorirmi.

    – Posso restare un po’ insieme a te? Forse la tua fortuna potrebbe aiutare un po’ anche me. Ultimamente non mi è andata molto bene e un paio di vincite buone non mi dispiacerebbero affatto.

    – Fai pure, a me non crei nessun problema.

    Se quella richiesta gli fosse stata fatta solo un paio di settimane prima, si sarebbe adirato e l’avrebbe considerata un’ingerenza nella sua sfera di gioco, ma ormai non aveva più alcuna importanza e forse anche lei avrebbe guadagnato qualcosa da quanto gli stava accadendo.

    – Allora punto esattamente i numeri che giochi tu – rispose la donna sedendosi sulla sedia accanto alla sua e avvolgendolo, mentre si chinava verso di lui, con un delicato profumo che riconobbe essere Dolce Vita di Dior.

    Barbara era una piacevole signora che viaggiava verso i sessant’anni. Le sue forme morbide, i lunghi capelli tinti di colore corvino, il sorriso smagliante che arrivava a illuminare due bellissimi occhi castani, l’avevano resa interessante agli occhi di molti uomini e lei, in passato, non aveva posto grandi resistenze alle loro attenzioni, soprattutto se erano reduci da una serata vincente.

    Anche Giorgio, alcuni anni prima, dopo aver incassato il corrispondente in denaro di un discreto numero di fiches di alto valore, si era concesso una serata in sua compagnia. Erano usciti dal casinò nella notturna aria tiepida di giugno, lui alto e distinto nel suo smoking, lei allegra e spiritosa, fasciata da un vestito color prugna che le lasciava scoperte le spalle e i seni abbondanti e si erano diretti a festeggiare in un locale fino alle prime ore dell’alba, poi, sicuramente alticci, erano andati a casa di lei per concludere degnamente la nottata.

    Barbara abitava in un appartamento di tre vani al secondo piano di via Costiglioli, una strada poco distante dal casinò e nella sua camera da letto, arredata con mobili di stile moderno da poco prezzo, avevano cercato di consumare quello che, nei loro precedenti proclami fatti con la voce impastata dall’alcool, avrebbe dovuto essere un lungo amplesso memorabile.

    In realtà, una volta che lei si fu spogliata, la vista della sua carne bianca e flaccida, delle innumerevoli piccole vene azzurre che le segnavano le cosce disegnando fitti reticoli e del ventre molle non più appiattito da alcun indumento, spense in Giorgio ogni ardore residuo e, sommandosi al fatto che anche Barbara non riusciva a eccitarsi, rese la penetrazione così difficoltosa da spegnere in pochi istanti ogni rimanente sua velleità amatoriale.

    Proseguirono alcuni minuti in una stanca pantomima in cui lei cercò senza particolare entusiasmo, e ancor meno fantasia, di procurargli comunque un’erezione e lui la ricambiò con carezze sempre più svogliate e sempre meno sensuali fino a che, di comune accordo, decisero di smettere; lui, dopo essersi rivestito in un imbarazzante silenzio, lasciò velocemente quella casa.

    Da allora non avevano più provato a replicare quell’esperienza e si erano limitati a scambiarsi distratti saluti quando si incontravano ai tavoli. Quella sera però, sicuramente a causa delle continue vincite che avevano fatto lievitare di numero e di valore le fisches impilate sul bordo del tavolo davanti a Giorgio, pareva che la donna avesse riscoperto un improvviso interesse per lui.

    La successiva puntata non portò ad alcuna vincita, ma quella dopo, essendo uscito nuovamente un numero su cui avevano puntato un cavallo, fruttò cinquecentodieci euro ad ambedue.

    Raccogliendo i frutti della giocata, Giorgio alzò lo sguardo e incrociò quello di Monica, un’altra frequentatrice della sala da gioco. Con lei, di vent’anni più giovane, nel duemilasei aveva avuto una storia che era durata oltre un anno

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