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Sinfonia per un delitto: La prima indagine del commissario Scichilone
Sinfonia per un delitto: La prima indagine del commissario Scichilone
Sinfonia per un delitto: La prima indagine del commissario Scichilone
E-book172 pagine

Sinfonia per un delitto: La prima indagine del commissario Scichilone

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Info su questo ebook

Abbandonato dalla moglie, al limite delle proprie risorse mentali, il commissario Scichilone si ritrova ad indagare su una serie di omicidi le cui vittime condividono la passione per la musica lirica e un segreto terribile che determinerà il destino di ciascuno di loro.
In una Ventimiglia contraddittoria, equamente divisa tra la bellezza paesaggistica del Ponente ligure e gli isterismi commerciali della città bassa, la prima indagine di Scichilone si manifesta molto complessa e sorprendenderà, col suo finale grottesco, anche il più smaliziato dei lettori.
LinguaItaliano
Data di uscita4 lug 2012
ISBN9788875637446
Sinfonia per un delitto: La prima indagine del commissario Scichilone

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    Anteprima del libro

    Sinfonia per un delitto - Negro Roberto

    UNO

    Le note riempirono la stanza.

    O Lola ch’ai di latti la cammisa,

    si bianca e russa comu la cirasa,

    quannu t’affacci fai la vucca a risa,

    biato cui ti dà lu primu vasu!

    Negli occhi un velo di lucida follia, mentre osservò gli affilati profili.

    Dita che indugiarono sulla scelta del tagliente, sfiorando else nel preludio di un dramma.

    Ntra la porta tua lu sangu è sparsu

    E nun me mporta si ce muoro accisu,

    E s’iddu me muoru e vaju mparadisu,

    si nun ce trouvu a ttia mancu ce trasu!

    Lo specchio restituì un viso segnato dalla tensione per tutto ciò che era stato, per quello che sarebbe accaduto.

    Per un attimo provò un’emozione che confuse con il rimorso, ma fu solo un’ombra che si dissolse in fretta. Ripensò alla voce dell’interlocutore che tremò al telefono quando non aveva avuto scelta, affermando ci sarò.

    La notte precedente non aveva dormito, ma non provava stanchezza, perché quello che doveva fare era stato rimandato da troppo tempo, trasformandosi in un fardello insostenibile. Lo avrebbe diviso con chi era riuscito a fuggire da un destino segnato dagli eventi.

    Finalmente il momento della ragione era giunto puntuale come il Natale, come l’alba di un nuovo giorno.

    Alzò il bavero del giaccone marinaro e si calò sulle orecchie il berretto di lana, mentre il vento cercò di ghermire la sua anima.

    DUE

    La telefonata era giunta la sera prima, alle nove: inaspettata. Lo aveva colto alla sprovvista come la visita di un ufficiale giudiziario.

    Dall’altra parte una voce sconosciuta lo aveva chiamato per nome, confidenziale e profonda.

    Il tono era monocorde, privo di inquietudine, la stessa che poi si trasferì nel profondo dei ricordi.

    Si erano rincorsi al limite di responsabilità che giacevano, da troppo tempo, in un angolo recondito della coscienza.

    Forse la coscienza era, per lui, un posto molto simile al purgatorio in cui aveva riposto le colpe mai espiate e quasi dimenticate.

    Poi quella telefonata lo aveva riportato lontano, in un tempo in cui le rughe non erano che la velata minaccia di una vecchiaia neppure immaginata.

    Pensò che la vita era un imbuto. Aveva corso pericolosamente lungo le pareti ripide, proiettandosi nel budello finale in cui tutto rallentava improvvisamente.

    Aveva ascoltato piano quelle parole che sapevano di condanna definitiva, ben sapendo che non poteva fuggire ancora.

    Disse semplicemente ci sarò e poi riattaccò la cornetta del telefono.

    C’era stato un tempo in cui aveva provato a dimenticare, allontanandosi da qualsiasi cosa che appesantisse il proprio fardello, e in parte c’era riuscito facendo finta che nulla fosse mai successo.

    Anche se non lo aveva ammesso a se stesso, era conscio da sempre che prima o poi il conto gli sarebbe stato presentato. Adesso quel momento era giunto e non poteva evitarlo.

    In ogni esistenza la teoria del prima e del dopo lasciava spazio all’agonia dei rimpianti e dei rimorsi. Forse avrebbe potuto, prima, invertire la rotta e fare in modo che, dopo, il proprio destino fosse diverso. Ma ormai non c’erano alternative e l’appuntamento non era rinviabile.

    Aveva trascorso il resto della serata al tavolo verde, in cui i numeri si alternavano tra rossi e neri, cercando di catturare una pallina beffarda che saltellava di casella in casella, animando chi della fortuna aveva fatto un credo, consumando quelli che nella sfiga vivevano un dramma.

    Rien ne va plus... not more bet....

    Il movimento rotatorio del cilindro era silenzioso, mentre i respiri si sospendevano.

    Tic... tic... tic.... Solo la voce della sfera candida, sospinta dalle aspettative di giocatori con gli abiti stropicciati che sapevano di dipendenza, agonia di chi nel fato aveva riposto l’ultima speranza.

    Occhi tristi si specchiavano in quelli annoiati dei croupier che nella loro esistenza avevano assistito ad ascese e cadute disastrose.

    Zero, plein et cheval pour monsieur....

    La fortuna gli aveva sorriso beffarda, schernendolo, la giusta compensazione tra il dare e l’avere.

    La notte era giunta in fretta e in fretta se ne era andata, tra le cosce di una puttana che gli aveva sorriso dopo l’ennesimo pieno.

    Amore inglorioso, consumato nell’amplesso che aveva il sapore insipido del niente. Quando poi era andata via, lasciandolo sconfitto sul letto sfatto della camera diciotto del Fairmont Hotel di Montecarlo, non l’aveva nemmeno guardata in faccia. Serviti pure, i soldi sono nel portafoglio. Rimase sino al mattino a contemplare il soffitto bianco, cercando il coraggio di affrontare l’ultimo giorno della propria esistenza.

    Raggiunse Mortola con la propria auto, che parcheggiò in divieto di sosta.

    Davanti all’ingresso dei Giardini Hanbury si sentì un po’ come Dante nella Commedia. Titubò solo un attimo, quando il passo si fece incerto lungo le scale in pietra che portavano, più in basso, alla villa. I sentieri erano odorosi di conifere e la sua mente ritornò ai tempi delle colonie estive. Allora era un bambino che giocava a nascondino dietro cortecce resinose di macchie mediterranee.

    Il viaggio, come amava indicare la propria vita, era stato un lampo, corso tutto di un fiato, con sprazzi di follia, la stessa che l’aveva condotto sino lì.

    D’improvviso si ritrovò in una zona circolare del giardino, cattedrale di querce antiche oltre le quali c’era solo mare. Percepì la voce dei marosi che s’inseguivano in un gioco di suoni. Chiuse gli occhi e ne inspirò l’odore intenso e umido.

    Sei stato di parola.

    Si voltò lentamente osservando quel volto. Ne spiò i contorni, le pieghe della pelle, alla ricerca di un dettaglio conosciuto. Tutto si era trasformato, tutto tranne gli occhi che avevano la stessa luce triste di allora.

    Una lacrima tracimò e lo segnò sulla guancia destra, lungo il profilo del viso, perdendosi sul cappotto blu.

    Avrebbe voluto parlare e probabilmente chiedere perdono, ma in quegli occhi non lesse pietà, solo la determinazione.

    Il colpo giunse improvviso e gli tolse il respiro, mentre un bruciore intenso gli riempì il petto. Istintivamente si ritrasse, cercando di fuggire, ma le gambe gli cedettero sotto il tronco. Strisciò come un verme, sino a quando tutto intorno si fece buio.

    TRE

    Dodici. Sono dodici le coltellate, signor commissario.

    Capurro era chino, accanto a un uomo che, bocconi, giaceva in un lago di sangue.

    Il cadavere aveva negli occhi l’espressione vitrea della morte. L’aria era appesantita dall’odore di orina ed escrementi liberati dal corpo inanimato. Era di quelli che non lasciava spazio a repliche, che prendevano allo stomaco e che l’ispettore non avrebbe mai voluto sentire.

    Il commissario Scichilone, al suo fianco, osservò in silenzio, maledicendo sottovoce il proprio lavoro. Se ne stava lì, in mezzo alla brughiera, tra le foglie secche d’autunno, nell’abbraccio umido di una foschia che sapeva di mare, con lo sguardo fisso sulla scena del crimine. L’epilogo di una vita.

    Guardi qui, dotto’.

    Capurro si infilò nei pensieri di Scichilone.

    Che c’è?.

    Venga a vedere. Sembra che in bocca abbia qualcosa.

    Il commissario si avvicinò, portandosi istintivamente una mano al viso per coprire naso e bocca.

    Carta?.

    Potrebbe essere.

    Forza, fai due foto e poi vediamo di che si tratta.

    La scena venne illuminata dal Metz 45 che lampeggiò per diverse volte.

    Poi Capurro prese, da una valigetta rigida di colore nero, delle pinzette sterili e manovrò al limite delle labbra dell’uomo.

    Nel silenzio assoluto il rumore della carta che strisciò contro i denti, ebbe l’effetto di un colpo di fucile, facendo sussultare Scichilone.

    L’ispettore infilò il reperto in una busta trasparente.

    Che minchia è?.

    Sembrerebbe parte di uno spartito musicale.

    Note che salivano e scendevano tra i righi, punti neri s’inseguivano per diventare melodia.

    L’avrà messo l’assassino?.

    Il commissario guardò paziente il proprio collaboratore.

    Forse pensavi che ’sto Cristo si nutriva di carta? Piuttosto, penso che abbia un significato, ma quale? E poi di che musica si tratta, tu ne capisci qualcosa, Peppino? chiese Scichilone senza staccare gli occhi dalla busta.

    Francamente, no.

    Posso vederla?.

    La voce li sorprese alle spalle. Era profonda, con accento veneto.

    Rispoli....

    Scusi dottore, ma forse posso darvi una mano a capire di che brano si tratti. La musica è un po’ la mia vita: sa, i miei genitori mi volevano tenore e invece....

    La divisa conteneva a stento un marcantonio di ragazzo con i capelli rossi, a spazzola, e una miriade di lentiggini sul viso rotondo.

    Polentone, è tutto tuo!.

    Il tremolio delle mani di Rispoli tradì la tensione dell’agente, mentre con un occhio leggeva lo spartito e con l’altro teneva sotto controllo il cadavere.

    Concentrati Rispoli, lascia stare il morto, ormai da lui non devi temere nulla. Che mi dici, allora?.

    È musica.

    Bella scoperta, ma non eri un esperto? Che sia musica l’ho capito pure io, che canto solo sotto la doccia.

    Mi scusi, dottore, è un estratto della Cavalleria Rusticana di Mascagni. Una storia di tradimenti e onore lavato con il sangue, Turiddu, Santuzza, la Sicilia....

    Sicuro?.

    Assolutamente.

    Il commissario, dopo aver congedato l’agente, riportò lo sguardo sul cadavere.

    Che ci azzecca uno spartito musicale, di un dramma della gelosia, nella bocca di un morto ammazzato a coltellate? Che sia un omicidio passionale, magari tra rivali d’amore? Peppino, sappiamo almeno chi è?.

    Chi?.

    Come chi? Il morto, no?.

    Sì, mi scusi dottore, è... era il professore Luigi Casati, molto noto in città.

    Professore?.

    Sì, di musica. Ha insegnato per anni al conservatorio di Genova e ora era in pensione, limitandosi a dare qualche lezione privata.

    Professore di musica... spartiti... Cavalleria Rusticana, mah!.

    I ricordi musicali di Scichilone risalivano all’infanzia, quando suo padre gli impose lo studio del pianoforte.

    Suonare uno strumento è tradizione di famiglia. Tuo nonno suonava il violino nell’orchestra sinfonica di Palermo, io suono la tromba, anche se solo per diletto, e tu suonerai il pianoforte.

    "A me non

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