Oltre la giustizia: Un'indagine del commissario Scichilone
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Info su questo ebook
Quale pena sarebbe equa per un assassino le cui responsabilità vanno al di là di ogni ragionevole dubbio?
Su quale razionale concetto giuridico o stato emotivo un magistrato emette la propria sentenza?
Il commissario Scichilone si ritroverà risucchiato da un'indagine dove la violenza familiare, la vendetta ed il senso di giustizia si misceleranno in un cocktail dai risvolti amari.
Ogni protagonista della vicenda sarà inevitabilmente sconfitto dalla realtà, mettendo a nudo tutta la propria fragilità ed assumendo, indifferentemente, il volto di cacciatore e di preda.
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Anteprima del libro
Oltre la giustizia - Negro Roberto
1
Era difficile capire il presente.
Tutto sembrava irreale.
Eppure, pensò, per ogni momento che si vive c’è sempre un prima; qualcosa che ha determinato il presente, che ne ha condizionato consistenza e profondità.
Il buio che lo circondava era spesso e compatto come una notte senza stelle.
Non riusciva ad individuare il prima, un punto da cui partire per capire se il nero che lo avvolgeva fosse solo un incubo dal quale si sarebbe presto svegliato.
Però il dolore alle natiche era reale: ogni volta che provava a spostarsi, la pelle bruciava al contatto con una superficie ruvida.
Era nudo.
Portò le mani al viso, scoprendo di avere i polsi serrati da qualcosa che non sapeva definire.
Maledetto buio, pensò.
Ruotò verso destra, allungando le braccia verso l’ignoto, cozzando contro la consistenza aspra di una barriera solida. Fece la stessa cosa verso sinistra, realizzando di essere infilato tra due muri, in uno spazio poco più largo delle sue spalle.
Strisciò verso il basso e poi in alto, percependo di essere chiuso in una sorta di loculo. Non poteva essere vero, pensò, mentre il panico lo assalì, chiudendogli la gola in una morsa assassina.
Scosse il capo, scacciando la pressione che gli stava impedendo di respirare. L’urlo che ne scaturì rimbombò tra le pareti strette.
Pianse istericamente, come se le lacrime potessero lavare la paura.
Smise di singhiozzare nello stesso momento in cui realizzò che qualcuno poteva sentirlo. Non aveva mai pianto in vita sua, perché, pensava, un uomo non deve piangere mai, specie in presenza di altri.
C’è qualcuno?
chiese con il capo rivolto a ciò che pensava fosse il soffitto.
Fu allora che un flusso d’aria fresca gli investì il viso. Profumava di qualcosa che conosceva, ma a cui non riusciva a dare una giusta definizione. Sapeva di spezie. L’odore era appena accennato, ma persistente.
Si sentì osservato.
C’è qualcuno? Rispondi, cazzo!
.
Silenzio.
In quell’anfratto il buio ed il silenzio si coniugavano alla perfezione, come amanti insaziabili.
Portò i polsi alla bocca, agganciando con gli incisivi la fettuccia che li bloccava. Era di plastica: larga e dura. Poteva essere una fascetta di sicurezza, pensò, di quelle che gli elettricisti usano per legare i cavi.
Cercò di aggredirla, mordendola con decisione, ma uno dei denti si spezzò, producendo un rumore secco.
Il dolore lo sorprese nel cervello con intensità inattesa. Gemette, allontanando istintivamente le mani dal viso.
Fu un attimo intenso, tanto da indurlo a piangere nuovamente. Non devo
pensò non devo farlo, sono un uomo che non piange mai
.
Aspettò che il momento passasse, cercando di controllare con il respiro, il proprio stato emotivo.
Passarono alcuni minuti, nel corso dei quali cercò di riordinare le idee, sperando di riuscire a trovare uno spiraglio nel limbo dei ricordi.
Si rese conto che non aveva elementi che lo aiutassero a capire perché si trovasse lì. Le sensazioni erano confuse da un torpore che gli rendeva i movimenti impacciati e la mente atrofica.
C’erano immagini che ferivano il buio dei propri pensieri, ma erano flash. Odoravano di spezie, lo stesso profumo che stava percependo nell’aria, c’erano mani che lo violavano, spogliandolo. Qualcuno lo aveva privato dei vestiti, bloccandogli i polsi con la fascetta di plastica e lo aveva infilato nel loculo in cui si trovava.
Cercò di ricordare il prima, ma il cervello si rifiutava di aiutarlo. Era tutto così ovattato, distante.
Spalancò gli occhi, cercando di vincere il buio, ma le palpebre si ripiegarono su se stesse, come un avvolgibile su una puleggia difettosa.
Si mosse, insofferente, aggiungendo alle chiappe nuove escoriazioni.
Il flusso d’aria divenne più intenso, diluendo l’aroma di spezie. Inspirò profondamente, inseguendo quel profumo, affinché lo aiutasse a ricordare. sentì improvvisamente gli arti diventare più pesanti. Gradatamente ed inesorabilmente ne perse completamente il controllo, al punto di non riuscire più a muovere un solo muscolo. Anche la minima razionalità, attraverso la quale aveva cercato di recuperare parte di sé, lo abbandonò.
Rimase così, supino, immobile sul piano ruvido.
Il suo corpo era diventato insensibile. Il buio, allora, gli sembrò qualcosa che lo proteggesse, un mare nero dal quale farsi cullare. Ebbe la sensazione di sorridere. Si sentiva leggero, quasi distaccato dal proprio corpo. Il dolore per la frattura del dente era scomparso, quello delle escoriazioni, pure. L’angoscia provata sino a quel momento sparì magicamente. Si sentì stranamente felice.
L’uomo che lo stava osservando, dopo aver spruzzato all’interno del loculo il gas narcotizzante, chiuse la feritoia. Aveva costruito la struttura con spesse mura di cemento armato, assicurandosi soprattutto della loro tenuta acustica. L’aveva testata, posizionandovi dentro due altoparlanti che aveva poi sollecitato con un brano di Paolo Conte, il suo cantante preferito...
Via, via, vieni via di qui,
niente più ti lega a questi luoghi
neanche questi fiori azzurri...
via, via neanche questo tempo grigio
pieno di musiche
e di uomini che ti sono piaciuti...
Nessuna voce umana sarebbe mai riuscita a farsi udire, nemmeno se urlata.
Indossò i guanti di lattice ed aprì la porta blindata che chiudeva la struttura. Fece scivolare il piano di cemento sui cuscinetti applicati alla guida d’acciaio, consentendo al corpo del suo prigioniero di essere illuminato dalle luci dei quattro fari agganciati all’americana di alluminio.
Avvicinò il trespolo su cui era appeso il contenitore vitreo con la soluzione zuccherina. Prese il tubicino che pendeva dalla sua propaggine inferiore ed osservò la valvola a farfalla che regolava il flusso del liquido. Infilò l’ago nel vena del braccio sinistro dell’uomo.
Lo scopo era quello di mantenerlo in vita il più a lungo possibile, alimentandolo il minimo indispensabile, sino a quando le forze lo avrebbero abbandonato quasi del tutto, riducendolo inerme, ma non distaccato. Voleva che si rendesse conto di ciò che gli stava accadendo. Sperava che ogni istante della sua vita fosse un intenso momento di dolore. La morte, tanto respinta quanto agognata, sarebbe arrivata come una liberazione dall’incubo che stava vivendo.
Si sedette accanto al corpo inerme. Con il telecomando diede impulso al lettore cd. La musica si propagò lieve...
Che ora fai? è un’ora all’inglese, si va
agguanta la mia mano e non ce ne andiamo
tanto di noi si può fare senza...
E chi vuoi che noti, mai la nostra assenza...
Ah, ragazza, tu sei bella ogni giorno di più...
Non farti prender dalla sonnolenza
C’interessa, no, questa conferenza
che tanto il tempo passa anche sotto il sofà...
Chiuse gli occhi, facendosi trascinare dalle note, pensando che il passato aveva prodotto un presente inevitabile.
è giusto così
, sussurrò a se stesso.
Quando la flebo trasferì all’uomo l’ultima goccia del liquido fisiologico, lo fece scivolare nuovamente nella sua cella. Chiuse la porta e si assicurò che l’aria fluisse all’interno attraverso i filtri che aveva posizionato in quattro punti della struttura.
Poi si avviò verso le scale, fermandosi in cima. Diede un ultimo sguardo in basso. A domani
, pensò e spense la luce.
Raggiunse la camera da letto e si avvicinò all’armadio; si tolse la parrucca, gli occhiali ed i denti finti. Li ripose con cura sul primo ripiano. Si guardò allo specchio, massaggiandosi le gote e gli occhi. Prese la boccetta del profumo, spruzzandosene due generose dosi sul collo. L’aroma di the verde si propagò nella stanza.
Quando aprì la porta di casa, osservò Ventimiglia, addossata al blu del mare, ferita dal flusso lento del Roya. Pensò che non era bella, ma era la sua città e solo per questo era l’unico posto in cui avrebbe voluto vivere.
Superò il giardino ed a piedi s’incamminò lungo la strada che lo avrebbe portato in centro.
2
Dolceacqua, ottobre 2002
Il sole illuminava solo i sassi antichi del castello. Le arcate delle finestre apparivano come orbite vuote sulle pareti di arenaria che dominavano il centro storico di Dolceacqua.
Alle otto di mattina, tutto l’abitato era ancora avvolto nell’ombra umida di un’alba che annunciava un nuovo giorno.
Il maresciallo Oliva spalancò il portone della caserma di via Dante Alighieri, scese nella strada deserta e si accese la prima delle trenta sigarette che avrebbe fumato entro sera. Osservò le proprie scarpe, compiacendosi della brillantezza del cuoio nero. Strinse tra indice e pollice della mano destra l’estremità dei baffi, cercando di accentuarne la curva corvina. Il berretto, con la fiamma oro e la visiera obliqua, copriva i corti capelli che stavano imbiancando, nonostante i trentacinque anni.
Sto invecchiando
, pensò, aspirando intensamente l’ennesima dose di nicotina.
Da quattro anni era il comandante della stazione dei Carabinieri. Oltre a lui, la piccola caserma ospitava cinque militari. Era giunto in val Nervia dopo dieci anni di servizio, consumati tra Genova ed Imperia, sempre nei Nuclei Operativi, la prima linea delle investigazioni. Dopo la nascita di Alice, aveva deciso di accettare un posto nelle retrovie. Così, si era trasformato in un placido maresciallo di campagna, come amava definirsi. Era passato dalle indagini sulla criminalità organizzata a quelle sui furti di attrezzi agricoli, dalle estenuanti intercettazioni telefoniche ai tentativi di conciliazione tra contadini che litigavano per stupidi diritti sull’utilizzo delle sorgenti irrigue.
La vita da randagio gli mancava, ma tutto sommato, pensava che la divisa gli donasse, avvolgendogli il corpo asciutto come un guanto su una mano. Grazie al trasferimento aveva recuperato il rapporto con Elisabetta, sua moglie da nove anni. Ripensò a quanto erano andati vicini alla separazione a causa della sua perenne assenza. Il fondo del barile l’aveva toccato la notte che la loro bambina era nata. Lui non c’era. Una consegna di un chilo di cocaina lo aveva trattenuto sulla linea di confine di Ventimiglia, mentre Elisabetta spingeva e soffriva sul letto ospedaliero di Imperia. Per un mese lei non gli aveva rivolto la parola. O meglio una cosa gliela aveva detta: stronzo
. Sorrise, pensando a quanto quell’insulto fosse servito a farlo riflettere profondamente, tanto da cambiargli la vita. Affermava che per sua figlia aveva lasciato i reparti operativi, ma in realtà ciò che non voleva perdere era sua moglie. L’amava con tutto se stesso, come il primo giorno in cui si era rivelato. Ora si potevano definire una famiglia felice.
Papà, papà
.
La voce di Alice gli fece abbandonare ogni pensiero. Lanciò la sigaretta di lato ed allargò le braccia per accoglierla.
La mamma?
chiese, accarezzandole il viso.
Eccola
.
Elisabetta comparve sul portone della caserma. Abitavano nell’alloggio di servizio, destinato al comandante della Stazione. Tre stanze e servizi erano più che sufficienti per le loro esigenze.