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Doppio inganno al Valentino: Un intrigo tra Venezia e Torino
Doppio inganno al Valentino: Un intrigo tra Venezia e Torino
Doppio inganno al Valentino: Un intrigo tra Venezia e Torino
E-book322 pagine

Doppio inganno al Valentino: Un intrigo tra Venezia e Torino

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Info su questo ebook

Siamo alle solite, il Cardo non riesce proprio a starsene lontano dai guai. Colpa della sua lingua lunga e del suo menefreghismo. Del resto lui è il ‘modello base’, quello senza optional. Così, dovrà essere ancora una volta Ribò a tirarlo fuori da un intrigo che nasce fra le calli di Venezia e si sviluppa in un esclusivo circolo di canottaggio, al Parco del Valentino di Torino, con colpi di scena a ripetizione narrati in prima persona dal Cardo stesso, sulfureo, sgangherato e irriverente come sempre. Ed eccolo subito sott’acqua, mezzo annegato, e poi costretto a diventare uno schiavo muto con un collare antipulci al collo, e di nuovo catturato, picchiato dal Golem, per finire poi in un pozzo, nelle segrete di un castello… E tutto per colpa di un innocuo quadro. Mille rogne, insomma, ma anche mille risate, perché il Cardo, ormai lo conoscete, no?, butta tutto in burla.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2012
ISBN9788875638085
Doppio inganno al Valentino: Un intrigo tra Venezia e Torino

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    Anteprima del libro

    Doppio inganno al Valentino - Massimo Tallone

    PRIMA PARTE

    1

    Io sono il modello base

    Io sono il modello base.

    Proprio così, il modello base, come nelle macchine. Non ho gli optional, io. Non me li hanno dati in dotazione. A me hanno dato solo la scocca, la carcassa, l’involucro, nient’altro. Mi devo accontentare dei soli e semplici cinque sensi, io, e con quelli devo cercare di orientarmi alla meno peggio nel mondo, e nulla più. Niente accessori, per me. C’è chi oltre ai cinque sensi ha ricevuto, che so, la sensibilità artistica, e con quella può godere (ah, che modo di sprecare un verbo...) della musica, della pittura, dei libri e di baggianate simili. Non che io desideri averla, la sensibilità artistica, ci mancherebbe solo questa... Mi ci vedo, io, davanti a un quadro, con il mento sorretto da una mano e un sopracciglio sollevato: l’unico commento sarebbe una scoreggia, giuro. No, dicevo così per dire, per dare l’idea di un tipo di optional. Ma mica c’è solo quello, di optional. Qualcuno, per esempio, è stato fornito di volontà e di tenacia, e così, sforzandosi e facendosi venire i calli al culo, ha potuto ottenere i suoi bravi risultati e ora magari ha un lavoro che rende, fa l’architetto, il medico o il gangster, ha una bella famiglia e sa dove si mangia bene. A qualcun altro – e quello un po’ lo invidio – è stata addirittura data la capacità di modificare se stesso, che non pensavo nemmeno fosse possibile, dato che secondo me sei come sei e basta, ma Ribò mi ha spiegato, e quando me lo ha spiegato mi sembra anche di averlo capito, che uno può arrivare a cambiare le sue idee, le sue convinzioni, e quello, cazzo, quello deve essere il più fortunato, perché con un optional di quella fatta puoi diventare quello che vuoi, non sei mai schiavo, né di qualcuno né di te stesso e nemmeno di qualcosa, di un’abitudine, di un modo di pensare, che so, di una verità... Ribò dice sempre che bisogna dubitare soprattutto quando si pensa di aver trovato una verità...

    A me, di tutti questi optional, niente, non mi hanno dato niente.

    Ripeto: sono il modello base.

    Altro che capacità di modificare le idee… Io non le ho nemmeno, le idee, sai che modifiche posso fare. Volontà e tenacia? Manco un grammo, me ne hanno dato. Sono pigro fino al punto di mangiare gli spaghetti attingendoli direttamente dalla pentola, dopo averli scolati e rificcati dentro, sì, proprio così, dalla pentola. Me la stringo al petto, la pentola con dentro gli spaghetti, sul lato sinistro, come fosse una fidanzata, e con la destra vado giù di forchetta. Condimento? No, troppa fatica, gli spaghetti vanno bene così, appena scolati. Visto? Altro che volontà e tenacia, per me. Io non mi lavo nemmeno, se è per questo, ma qui avrei anche ragioni più nobili che non la semplice pigrizia, ma lasciamo perdere. E la sensibilità artistica? Sì, va bene, lo sanno tutti che faccio i trompe-l’oeil sulle pareti delle case, le finte prospettive, le riproduzioni dei quadri famosi, ma solo perché sono bravo a copiare, e da buon imbianchino ho esperienza con i colori, ma tutto finisce lì. Copio come un automa, senza nemmeno sapere perché mi riesca così facile copiare. In ogni caso non è una dote, non è un optional, sta tutto negli occhi, cervello zero, credetemi. Per il resto, saluti e baci all’arte e a chi te lo fa a fette con il Bonito e con il Pollock: a me bastano il bollito e il pollo, e tenetevi gli altri due.

    Dunque, per chiuderla lì, io non ho altro strumento a disposizione, per sfangarmela, se non i miei umili cinque sensi. Tutto quello che so fare è registrare ciò che vedono i miei occhi, quel che sentono le mie sventole (intese come orecchie, non come belle pupe), ciò che percepiscono bocca e naso, e soprattutto quel che scorre sotto le mie dita, per tacere di altre propaggini, e qui mi viene in mente che forse possiedo anche un sesto senso, che vibra come un rabdomante al passaggio di una sventola (oh, minchia, adesso il fesso pensa che si tratti di un’orecchia...).

    Insomma, sono io, sono il Cardo, la macchina umana più elementare che sia mai stata prodotta. Ma con un motore potente, purtroppo, e infatti per non grippare sono costretto a bere come un Concorde. Già, bevo. Bevo di tutto, butto giù, trinco, perché almeno la cilindrata è buona. E poi, siamo onesti, ho un sacco di spazio, io, dentro. Sono perfettamente vuoto, all’interno. Niente optional, l’ho già detto, no? Non ho il portaoggetti, e perciò non accumulo ricordi. Non ho lo specchietto di cortesia, e perciò non mi guardo dentro. Non ho l’aria condizionata e perciò non rinfresco le mie nozioni, e non so dove vado perché non ho il navigatore satellitare. Insomma, io non analizzo il passato, non programmo il futuro, non ho immaginazione.

    Sono il modello base, no? E quindi amo le cozze.

    2

    Proprio sotto il pelo dell’acqua

    Benon, anca questa la xe fata, ’ndemo a torse na ombra.

    E così dicendo, e con la bella prospettiva di andare a bersi un bianchetto in qualche bacaro veneziano, i due scannagatti mi sollevano dal fondo della barca e mi mollano nell’acqua verde della laguna, così come mi trovo, legato mani e piedi, e con il nastro adesivo sulla bocca, sveglio da due minuti e con nessun ricordo nella testa, in questa mia testa vuota come sempre, ma che adesso mi fa anche male come se ci avessero ficcato dentro uno sciame di vespe.

    Ma intanto, plof, io entro in acqua e loro azionano il motore della barca mentre affondo, docile come un mattone. E se parlo di mattone non è per dare l’idea del corpo che affonda (il mio, porca puttana), ma proprio perché credo che abbiano legato un mattone alla corda che mi stringe i polsi, e insomma vado giù a fondo senza avere il tempo di capire come, quando, dove e perché. Sì, è vero, per un millesimo di secondo cerco di tenere la testa fuori dall’acqua, ma non riesco a vedere niente, preso come sono dal bisogno di tentare un ultimo impossibile aggancio con l’aria... E poi giù. La testa viene risucchiata dal resto del corpo e scivola sotto il pelo di questa scura massa verde, sicché riesco solo a scorgere i due lembi d’acqua, che i miei zigomi hanno tenuto separati per un istante, riunirsi davanti ai miei occhi e saldarsi come una ferita magicamente suturata.

    Capite la sfiga? Morire sotto il pelo, non so se mi spiego... Io che avrei davvero dato la vita per morire sul pelo, ecco che mi trovo a dover ragionare, in quei pochi istanti che precedono la morte e che secondo alcuni permettono di veder scorrere il film della propria vita; mi trovo a ragionare, dicevo, sui diversi tipi di pelo, e in particolare sul pelo dell’acqua, il peggiore, il più insulso, quello meno utile e soprattutto l’unico tipo di pelo che non esiste.

    E poi che dire dell’acqua? Anche lì, ditemi voi se non si tratta della scalogna più nera. Capisco morire (a dire il vero non lo capisco, ma questo è un altro discorso), ma perché proprio per mezzo dell’acqua? E perché proprio a me, poi, è stato assegnato il porco destino di crepare sott’acqua, io che l’ho sempre tenuta il più lontano possibile da me, l’acqua. Barbera, dolcetto, arneis, quelli sì; pinot, sauvignon, prosecco, a fiumi; Vodka Martini, ogni volta che ho potuto; rhum, butta giù; nel bicchiere o alla bottiglia, fa lo stesso; di qualità (scarsa) o pessimi, non importa; tutto, ho bevuto di tutto tranne l’acqua, nella mia foruncolosa vita. Ho bevuto anche il vino nel cartoccio, con tutto quel che ne è seguito… Ma acqua mai, mai. O quasi mai, s’intende. Ricordo che ho bevuto un bicchiere d’acqua, una volta, era il ’93, credo, ma poi mai più, a parte forse quelle due o tre brodaglie che mi ha fatto bere Ribò, dopo che i medici bastardi mi avevano aperto la pancia, sempre per via del vino nel cartoccio... Insomma, io e l’acqua ci siamo sempre guardati con sospetto. O meglio, io l’ho sempre evitata, lei non so, perché a quanto pare mi stava braccando, mi teneva d’occhio, e adesso mi ha catturato... L’acqua... Che orrore... Io che nemmeno mi lavo...

    E ora sono qui, ormai sott’acqua, con un adesivo sulla bocca e con la necessità di respirare, prima o poi, ma è chiaro che siamo già più vicino al poi che non al prima…

    Lo dico chiaro, a me la vita è sempre sembrata una gran porcata, e proprio per questo mi sono tenuto alla larga da tutto e da tutti, mi sono cercato una tana – la mia cascina diroccata vicino alla Palazzina di Stupinigi – e ho tirato a campare così, lontano dagli esseri umani, dalle famiglie, dalle imposte dirette, indirette e trasversali, dalle buone maniere e dal contratto collettivo di lavoro. Il contratto di lavoro... Io quello non lo voglio nemmeno personale, figuratevi quello collettivo. No, no, niente lavoro, grazie, faccio l’imbianchino qua e là, se mi va, e qualche volta i trompe-l’oeil, perché sono bravo a copiare, l’ho già detto, e per il resto, ciccia al culo, vino e puttane, e grandi dormite, sulla pedana di legno, il pallet che ho trovato in discarica e su cui ho gettato un materasso... Già, i trompe-l’oeil... Sto annegando proprio per colpa di uno di quelli... Cazzo, sto annegando, è vero, me ne stavo quasi scordando, mentre lasciavo correre la testa, così, per i campi incolti del mio cervello incolto... Sto annegando... Che cosa posso fare? Lasciarmi morire, così, senza combattere? In fondo, sarebbe la cosa migliore, per uno come me, che non ha mai fatto la pace con la vita, e però, cazzo, vorrei essere io a stabilire come e quando togliere il disturbo, senza dare la soddisfazione a due ubriaconi (è l’unico punto a loro favore, questo) di aver messo il sale sulla coda al Cardo. Detto questo, però, siamo da capo, perché intanto, che mi piaccia o no, sto andando a fondo, e non posso trattenere oltre il fiato. Sento già i segnali della fine imminente, me li ha descritti Ribò, dicendo che lo dicono anche nei film, il ronzio nelle orecchie, la testa che gira, il palmo della mano che fa male... Sì, siamo alla fine. Stop, al Cardo. Fine della corsa. Capolinea... Il ronzio, la testa, il palmo della mano...

    Il palmo della mano? Ora che ricordo, Ribò non ha mai detto che nei film che ha visto lui, io ne ho visti solo tre, quelli con Bud Spencer e Terence Hill, si parla di un dolore al palmo della mano come segnale di imminente morte per annegamento... Eppure io lo sento, il dolore al palmo della mano, lo sento eccome... Forse nessuno si è mai accorto che quando si annega fa male il palmo della mano, o forse nessuno ha mai potuto raccontarlo, perché il dolore al palmo della mano sopraggiunge quando proprio non c’è più nulla da fare. Ma che c’entra il palmo della mano con l’asfissia, con l’annegamento? Va bene il ronzio nelle orecchie, quello lo posso capire, e passi anche la testa che gira, ma la mano... Devo fare un ultimo sforzo, devo riuscire a capire da dove viene questa fitta lungo la linea della vita (di merda), proprio al centro della mano, fosse l’ultima cosa che faccio, sì, devo trovare la forza di concentrarmi sulla mano sinistra, devo sentire bene come si irradia il dolore, da che punto parte...

    E poi, di colpo, è come se mi esplodesse un fuoco d’artificio nella zucca.

    Tutto vortica, tutto precipita, tutto volteggia.

    Le impressioni girano a mille, le parole si incatenano fra loro, gli oggetti diventano visibili e il cuore prende a sussultare come una tovaglia scossa al balcone.

    E capisco.

    E rido, e divento perciò felice.

    Col nastro sulla bocca, ma rido.

    E al colmo della felicità traggo un gran respiro, con il naso, in mancanza d’altro, e mi do del coglione perché così infilo dalle froge un litro di acqua verde nei mantici, ma non importa, continuo a ridere, rido con gli occhi, ma rido.

    Rido, sì, rido, perché sono contento di essere il modello base, quello senza optional, privo di ogni capacità razionale e dotato solo e soltanto di istinti bassi, minimi e primordiali. Già, perché nella girandola di immagini mentali che mi è passata dietro gli occhi mentre esploravo il mistero del dolore alla mano, ho come rivissuto gli ultimi momenti prima che le due spugne mi afferrassero per gettarmi in acqua, e ho davvero visto e sentito l’attimo in cui, nella nebbia del risveglio, supino sul fondo della barca, ho percepito qualcosa sotto le mani e allora ho stretto involontariamente le dita intorno a quel frammento sottile e ricurvo, una di quelle scorie inutili che restano ovunque e che nessuno butta mai via... Giuro che se io non fossi stato il Cardo, se avessi avuto la mia brava materia grigia nel cervello, tutta sinapsi e neuroni, e non i calendari con le donne nude (la mia testa è vuota, ma le pareti del cranio sono spaziose, dentro, come quelle delle officine), non avrei mai stretto istintivamente questa meravigliosa valva di cozza fra le dita, ma avrei cominciato ad analizzare, dedurre, considerare e valutare, e sarei trapassato così, ragionando. E invece, il modello base non ragiona, non può, ha solo i sensi, lui, il modello base. E che fanno i sensi? Sentono? E che sentono? Una mezza cozza sul fondo della barca. E che se ne fa, il modello base, di una mezza cozza? La stringe, senza motivo, perché quando un senso sente non va sprecato. E poi, che ci fa con la cozza? Semplice: quando è in acqua, il modello base usa la valva di cozza per tagliare lo scotch da pacchi che gli serra i polsi e che trattiene il mattone. E poi? E poi, privato del mattone, trattenendo l’ultimo fiato, torna su, come uno stronzo.

    Stronzo, ma vivo.

    3

    Vuoi vivere? Fai il morto

    Vuoi vivere? Fai il morto.

    Appena i peli del naso sono al di sopra del pelo dell’acqua, aspiro più aria di quella che può immettere un elefante, ma non mi basta ancora, e allora, a rischio di sbilanciarmi, perdendo la placida posizione del morto che galleggia a faccia in su, porto una mano al volto e strappo dalla bocca l’adesivo. Il rantolo che segue è da primato e farebbe morire di invidia quello che avessero estratto per scherzo dal polmone d’acciaio. Ma non smetto. Dopo un rapido soffio, catturo ancora aria a bocca aperta, con un suono di porco sgozzato capace di far strizzare il culo anche a diecimila zombie, spingendoli a tornare di corsa dritto dritto nelle loro tombe scoperchiate. Insomma, qui, nel silenzio rotto solo dal gracchio di qualche raro gabbiano, ammesso che i gabbiani gracchino, mentre cala la sera, ecco che risuona l’eco del vero mostro della laguna. Ma non si vedono né zombie né polmoni d’acciaio o reparti di ospedale, da questa prospettiva, e perciò il mio rantolo – il rantolo del morto – scivola sull’acqua e si estingue. Il rantolo del morto vivo, s’intende. L’ho detto, no? Se vuoi vivere devi fare il morto. E per fortuna quello del morto è l’unico stile che sappia praticare con eleganza, nel settore sport acquatici. Del resto, io pratico la disciplina del morto mica soltanto quando tentano di annegarmi legandomi un mattone ai polsi. No, cicciobello, io il morto lo faccio da quando ho cominciato a capire di che pasta schifosa fossero fatti i miei simili (me compreso, o meglio, io per primo, e più schifoso). Prendo i ricordi così, a caso, mentre mi lascio portare dalla corrente, chissà dove. Dunque, fatemi pensare, sì, ecco, prendiamo la scuola, e io ne ho di esperienza, perché sono andato a scuola con tutti i ragazzi del quartiere, dato che sono sempre stato bocciato; dunque, la scuola, dicevo... che dicevo? Non ricordo più, comunque, già alle elementari avevo capito che dovevi guardarti da tutto e da tutti, se volevi sopravvivere. E mi sono sempre guardato da tutti anche quando sono diventato il più grande, dato che ho fatto sempre e soltanto la prima, perché l’unica regola era la sopraffazione, tra i mocciosi. E allora, la sola tecnica buona da adottare era quella del finto morto: stai lì, come un ebete, non reagisci, ti lasci bocciare, ti lasci prendere in giro, lasci che insultino il tuo volto butterato, e appena puoi te ne vai da un’altra parte. Certo, se da bambino fai il morto, se non reagisci, se te ne stai lì come un ramo secco, qualcuno, fra gli adulti, prima o poi cerca di capire i come e i perché, ti prendono da parte, ti parlano, ma anche con loro bisogna giocare d’astuzia, dici sì, pensi ad altro e poi riprendi a fare il morto. Vi giuro che funziona. Dopo un po’ non esisti più, e i rompicoglioni che ti circondano smettono di notarti, di tormentarti. Nessuno ti chiede più niente. Finito, sei scomparso. Sei felice. E la scuola va per la sua strada. Ma bisogna essere tenaci, perché dopo la scuola cominciano altri guai. Magari sei così fifone che vorresti avere qualche amico, perché fare il morto alla lunga può mettere noia, allora ti avvicini a uno che magari ti sembra avvicinabile, simile a te, ma è un’illusione, perché da quel momento ricomincia la festa, per lui ricomincia il divertimento: ah, tu sei il Cardo, ma che capelli schifosi ha il Cardo, e quella faccia piena di pustole, ah, ah, ne ha una anche sul naso, fatti avanti, nasoapatata, ah, ah. E allora via, te ne torni indietro e fai il finto morto, e loro la smettono. Ma anche quelli senza pustole e con i capelli non stopposi se la passano brutta, perché è la regola, fra i vivi. Ascolta me, anche se sei ganzo e figo, fai il morto, resta in guerra con la vita e tira avanti. E che dire della famiglia? Peggio che andar di notte, da quelle parti. Ordini, doveri, questo non si fa, quello nemmeno, saluta la zia, bacia il nonno. E volano sventole (scemo, si parla di sberle). E allora anche in famiglia fai il morto, finché non la smettono di menarti e di darti ordini idioti. Insomma, devi stare sempre all’erta, sempre in campana. Perché poi, un bel giorno, vogliono farti lavorare, e poi vogliono registrarti da qualche parte, devi pagare le bollette, rispondere al censimento, compilare il bollettino, andare dai vigili... E continui ad avere intorno gente che vuole qualcosa da te, tanta, troppa, tutti i giorni. Anche lì, allora, bisogna imparare a fare il morto, non rispondere, non scrivere, non avere nemmeno un indirizzo, non andare dai vigili, non farsi beccare da loro, dai vivi, perché se no il mattone ti tira giù. Ed ecco che per non farti catturare vai a vivere fuori, in una cascina abbandonata, vicino a Stupinigi, dove non devi registrarti, dove non hai vicini, dove la casa non ha un numero, vai in una cascina mezza scassata, senza telefono, senza televisione... E se sei il modello base, se non hai il cervello inzuppato di illusioni e di sogni (io non ho nemmeno il cervello, perciò sono a posto), cominci a vivere come un animale selvatico, o meglio come una puzzola, nel mio caso, e così impari a essere felice, da solo, lontano da tutti, e in compagnia dei tuoi soli formidabili cinque sensi, più il sesto, caso mai passasse Angela, con la sua minigonna lucida di gomma nera, Angela, che batte a cento metri da me, sulla strada che costeggia il castello di Stupinigi.

    Insomma, tutto questo per dire che nella parte del morto mi trovo davvero a casa mia.

    Così, mi lascio portare dall’acqua, con gli occhi socchiusi e il gusto salato in bocca. Ogni tanto qualcosa mi si incolla alla faccia, alghe sfilacciate, frammenti di vegetali marciti, sacchetti della spesa o preservativi di Polifemo, ma non li elimino per non perdere la posizione del morto, perché non saprei nuotare in altri modi, e con i piedi legati, poi, sarebbe comunque difficile, quindi non faccio troppi gesti, non oppongo resistenza a quel che succede e accetto la direzione scelta per me dalla laguna, che diventa sempre più nera.

    Poi, all’improvviso, mentre il buio aumenta, il mio pigro moto di galleggiamento diventa ancora più lento, la schiena percepisce qualcosa di meno liquido, spingo le mani in basso, le dita affondano nella melma, e infine spiaggio come una balena smarrita su un lembo di fango. Mi tiro indietro con i gomiti, rinculo, per così dire – sempre che questa non sia una parolaccia, e se lo è meglio ancora – raggiungo un punto asciutto, mi accascio su un fianco, e mentre vedo laggiù, appoggiato sull’acqua, il profilo notturno di Venezia, tutto guglie e campanili, cado in un sonno beato e umido.

    4

    Mi avete scambiato per una seppia?

    Ohi, scoltime, butemolo in bevanda.

    Ma come? Ma che succede? Di nuovo? Non sono ancora uscito dai panni del sopravvissuto, non ho ancora avuto il tempo di godermi la figata di essere scampato alla morte sott’acqua, che altri due figli di cagna riprendono il lavoro interrotto dai loro compari di sbronze e riprovano a mettermi in ammollo. E poi, dimmi tu, chiamare ‘bevanda’ l’acqua… Ma chi sono io, per loro? Una seppia? Sì, lo so, non sono mica bello, io, ho l’alopecia, va bene, ho cicatrici da acne grandi come pizze Margherita che mi chiazzano la faccia facendo crescere la barba a ciuffi radi e isolati, ma non somiglio a un muggine, non sembro un totano, non ricordo un cavalluccio marino, e non mi chiamo nemmeno Marino. E allora perché tutti mi ricacciano in acqua appena mi sveglio?

    Ficca le mani nelle mutande di tua sorella dico a quello che sta per afferrarmi i polsi.

    Orco, fa quello, saltando all’indietro.

    Ficcale nelle mutande dell’orco, se hai quei gusti lì, ma non toccare me, minaccio.

    Ostrega, ti vedi, el xe gà desmissià anca senxa l’acqua, si è svegliato anche senza l’acqua, commenta l’altro, quello che doveva occuparsi delle mie caviglie.

    Mi tiro seduto e cerco di farmi un’idea della situazione. Ho ancora i piedi legati. Davanti a me la laguna verdastra comincia a riflettere i primi raggi di sole. Una di quelle barche che qui chiamano puparin è ferma sul bagnasciuga. Tutto intorno, dove non è acqua, è terra bassa, incolta, rive fangose, una specie di deserto bagnato e melmoso. I due mammalucchi mi guardano tenendo le mani sui fianchi, con i pollici rivolti sul davanti e le dita poggiate sui reni; dev’essere una moda veneta. Uno, quello che fa le seghe all’orco, ha la faccia tonda e tiene gli occhi tanto spalancati che sembrano due uova. L’altro, il mingherlino dell’ostrega, muove la testa come se volesse dire che non c’è mai limite alle sorprese. Sono vestiti con canottiera e calzoncini, e hanno l’aria degli sportivi della domenica, quelli che fino al venerdì tritano scartoffie davanti a un computer spostando ogni tanto i pupazzetti che prendono polvere vicino al telefono, ma che la domenica lasciano campo libero agli amanti delle loro mogli (ecco il lavoro che vorrei fare: quello che la domenica mattina passa a casa di queste brave donne…) lanciandosi in imprese che arricchiscono gli ortopedici e le ditte farmaceutiche.

    Sì, sono sveglio, bramisco, non riuscirete a buttarmi in acqua, non ce la farete ad annegarmi…

    Naturalmente sto mentendo. Così come sono, con i piedi legati e del tutto solo contro loro due non avrei scampo, ma bisogna pur tentare di far paura al nemico, quando non ci sono altre vie di fuga.

    Negarte, ma cossa! Gero solo drio desmissiarte, ti volevo solo buttare in acqua per svegliarti dice il più loquace dei due.

    Allora mi rendo conto che Stanlio e Ollio non ce l’hanno con me, che questi due non sono i due che mi hanno inabissato, e soprattutto che non vogliono finire il lavoro rimasto a metà. Tiro un respiro lungo come l’attrezzo di John Holmes e mi sento rinascere. All’improvviso, tutto mi sembra bello, anche le corde che mi stringono le caviglie. Sono così contento che per un attimo, non di più, giuro, quasi mi pento di avere copulato furiosamente con le mogli dei miei due soccorritori. Sì, è vero, ho soltanto desiderato di sprofondare le mani nelle bianche masse di quelle due brave signore, ma bisogna vedere come le costruisco io, le scene, nella mia testa… Sono sicuro che se i mariti sapessero che film ho girato con le loro mogli, nella mia testa, sarebbero molto più contenti, in cambio del mio silenzio cerebrale, di sapere che ho realmente portato a termine una banalissima sveltina con le loro gattine.

    Sentite, attacco, tutto allegro, qui c’è qualcosa di marcio… e sto per spifferare loro tutto il badadim e il badabam di come sono arrivato lì, del quadro, dell’usciere, della botta in testa, ma mi fermo, perché all’improvviso ricordo che Ribò mi ha sempre detto di tenere la bocca chiusa il più possibile, e di far parlare gli altri per primi, sempre, in ogni occasione, anche a costo di passare per scemo. Ci si pente

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