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Piombo a Stupinigi: Ribò ed i guai del Cardo
Piombo a Stupinigi: Ribò ed i guai del Cardo
Piombo a Stupinigi: Ribò ed i guai del Cardo
E-book304 pagine

Piombo a Stupinigi: Ribò ed i guai del Cardo

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Info su questo ebook

Nuovi guai per il Cardo, guai seri. E per sfangarsela non gli basterà correre nudo in un parcheggio, nascondersi in un cassonetto dell'immondizia, o menare fendenti con una padella. Dovrà chiedere aiuto a Ribò. Perché c'è qualcuno che ce l'ha davvero con lui. Ma chi? E perché? Questa nuova esilarante avventura di Ribò ci rapisce fin dalla prima riga in un vortice di situazioni al cui flusso non è più possibile sottrarsi, complici un ritmo indiavolato e soprattutto - la sintassi del Cardo, che narra in prima persona, e sotto la cui linguaccia sgangherata l'autore sospinge il suo pirotecnico e sulfureo stile.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2012
ISBN9788875638092
Piombo a Stupinigi: Ribò ed i guai del Cardo

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    Anteprima del libro

    Piombo a Stupinigi - Massimo Tallone

    1

    Non dovevo bere il vino nel cartoccio

    Lo sapevo che non dovevo bere il vino nel tetrapak.

    Guarda te che effetti che combina. Prima quel sonno di piombo, nemmeno fossi caduto da un viadotto. E adesso questo risveglio da bradipo e questa allucinazione che non se ne va, rimane lì, immobile, ronzante. Chiudo gli occhi, li apro, li richiudo, stringo forte le palpebre, li spalanco, ma il disco metallico è ancora sopra di me, con tutte le sue luci tonde e bianche. E poi il freddo. Ditemi voi se è possibile sentire la schiena e il culo gelati, adesso, ad agosto. No, non dovevo davvero bere quel vino nel cartoccio.

    Ma è tutta colpa mia. Colpa del mio buon cuore. Io non so dire di no. Si presenta quel mentecatto – solo un mentecatto con psoriasi e giacchetta turchese può avventurarsi fino a una cascina diroccata con la speranza di piazzare il suo schifoso prodotto – e io mi gonfio di stupore. Nessuno aveva mai osato tanto. Né rappresentanti della Folletto, né tifosi di qualche religione. Intorno a Stupinigi, ai due lati del viale che conduce alla Palazzina di Caccia, si sa, è terra di nessuno, solo prati e ruderi. E il campo nomadi, laggiù, verso Torino. E qualche puttana. E il Cardo, che poi sarei io.

    Ma lui, il mentecatto, ha varcato l’arco di ingresso del vecchio podere abbandonato, si è fatto largo fra il trattore arrugginito e il glicine selvatico che sta mangiando il muro e ha bussato ai miei vetri, tuffando timidamente la testa oltre il battente della porta aperta sull’aia. Io ho pochi amici, o meglio, non ho nemmeno amici, solo conoscenti. E loro sanno che ho scelto di vivere in una cascina semiabbandonata per tenermi alla larga dai moduli, dalle bollette, dai registri e da tutti quelli che vogliono spiegarmi o vendermi qualcosa. Girare al largo, smammare, tritare i coglioni altrove, grazie. E invece, lui, il venditore porta a porta, era lì.

    Sono il rappresentante di un nuovo produttore di vino. Abbiamo aperto un punto vendita qui a Torino, nel quartiere Mirafiori… Sono qui per la promozione... C’è un’offerta su queste confezioni, un’offerta imperdibile, sa, per farci conoscere, se lei avesse due minuti... miagola lo squamato, indicandomi con il mento la scatola che regge a due mani.

    Io resto immobile, con il pennello gocciolante – nel senso buono, maiali: sto terminando un trompe-l’oeil su un paravento – e lo guardo. Non è tanto la teiera pelata che mi fa riflettere, quella no, non c’è niente di male a perdere i capelli, dicono addirittura che dipenda dagli ormoni. No, quello che proprio mi intabacca, che mi gonfia le giugulari come fossero oleodotti, è il tono petulante. Al mercato gridano come fossero a un incontro di boxe, ’sti commercianti, ma quando vengono a casa tua belano e piagnucolano. Io di norma li mando a cagare sulla carbonina, quelli che si presentano alla mia porta per piazzare la loro merce, ma questo, dico la verità, mi fa quasi pena. E poi è sudato, mite, ha i baffetti biondi, per giunta, e sorride in modo forzato. Sembra un cane. E poi, almeno, è un rappresentante di vini.

    Su, entra, Boby gli dico. Lui torce la testa indietro, poi capisce che parlo con lui e ubbidisce.

    C’è qualcosa di strano, in tutto questo? No. È la fiera dell’ovvio, il trionfo del banale, l’apoteosi dell’ordinario. Siamo nel nucleo della vita domestica, sulla cresta del quotidiano. E allora perché da quel momento non ricordo più una fava? Perché adesso mi si incrociano gli occhi, perché tutto riprende a girare? Ah, la mia testa... è come se un cammello l’avesse trovata in mezzo al fieno e l’avesse biascicata per tutto il giorno e poi risputata a terra. Devo chiudere gli occhi. Quel disco volante che ho davanti mi sta accecando, con le sue luci tonde. Altro che vedere doppio, ne vedo almeno dieci. Ma che cosa c’era in quel vino? Ora sento anche le voci. Fra un minuto magari mi ritrovo in compagnia di quella là, come si chiama, quella che sentiva le voci... Ah, sì, una certa Giovanna d’Arco. Sentiva le voci, mi ha detto un giorno Ribò. Mah! Speriamo solo che abbia un bel paio di tette, ’sta Giovanna qui, che non so nemmeno chi è. Tanto, fra allucinati ci capiamo. Sento le voci. Ce n’è una, bassa, di maschio, che dice: Il campo è pronto e un’altra, sembra una donna, che ripete: Non sale, non sale. Non chiedetemi che cos’è che non sale. Niente, comunque, che mi appartenga, lo giuro sul peperone.

    E poi arriva la pelle d’oca.

    Chi non ha mai dato un morso a un gessetto da lavagna non sa che cosa sia la pelle d’oca. A me è successo. Avevo undici anni, eravamo in classe, nella scuola dove ho ripetuto i miei anni migliori, dietro Porta Palazzo. Stavamo aspettando l’insegnante di non so che. Io stavo girando fra i banchi, quando vedo quel carciofo di Villa vicino alla lavagna, con una sbarretta di Kinder in mano, di quelle chiare. Dammene un morso, gli faccio, pregustando il trucco in cui eccellevo, poggiare gli incisivi su una frazione esigua di sbarretta e poi, con gran velocità, portare la bocca in avanti e staccare con un morso i tre quarti della preziosa leccornia. Ma lui sapeva, mi aspettava, l’infame, o forse lo avevo già colpito. E proprio mentre sto per azzannare il Kinder lui, con un’abilità che ancora oggi gli ammiro, sostituisce la merendina con un pezzo di gesso da lavagna. Non me ne accorgo e mordo. Mordo e vengo percorso da una corrente di gelo. I denti mi si inchiavardano, atteggio la bocca a serratura di lucchetto e comincio a far scorrere sempre più rapidamente i palmi delle mani sulle cosce per scacciare dalla pelle quel doloroso fastidio che morde il midollo e percuote il cervello, mentre giro e rigiro su me stesso, piegando le gambe e avviticchiandomi fino a cadere a terra.

    Ecco, una pelle d’oca di quel tipo, moltiplicata per dieci, ha invaso, ora, tutta la mia carcassa: ma non ho dato morsi al gesso, questa volta. La pelle d’oca, in questo momento, è dovuta alla fifa. La paura, il terrore, usate la parola che volete, perché ho visto i marziani, ho visto le facce dei marziani, sotto il disco illuminato.

    Facce? Ho detto facce? Ma fammi il piacere. Se avessi visto delle facce, per quanto brutte, non avrei certo pensato ai marziani. La faccia è roba da umani, no? Faccia di merda, di bronzo, di cazzo, di tolla, da schiaffi, tosta, doppia o come il culo, ma sempre faccia, umanissima faccia. Questi, invece, hanno la testa, ma sono senza faccia, e sono verdi. E quindi: marziani. Gli occhi però sono simili ai nostri. Solo gli occhi, però, perché sopra e sotto non c’è niente, solo una superficie verde che si gonfia un poco, ritmicamente, nella zona dove a noi hanno fatto la bocca.

    Sono sopra di me, mi guardano, mi scrutano. E io sono legato, mi rendo conto solo adesso di essere legato... Merda, sono legato, disteso su un piano di ferro... Ho cercato di portare una mano davanti agli occhi per proteggermi dalle luci tonde e dal progressivo avvicinamento dei due marziani, ma non ci sono riuscito. Il mio polso destro ha stretto un patto con il piano metallico e non si lasciano più. Il braccio sinistro nemmeno lo sento. Che succede?

    Non sale, Maurizio, non sale... ripete la voce femminile. Maurizio? Mai saputo che un marziano potesse avere nome Maurizio. Di solito si chiamano Ipsilon Ventuno, o Gzk, non Maurizio.

    Che cos’è che non sale? balbetto, mentre mi rendo conto che le parole escono dalla mia bocca come se fossero pronunciate da uno sformato di spinaci a fine cottura. Poi tutto riprende a girare, i marziani da due diventano sei, le luci bianche si moltiplicano, si colorano, assumono la forma di silenziose esplosioni policrome, fuochi d’artificio muti, i botti. Mamma corri, ci sono i botti. Andiamo a vedere i botti. Ecco, vedo i botti al rallentatore...

    Quel vino è peggio dell’acido lisergico, parola del Cardo. Ma io lo so: con il vino ci vuole pazienza. Se ti agiti è peggio. Bisogna restare lì, calmi, con la bocca melmosa e la nausea che monta e aspettare. Fra un po’ mi sveglio e mi ritrovo davanti il venditore pelato e il suo vino di merda.

    2

    Marziani, angeli e schiaffi in ascensore

    Non sale, ti ripeto che non sale, non arriva.

    Mi gira la testa, ho voglia di vomitare e quella vacca continua a dire che non sale. Ma con chi ce l’ha? Lei si preoccupa del cetriolo marcio di qualche suo amante e io intanto continuo a sentirmi come il mingherlino che ha dato della bagascia alla madre di Tyson. Non riesco ad aprire gli occhi. Chissà se i marziani verdi sono ancora sopra di me... Chissà se il tizio che deve salire è salito... Un momento... Il tizio che deve salire? Stai a vedere che parlano di me. Sono io quello che deve salire. Ma salire dove? Calma... Forse ho capito. Il vino nel cartoccio è molto peggio di ogni altra sostanza, è più che tossico, è velenoso, e io sono morto. Ma siccome un coglione resta coglione, io sono coglione anche da morto e mi faccio subito riconoscere. Devo avere sbagliato strada, devo essermi perso e non riesco a salire sulla nuvola dove valutano il mio caso, prima di indirizzarmi nel girone dell’inferno dedicato a quelli che nella vita se ne stavano in disparte perché ne avevano le palle piene dei loro simili. E i marziani non sono marziani, anche se sono verdi. Sono angeli verdi che io ho scambiato per marziani. Io sono morto e gli angeli verdi devono giudicarmi, perciò mi invitano a salire, ma io invece resto qui come una merda secca. Ma come ho fatto a perdermi? Ci sono le puttane anche per i morti? Io, si sa, non so resistere al loro fascino... Forse ho seguito un’anima con un bel culo anziché tirare dritto, perciò sono stato punito... Non si capisce niente nell’aldilà. A dire il vero io non capivo niente nemmeno nell’al di qua, ma questo è un altro discorso. Adesso devo uscire da questo casino. Devo farmi sentire, dimostrare buona volontà.

    Con chi ce l’avete? scandisco, cercando di restituire alla lingua la sua funzione.

    Si è svegliato dice uno, si è di nuovo svegliato. Cosa aspettate con quel protossido?.

    Le ripeto che c’è una perdita. Non possiamo operare.

    Ma siete impazziti? Io vi mando tutti in galera. Come sarebbe a dire? Io devo operare, questo si sta svegliando e voi mi dite che c’è una perdita?.

    Il manometro segna zero. Zero vuol dire zero. Non possiamo procedere con l’anestesia gassosa. Faccia quel che vuole. Io vado a chiamare il tecnico dei gas anestetici.

    L’incazzato che vuole mandare tutti in galera comincia a soffiare, sbuffare, grugnire, e alla fine del suo concerto per guance e saliva barrisce:

    Riportate questo stronzo in Pronto Soccorso e trovate una soluzione. Entro un’ora voglio cominciare l’operazione. Chiamate chi volete, ma riparate questo tubo. Oppure procuratevi una bombola, a me non me ne frega. Dategli una seconda botta in vena, nell’attesa. Non voglio che si svegli e faccia storie. Fra un’ora apro questo merdoso.

    E se ne va.

    Grazie per la stima riesco a recitare, mentre qualcuno armeggia intorno ai miei polsi e alle caviglie.

    E mentre tre paia di mani si incaricano di trasferire la mia unica e amata scocca (siamo o non siamo a poca distanza da Mirafiori? E allora lasciatemi usare paragoni in linea) dal piano metallico a una più morbida superficie, usando la stessa delicatezza con cui si sgozzano i maiali, io rimetto in moto la gelatina putrida che nel mio cranio occupa lo spazio del cervello e penso. E deduco. Uno: non sono morto. Due: sono in sala operatoria. Tre: pensare non è cosa da me, perciò ripiombo nel limbo.

    Io odio i sogni realistici, quelli in cui sudo, ad esempio, dove la sensazione di sudare è così vera che, al confronto, ero fresco come una tomba di famiglia, quella volta che stendevo a badilate il bitume molle e fumante sulla strada ferita dal sole di mezzogiorno, alla fine di luglio, a Orano (anche se io non l’ho mai steso, il bitume e non sono mai stato a Orano, ma è tanto per rendere l’idea). Oppure quei sogni dove un rappresentante sicuro di sé, saldo nel passo e ottuso nello sguardo, mi stringe la mano usando la sua come uno schiaccianoci perché qualche idiota, al corso di Psicologia della Vendita, gli ha detto che la stretta di mano deve essere virile, altrimenti il cliente ti scambia per un finocchio e non compra una beata fava; ebbene, hai un bel dire che è solo un sogno, ma intanto la mano martella e formicola come se il venditore fosse lì, nel mio letto (alla faccia della stretta virile...) intento a sgretolarmi le dita.

    Ecco, i sogni realistici mi fanno incazzare. Ma il destino di ognuno di noi è disegnato da un gibbone ubriaco, come ormai tutti sanno: infatti, uno non fa in tempo a stilare l’elenco delle prime tre cose che lo fanno andare in bestia, il latte, il freddo e la pancia, mettiamo, che subito si ritrova obeso, in Lapponia, con un’unica riserva alimentare, il latte, va da sé. E quindi, saggio di fronte alla sorte, non mi rosicchio più di tanto il fegato, ora che il più stupido e irriverente fra i sogni realistici vibra irrequieto fra i miei neuroni regalandomi la sensazione netta, dolorosa, oltraggiosa, di ricevere dalla mia maestra di seconda elementare uno schiaffo, due schiaffi, e sciaf, un terzo schiaffo, e slap, un manrovescio, e non li conto più perché ormai è una sequenza di schiaffi, mollati con sadica sapienza, con la calma e il ritmo che la troia deve avere imparato in un salotto nazista.

    Si svegli, si svegli ripete ora la maestra, continuando a suonarmi la Nona di Beethoven sul muso.

    E io mi sveglio, allora, e dico, o meglio, grido la mia: Ma vaffanculo, pezzo di fango di una maestra, tanto non la so la grammatica, non la saprò mai, e nemmeno l’aritmetica, e nemmeno la geografia, e nemm....

    Non riesco a finire la frase che la maestra si trasforma in uno dei marziani, quelli verdi senza bocca di prima. Ma non erano angeli? Non capisco più niente. Mi sembra di avere gli occhi aperti, ma con i sogni realistici non sai mai da che parte sta il vero. Insomma, ora credo di essere davvero sveglio. Ho gli occhi aperti e mi trovo dentro un ascensore lungo e stretto. Sono su una lettiga. Ora ricordo. La sala operatoria. Ero in sala operatoria e mi hanno rispedito in corsia. E uno di questi stronzi con la mascherina sulla bocca e il cappellino verde mi sta gonfiando la faccia di schiaffi. Ma dimmi tu se è questo il modo. Facile, con uno che non ha nemmeno la forza di stringere la mano a pugno.

    Si svegli, per favore, si svegli continua a dire la voce. E annoto che è una voce femminile.

    So... sono sveglio balbetto, ora che la vivida realtà del sogno ha lasciato il posto a una più confusa percezione.

    Ho fermato l’ascensore. Mi sente? Ho fermato l’ascensore insiste la sboccata (è senza bocca) e forse comincio a capire. Ha voglia, la sboccata (la porcellona), ha voglia di me. Non so quale aspetto del mio essere possa averle solleticato la polpa, ma se un’infermiera mascherata blocca l’ascensore a mezza corsa e sveglia il paziente a sberle, io faccio due più due e divento impaziente. Sbaglio? No, non posso sbagliare, anche se continuo a non capire che cosa abbia notato in me di così interessante. Non certo l’eloquio gaio e funambolico, perché ero – e sono – stordito dal narcotico; e poi, in ogni caso, io non so menare la lingua, non so parlare, far ridere, interessare. Se capisco che c’è trippa per gatti, con una tipa, le appoggio subito una mano sul culo e via. Io, parlare, non è roba da me. E nemmeno la mia intelligenza può avere scatenato le manie di questa ninfa. Primo, l’ho già detto, dormivo. Secondo, sul piano del cervello lascio volentieri il posto a mio cugino, quel rammollito pallido, studioso e vile che mia madre additava come esempio da imitare. No, grazie, ho risposto, niente intelligenza, please. E sono rimasto il Cardo rozzo, brutto e spinoso che sono: mai letto un libro, coi giornali ci faccio i cappelli da imbianchino e spendo tutto in vodka e puttane.

    E allora? Mistero. Non so spiegare questa brama che monta come una marea, risalendo dalle mutande dell’infermiera su su fino alle sue mani ardenti di ceffoni. Che sia stata incantata dal mio corpo? No, non scherziamo. Quello neanche lo mettevo in conto. Sono uno sgorbio, io. Ho le unghie nere. La mia faccia ricorda una foto della luna, a causa delle tante cicatrici tonde, a imperituro ricordo della più poderosa acne giovanile che pelle umana abbia mai collezionato, cicatrici che mi permettono di ottenere una suggestiva rasatura a macchia di leopardo. Il labbro superiore? Tende al leporino, no? E non ho finito. Mi lavo quando mi ricordo e perdo i capelli. È chiaro il quadro? Le sole donne, per me, sono quelle che pago – dài, chi non lo capisce? – che poi sono le migliori, le più sincere, ma questo è un altro paio di mutande.

    L’infermiera infoiata e manesca, però, è una piacevole new entry.

    Ho fermato l’ascensore. Mi sente? Mi capisce? chiede ancora una volta Mano di Fata, calandomi sulla bocca un manrovescio che risuona nella cabina-alcova come il tuffo di un pancione dal trampolino.

    Mannaggia se ti sento rispondo, ma penso che dovrai fare tutto tu, perché io sono un po’ sbiellato... Magari se ti togli la mascherina puoi....

    Senta, allora incalza lei, senta bene, apra le orecchie. Adesso faccio ripartire l’ascensore. Quando si ferma saremo al piano terra. Io spingerò la lettiga fino al fondo del corridoio, vicino all’uscita di sicurezza, mi ha capito? L’uscita di sicurezza, quella che basta spingere il maniglione antipanico e si apre sull’esterno. Dunque, io lascio lì la lettiga, con lei sopra, per due minuti e vado in Pronto Soccorso a prepararle il posto in corsia. Ha capito? Due minuti. Lei starà due minuti vicino all’uscita di sicurezza. Da lì non passa mai nessuno.

    E l’ascensore riparte con un sobbalzo.

    Bizzarra creatura. Femmina dalle mille risorse e dalla fantasia indiavolata. Non le va più l’agguato in ascensore e ha immaginato un pezzo ancora più ardito. Brava. Ma cosa avrà in mente, adesso? Devo pensarci su, non voglio sembrare un pivello. Chiudo gli occhi e penso. La sequenza di schiaffi a due mani che mi raggiunge non appena unisco le palpebre toglie al divin marchese il primato raggiunto in tante pagine di raffinato tormento (me l’ha detto Ribò; io non so chi sia, ’sto marchese). Botte da orbi, insomma.

    Sveglia, sveglia ritma la sadica.

    E io riprendo a pensare a occhi aperti. E infine capisco. Ama l’azzardo, Palma d’Acciaio. Non riesce a fremere, come tutti, nell’intimità dell’alcova. Ha bisogno del luogo pubblico, la perversa. Ha bisogno di rischiare. La paura di essere beccata fa gonfiare tutte le sue mucose e le regala quella trance repentina e fuggevole per cui in fondo ogni onesto maiale vive. In fretta, in fretta, che possono pizzicarci, è il suo motto. Cose veloci ma succose, capito il genere? Non è il mio, di genere, ma mi adatto. Io non giudico nessuno e non pretendo di imporre il mio gioco. Chi sono io, per giudicare gli altri? Chi può dire, del resto, di essere normale, sul lato ormoni? E allora silenzio. Si prende quel che arriva, si ringrazia e si torna a casa.

    L’ascensore ha compiuto il suo tragitto e sbatacchia. Le porte scorrono scivolando su binari che gemono e stridono. Una luce smorta come una dentiera consumata mi accarezza le pupille.

    Con passi corti e veloci, la mia cinesina (ha gli occhi neri che vanno un po’ all’insù) spinge la variante di risciò su cui giaccio. Torce il collo a destra, a sinistra e all’indietro. Sembra che non ci sia nessuno, nel corridoio. Deve essere un passaggio di servizio a giudicare dalle ragnatele che collegano fra loro, come fossero amache per insetti, i condotti tecnici avvolti in bende grigiastre e sfilacciate che corrono sul soffitto. E taccio dei tubi al neon imbozzolati da strati di polvere come fossero bachi di luce.

    Due minuti, ha capito? Due minuti. Fra due minuti vengo a riprenderla e la riporto in Pronto Soccorso, e le inietto l’anestetico, come ha detto il chirurgo. Due minuti. Adesso la lascio qui, vicino all’uscita di sicurezza dice ora, affannata, la mia traghettatrice, bloccando la barella contro la porta di emergenza. E scompare.

    Tutto qui? mi chiedo. Ma come? Non si delude così un essere umano. Prima stoppa l’ascensore, poi trasforma la mia faccia in una anguria sbucciata per svegliarmi, infine, quando sono quasi pronto (chiamo a testimone il telino che mi copre), quella saluta e se ne va. E con che voce tremante mi ha mollato qua, contro l’uscita di sicurezza. Ha appoggiato la barella al maniglione e mi è sembrato che le tremassero anche le gambe. Era come se temesse qualcosa, come se non potesse dire tutto ciò che avrebbe voluto dire. E continuava a guardare la maniglia antipanico... Stai a vedere che stava solo nella mia testa, la passioncella erotica dell’infermiera. Lei, forse... Forse mi sono inventato tutto... Lei voleva... Chi lo sa... Sembrava che volesse avvertirmi... Ha voluto a tutti i costi che mi svegliassi. Voleva avvertirmi... Ma di che? Avvertirmi... Sì, voleva mettermi in guardia. Ma da chi? E perché ha voluto essere sicura che ero sveglio? E continuava a fissare con gli occhi questa porta... È tutto così bislacco, da qualche minuto. Non capisco più niente. Fin dall’inizio, a dire il vero, questa storia gira in maniera balorda. Bevo il vino di quello spaventapasseri e mi risveglio in sala operatoria. Perché? Che cosa mi è successo? Sono svenuto? Poi, l’operazione non comincia e mi riportano giù, mentre l’infermiera mascherata dopo avermi gonfiato di manate per svegliarmi mi indica l’uscita di sicurezza.

    Non capisco... O meglio, capisco e non capisco, ma sul lato che capisco, capisco che bisogna agire e non capire. Capisco che per qualche ragione mi è stata indicata la porta della salvezza. Qualcuno mi sta aiutando, la cinesina è il mio angelo custode. Ma allora erano davvero angeli, i marziani verdi... No, che dico, sto ripiombando nel sonno. Devo svegliarmi. Devo agire. Ha detto due minuti, poi deve riportarmi dentro... Due minuti... Devo agire.

    Agisco.

    Con un piede spingo il maniglione antipanico dell’uscita di sicurezza. La porta si apre ripetendo il rumore di foglie secche spostate dal vento. Vedo una spianata di cemento, sulla sinistra, al fondo della quale si allarga la multicolore area di parcheggio. Torco la testa e riesco a vedere, di qua, sulla destra, mezza macchina parcheggiata (l’altra metà è nascosta dagli infissi della porta), una siepe spettinata e mal pareggiata, un prato spelacchiato oltre la siepe, tre cassonetti per l’immondizia e laggiù in fondo, di là dal prato, una fila di case popolari.

    La porta a vetri del Pronto Soccorso, a cinque metri da me, comincia lentamente a muoversi. Qualcuno, da dentro, la sta aprendo, ma il battente si scosta di pochi centimetri e subito torna alla sua posizione di chiusura con un colpo secco. Ed ecco che ricomincia il moto lentissimo di apertura. Stanno per venire a prendermi... La cinesina forse mi sta avvisando... Mi sono rimasti pochi secondi... Stanno

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