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L'amaro dell'immortalità: Le metamorfosi del Cardo
L'amaro dell'immortalità: Le metamorfosi del Cardo
L'amaro dell'immortalità: Le metamorfosi del Cardo
E-book298 pagine4 ore

L'amaro dell'immortalità: Le metamorfosi del Cardo

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Info su questo ebook

Ma allora il mondo va davvero alla rovescia, se il Cardo s’innamora, se cerca lavoro, se qualcuno ritiene che lui sia figlio di un conte, se un amaro fa campare duecento anni. E la causa di tutto è un amore assoluto, sconvolgente, mai provato prima. Troppo, per il Cardo, che è costretto a tenere celato il suo sentimento e soprattutto ben nascosto l’oggetto della sua passione.
Ma una simile metamorfosi è sospetta, per Angela, che forse è anche un po’ gelosa. Intanto il lavoro chiama e il Cardo corre a Monforte, su invito del Rombo, un nuovo amico della bocciofila.
Deve dipingere un trompe l’oeil in una villa circondata dai vigneti. Da quel momento si rincorrono i malintesi, si equivoca tra la vita e la morte, si confrontano uomini e animali, il presente si fonde con il passato e da Monforte si sale a Bairo, nel Canavese, dove un misterioso elisir prende il posto del nebbiolo... E ancora una volta il Cardo si trova nei pasticci, fra chi vuole bruciarlo e chi prova ad annegarlo per strappargli un segreto che lui stesso ignora...
Basterà il suo nuovo amore a salvarlo?
LinguaItaliano
Data di uscita20 gen 2014
ISBN9788875639587
L'amaro dell'immortalità: Le metamorfosi del Cardo

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    Anteprima del libro

    L'amaro dell'immortalità - Massimo Tallone

    PRIMA

    1 - C’è gente che cerca lavoro

    C’è gente che cerca lavoro in maniera disperata e poi, quando lo ha trovato, frigna e impreca e smadonna e si lamenta perché guadagna troppo poco. Ma di che ti lamenti, dico io? Cercavi lavoro? Lo hai trovato. Se volevi i soldi dovevi cercare i soldi, non il lavoro, mio bel frescone.

    Prendi me: se voglio un pintone di barbera vado alla bocciofila e chiedo un pintone di barbera. Mica vado in giro a chiedere se qualcuno mi presta una bici, quando ho voglia di barbera.

    Io, a dire il vero, il lavoro non l’ho mai cercato, o quasi. E mi sono sempre trovato bene. La barbera, invece, quella sì, che l’ho cercata. Per i soldi, se devo dir la mia, stessa solfa: mai cercati. Ma questo è un altro paio di mutande. Però, se avessi voluto i soldi, io avrei cercato i soldi, non il lavoro.

    Ma i soldi li ottieni soltanto con il lavoro dice il solito leccaculo. Questa gran fava, rispondo io. Come fai, signor leccaculo, a trovare il tempo per cercare i soldi, se la maggior parte della giornata la passi a lavorare? E non ripetermi che i quattrini li ottieni in cambio di lavoro, perché i pochi soldi che ti danno in cambio del lavoro non bastano nemmeno per pagare il necessario, figurati il superfluo, che è la cosa per cui si campa, alla fine.

    Uno dovrebbe cercare lavoro soltanto se è sicuro di amare il lavoro. Dovrebbe sbattersi alla ricerca di un lavoro soltanto se ciò che davvero desidera è lavorare. Così, dopo che avrà trovato lavoro sarà contento e non scasserà più la nerchia a nessuno. Ho sentito dire di tizi così innamorati del lavoro che dopo essere andati in pensione hanno sofferto al punto di dover riprendere a lavorare. Altri, come quelli, si sono addirittura ammalati e poi sono morti dopo nemmeno un mese di pensione. Ecco, è quella la gente che dovrebbe cercare lavoro, la gente che ama il lavoro. Insomma, il lavoro è il lavoro e sta da una parte; i soldi sono i soldi e stanno dall’altra. E non si incontrano mai, soldi e lavoro. Non è che ci vuole un genio della finanza per capirlo. Se lo capisco io, tutto detto. E invece, ciccia, la gente continua a cercare lavoro. Dunque, devo ripeterlo: con il lavoro non è possibile fare i soldi. Quel tanghero di prima adesso mi potrebbe chiedere che cosa ne so, io, di lavoro, dato che ho appena detto di non aver mai lavorato. Ed è qui che lo aspettavo, il tanghero, perché qui gli posso buttare sul piatto la carta vincente. Infatti è vero che per la maggior parte della mia vita non ho mai lavorato, ma da tre giorni, ormai, udite! udite!, la storia è cambiata. Da tre giorni mi tiro il culo e sudo e mi scasso la minchia e mi rompo la schiena accatastando cartoni e spostando e trainando a mano carrelli con le ruote, sbilenchi e pieni dei cartoni da imballaggio che io stesso ho messo dentro. Detto in altre parole, ho un lavoro.

    Sì, è proprio così:

    io,

    il Cardo,

    il re dei perdigiorno,

    il principe degli ubriaconi,

    il supremo scansafatiche,

    l’imperatore della cascina abbandonata in cui alligno,

    il duca del pallet su cui dormo da quando l’ho reso comodo con un materasso tutto macchie giallognole e brune che ho recuperato in discarica;

    io, che non mi sono mai lavato per non dover cancellare i numeri di telefono di Ribò e di Angela scritti a pennarello sui polpacci;

    sì, io, proprio io, lo scarto degli scarti, da tre giorni ho un lavoro.

    E non si tratta di un lavoro così per dire, ma di un lavoro vero: raccolgo, ripiego e sistemo i cartoni nei gabbioni di metallo. E non in giro, a caso, ma sul retro di questo supermercato disperso nella periferia lungo la strada che da Nichelino va a Moncalieri. Un lavoro con tanto di contratto (a tempo determinato, questo è chiaro, perché non avrei mai avuto il coraggio di firmare per un lavoro se non ne avessi visto anche la fine) e con un orario preciso di inizio e fine giornata, addirittura. Roba da terzo mondo, si capisce, da epoca dello schiavismo, come dicono sempre i miei amici papponi, alla bocciofila, quando parlano di lavoro... Ma lasciamo perdere. Io ormai sto dall’altra parte, dalla parte di quelli che lavorano.

    Mi sono fatto assumere da questa cooperativa specializzata in pulizie industriali grazie alla raccomandazione di Angela, dato che il presidente è un suo cliente...

    Lavorare? Tu cerchi lavoro? Ma sei impazzito, Cardo? mi ha detto due settimane fa, quando le ho chiesto se conosceva qualcuno disposto a farmi fare qualche lavoretto. Ero disteso sul pallet e lei stava riposizionando le tette nel suo portatette di gomma nera, al termine di una più che soddisfacente seduta di bolero (lei dà un suo nome speciale a ogni tecnica maiala che esegue; ed era la prima volta, di quest’anno, che mi potevo permettere un bolero, grazie al fatto che avevo trovato ben trenta euro sulla maiolica del cesso alla turca della bocciofila).

    Mi serve un lavoretto, Angela… ho ripetuto, a voce bassa.

    Mi ha guardato come se le avessi confidato di essere il figlio segreto del papa e mi ha toccato la fronte con il dorso della mano. Ho abbassato gli occhi e non ho più parlato. Lei, che conosce le regole, ha capito che se uno non spiega subito una certa cosa è perché non la vuole spiegare punto e basta. E infatti non ha più indagato, ma ho capito dalla sua faccia da scontrino appallottolato che mi immaginava in qualche brutto guaio.

    Se è proprio questo, che vuoi... mi ha detto, infilandosi la gonna direttamente sul belvedere, senza mutande. Poi è rimasta lì un po’, ferma, in piedi, a studiarmi, con il mento intrappolato in una mano, come quelli che ai concerti o alle conferenze se ne stanno ai lati, appoggiati al muro, pensosi, a guardare il pubblico anziché fissare il babbeo che parla o che canta (li ho visti davvero fare così, alla tele). Alla fine però Angela ha sbuffato, come a dire che non valeva la pena darsi tanto pensiero per me; ha scosso il suo casco di capelli corti, neri neri, e se n’è uscita spingendo di lato il battente della porta con un colpo d’anca.

    L’ho lasciata andare via così, nella luce squillante e polverosa dell’aia, una sagoma perfetta di pelle bianca sullo sfondo scuro della tettoia ingombra dei badili impolverati, dei vecchi rastrelli e degli aratri arrugginiti...

    Non potevo certo dirle che avevo deciso di andare a lavorare per amore.

    Non potevo certo dirle che avrei accettato qualunque umiliazione pur di poter comprare qualcosa da regalare a Nella, la mia Nella.

    Non potevo certo dirle che da quel giorno e dopo quel bolero sarei stato fedele soltanto a lei, a Nella, e che Nella quel giorno sarebbe venuta a vivere con me…

    2 - Non credevo all’amore, e invece…

    L’amore, quello, proprio no, non avrei mai pensato di caderci.

    Io, per quel che mi riguarda, ho sempre considerato l’amore quell’altro, quando arriva Angela, la mattina, dopo essere scesa dalla macchina dell’ultimo cliente, e mi sveglia con un calcio prima di offrirmi uno dei suoi lavoretti, sempre che le abbia fatto sventolare davanti al naso venti euro, la sera prima.

    Altro tipo di amore non l’ho mai conosciuto, io.

    Sapevo che c’era in giro questa voce secondo la quale l’amore è qualcosa di vago e di inconsistente, tutto immaginario, una specie di malattia che produce palpiti e ansie, attese e mancamenti, lacrime e stordimenti, e avanti così con il repertorio delle canzonette. Ma ci avevo sempre pisciato sopra, io, su quella maniera idiota di intendere l’amore. Tutte baggianate, dicevo, tutta fuffa, dato che l’amore, il solo e unico amore, è quello che si manifesta con un assalto di mani e di lingua e di incastri possenti tesi allo scambio godereccio di fluidi corporei più o meno controllabili.

    Ma non avevo ancora incontrato Nella…

    Lei ha cambiato la mia vita. E se prima vivevo come una scimmia, andando giù di rasponi (in mancanza di Angela) e passando i giorni a tracannare barbera dall’altra parte del viale, alla bocciofila di Piattola, adesso so (purtroppo, forse) che nel campo dell’amore c’è qualcosa di più di quanto ne sapessi. So per esempio che è possibile e che soprattutto è bello dedicare i propri pensieri e il proprio tempo a una creatura, una sola, senza volere niente in cambio, senza pretendere favori o attenzioni, ma al contrario quasi godendo del non essere notati da lei, dall’amata, per poterla ammirare così com’è, per essere felici del solo fatto che lei esiste. So anche, adesso che sto provando le pene d’amore, che si può soffrire e piangere senza ritegno al pensiero che lei possa star male, o all’idea che possa andarsene, o per il sospetto che lei possa preferire qualcun altro...

    Sì, lo so che non è da me questo discorso. Se mi sentisse Piattola, tanto per dire, diventerei lo zimbello della bocciofila, anzi no, non solo della bocciofila, ma di tutta Stupinigi, al punto che anche il cervo di bronzo, piantato lassù, sulla cupola della Palazzina di Caccia, riderebbe di me fino a cadere e a schiantarsi al suolo. Perciò chiudo e sigillo dentro me il mio sentimento e me ne sto zitto zitto e rintanato qui, nella mia cascina abbandonata, e mi tengo ben stretta Nella, tutta per me.

    Lei, dal canto suo, non l’hanno mai nemmeno vista, quei pezzi di merda di Piattola, Aldo, Bostik, Ferruccio e la compagnia briscola di tutti gli altri papponi e parassiti e puttane della bocciofila, ed è meglio così... Nessuno finora ha saputo di me e di Nella, nemmeno Angela, che del resto è abituata alle mie lunghe assenze, motivate di volta in volta dalla mancanza di grana, dalla difficoltà a riprendermi da sbornie colossali o, più raramente, dall’esecuzione di qualche trompe-l’oeil a casa di qualche fesso che ammira il fatto che so dipingere, purché si tratti di copiare.

    Così, finora nessuno si è accorto di questa mia nuova vita e di questa storia d’amore che mi fa provare stati d’animo che non conoscevo e di cui ignoravo addirittura l’esistenza. Come quando mi sveglio di soprassalto, la notte, con il sudore gelato che mi scende per le scapole e mi agito, terrorizzato, con la paura che Nella sia scomparsa, che sia andata via o che non sia mai davvero esistita e che io l’abbia soltanto sognata. E allora scatto di colpo e mi metto a sedere sul pallet, al buio, e allungo una mano e per fortuna sento il suo corpo caldo, lì vicino. Allora tutto in me si placa di colpo e mi riaddormento subito, contento, sereno, senza sentire il bisogno di toccarla di nuovo o di avvicinarmi, perché mi basta che lei sia lì. Altre volte, ai primi chiarori del mattino, quando nella mia stamberga arriva la prima luce, apro gli occhi e mi stupisco di provare un senso di felicità così completo e appagante, come e forse più di quando Angela me lo lavora, al pensiero che Nella è lì, vicino a me; non riesco a credere di poter gioire soltanto per il fatto di guardarla dormire; mi scombussola l’idea di sentirmi felice come mai prima mi è accaduto di essere e di annullarmi in questo lago di felicità per la sola ragione di poter osservare le sue ciglia, nere e lunghe, e le sue palpebre scosse da un tremito, ogni tanto, per un sogno, chissà, o per un brivido di freddo...

    Insomma, se questo è l’amore, quell’amore di cui ho sempre sghignazzato, ebbene, io ci sono dentro fino al collo. E per quanto mi renda fragile, debole, ansioso, balbuziente e rimbambito, voglio che continui, voglio restare innamorato, voglio immaginare il futuro con Nella. Perché il punto è proprio questo, a guardare bene in faccia la realtà e stringere le cose alla loro essenza: l’amore, questo tipo di amore, si svolge soltanto nel futuro, a differenza di quell’altro, quello in cui sono più esperto e che maneggio anche da solo, che invece si sviluppa solo nel presente. L’amore di questo tipo, infatti, mi costringe a uscire dal mio giorno placido e inoperoso, organizzato intorno alle necessità del momento, che poi sono bere, ridere e trovare chi me lo manovra. Come fosse dotato di un motore a propulsione nucleare che gira senza posa nella testa, questo nuovo tipo di amore mi impone di immaginare la mia vita con Nella; mi chiede di inventare i modi per renderla felice oggi, domani e dopodomani e sempre, affinché non si stufi di me; mi comanda di trovare cibi buoni da offrirle tutti i giorni; mi invita a fare progetti, a programmare viaggi, a ragionare sulla nostra convivenza. E quando pensi al futuro sei fregato, questo lo so, lo sto imparando. Il futuro ti imprigiona, ti incatena, ti stringe la carotide e ti rende incapace di goderti la vita. Sei là, nel nulla del futuro, mentre dovresti essere qua, a lavorarti il cilindro. Ma purtroppo, quando ti prende questo tipo di amore, semplicemente non puoi pensare al presente. Diventa impossibile essere qua, dove sono sempre stato, se l’amore, questo tipo di amore, mi fa galoppare con la testa e pretende una produzione costante e infinita di immagini della persona amata. Tutto era più facile con quell’altro tipo di amore, dato che richiede soltanto organi estroversi (capitemi...) e cavità ospitali e ospitanti. Però, vuoi mettere? Quello, l’amore di cui ero esperto e che infiamma le mutande (per chi le porta; io non le porto, si sa), diventa un passatempo noioso a fronte della droga spaventosa e ipnotica che mi regala questo nuovo tipo di amore, tutto sbilanciato verso la creatura amata, capace di rendermi indifeso e addirittura indifferente al mio stesso piacere e disposto, come se non bastasse, a lavorare.

    Già, lavorare.

    Ho preso la decisione subito dopo aver scelto di stare con Nella.

    I primi giorni l’ho tenuta nascosta, povera Nella, dentro la cascina di Amedeo, che è vuota, dato che lui ha le vacche e in giugno se ne va con loro su in alpeggio, al Pian dell’Alpe, sopra Usseaux, che è una specie di paradiso. Ho preferito così... Ho avuto paura, in un primo momento. Non ho osato portarla subito da me, non ho avuto il coraggio di farmi vedere in giro con lei, non so manco io per quale ragione. Di sicuro so che lei mi ha stregato fin dal primo momento... E poi c’è da dire che quando l’ho beccata, là in mezzo al granturco, era ancora spaventata, povera piccola. Era appena volata giù dal TIR e doveva aver corso a lingua fuori in cerca di un nascondiglio per tutta la notte, e alla fine era arrivata ormai senza forze proprio dietro la mia bicocca.

    Se ne era parlato molto alla bocciofila, la sera prima, di quel TIR che era uscito di strada intorno all’ora del tramonto.

    Ti assicuro che ho visto tutto ha detto Piattola, allargando le dita sulla pancia.

    Ma se da qui non si vede nemmeno, quella curva maledetta ha ribattuto Bostik, che vuol sempre saperla più lunga degli altri.

    Ho visto la coda del TIR sbilanciarsi verso i prati, idiota. Ha zigzagato un po’ e poi si è piegato su un lato. Le macchine, dietro, lo hanno evitato per un pelo, e poi si è formato un capannello di persone, e c’è stato un fuggi fuggi che non vi dico. E le urla, le urla....

    Ma da questa distanza non si sente nemmeno quando passa l’ambulanza ribatte Bostik. E poi qui dentro c’è quella tele sempre accesa sulle cazzate, a tutto volume.

    Cretino, c’era uno spot silenzioso, in quel momento….

    Vai avanti, Piattola ha insistito Aldo, che è l’unico ad avere una passione profonda per le panzane del barista. Quando ascolta Piattola, lui va in estasi come un bambino, spinge il mento in alto e spalanca quella sua bocca rossa e tonda come un palco di teatro con il suo unico immenso incisivo giallo a fare da spettatore solitario.

    Sembrava l’Apocalisse, sembrava... Ma voi non sapete nemmeno che cos’è l’Apocalisse... Sembrava la fine del mondo, ecco. Dalla cabina di guida del TIR sono scappati in tre e dal rimorchio è uscito di tutto, compresi due tizi scuri scuri con il turbante in testa. E poi sono arrivati gli elicotteri, roba che sembrava davvero di essere in guerra. E c’era gente che abbandonava le macchine e si buttava all’inseguimento, nei prati....

    Ma se era già buio, quando il TIR si è sfracanato nei prati, come hai fatto a vedere chi usciva dal TIR? ha chiesto Ferruccio, con la voce timida, mentre giochicchiava con la cravatta a fiori. Lui continua a vestirsi come quando faceva il rappresentante.

    Ferruccio, ho detto che c’erano gli elicotteri, non hai sentito? E quelli hanno il fascio di luce… ha spiegato Piattola. E per dare spessore alle sue parole ha preso a grattarsi con forza in qualche zona del suo corpo posta al di sotto del piano del bar.

    Ma gli elicotteri non possono essere arrivati sul posto nello stesso momento in cui il TIR si è ribaltato... Vuoi dire che quelli che erano dentro hanno aspettato che arrivassero gli elicotteri, per uscire dal TIR? ha commentato Ginocchio, quello che si è rotto il menisco venticinque anni fa, giocando nei pulcini della Juve, e che da allora non fa che rivivere e raccontare ogni santo giorno quella tragedia che gli ha bloccato una carriera da campione.

    Scusa, ma noi dove eravamo? Possibile che tu fossi solo? ha chiesto Bostik, sornione.

    Piattola ha allargato le braccia e ha sbottato:

    Ma siete diventati tutti poliziotti? Sto raccontando un fatto di cronaca e voi mi fate il terzo grado? Era un momento in cui non c’era nessuno, forse, che ne so. Io mica schedo le persone, mica faccio lo sbirro, io, a differenza di voi.

    Ma io non mi muovo mai di qua... ha detto Aldo, che intanto doveva aver dimenticato il TIR.

    Non potete capire, è inutile ha concluso Piattola. E ci ha dato la schiena, sdegnoso, tutto preso a preparare un paio di caffè.

    Insomma, la povera Nella era su quel TIR che si è ribaltato.

    Quando la fiancata si è aperta, lei ha avuto la prontezza di darsela a gambe, veloce, fra i campi. Chissà come ha passato la notte... Non ci posso nemmeno pensare. La sostanza è che me la sono trovata davanti l’indomani mattina, mentre stavo svuotando il budellame fra le giovani pannocchie di mais. Ero lì, accovacciato, concentrato e teso nel solo sforzo produttivo di cui sono capace, quando ho avuto la sensazione di non essere solo. Ho alzato gli occhi e lei era ferma a un metro da me, dritta, immobile, con il sole alle spalle e con uno sguardo che avrebbe strappato il cuore anche a un assicuratore.

    Con che coraggio avrei potuto lasciarla lì, sola, impaurita, tremante? E nuda...

    3 - Cosa non si fa per amore

    Ci sono quei carrelli alti alti che sembrano gabbie a metà, con le sbarre solo su due lati e con le rotelle, sotto. Noi, gli addetti alle pulizie esterne, prendiamo tutti i cartoni vuoti accatastati alla rinfusa sul piazzale degli arrivi, li smembriamo, li ripieghiamo fino a renderli piatti e poi li infiliamo nelle gabbie, di taglio, riducendoli al minor spazio possibile. E quando le gabbie sono piene arriva il camion della carta e si porta via tutto, dopo aver fatto scorrere a terra una nuova nidiata di carrelli traballanti, vuoti, che fanno un rumore come di una cascata di chiodi.

    Ma se tu sai fare quei trom... trop....

    Trompe l’oeil, so fare i trompe l’oeil dico, venendo in soccorso del biondo con cui sto dividendo un panino (il suo). Siamo seduti a terra con la schiena appoggiata a una pila di cartoni, sotto la tettoia di carico e scarico, sul retro del supermercato. Piove come se fosse ottobre e le pozze d’acqua più larghe, sul piazzale, riflettono le nuvole.

    E io che ho detto? Allora, se sei capace di fare quei cazzo di disegni sui muri, perché ammucchi i cartoni qui?.

    Goranco gli dico. Goranco è moldavo, ecco perché si chiama Goranco. Ma è qui da anni e parla l’italiano meglio di me.

    Goranco, io so fare i trompe l’oeil, è vero. Ma per mia sfortuna a nessuno interessa avere un trompe l’oeil in casa. Può capitare una volta ogni due anni che trovo uno disposto a pagare per vedere una serra dipinta sul muro dell’ingresso come se fosse vera, ma non c’è una regola... E io ho bisogno di soldi sicuri, adesso. Anche pochi, magari, ma sicuri.

    Dico queste cose a Goranco perché non ci conosciamo. Non avrei mai la forza di pronunciare queste frasi così umilianti davanti ai soci della bocciofila, davanti ad Angela. E fatico addirittura a dirle a me stesso. Da noi, cercare un lavoro vuol dire aver davvero fallito, e trovarlo è proprio il disonore più grande.

    Come tutti fa Goranco, ci sono le spese... L’affitto... La benzina che aumenta... Il canone della tele....

    No, no, io non ho spese lo fermo, quasi soffocando per il terrore che quelle immagini mi provocano. Lui non sa che sono allergico al buon senso da condominio. Un colpo di tosse mi fa addirittura lanciare lontano mezzo boccone del panino (il suo). Rapido come un palpatore da tram poso il pugno sull’asfalto, spingo in basso, scatto in avanti in una posa da scimmia e riesco a raccogliere il mio pezzo di pane prima che la pozzanghera in cui è caduto lo digerisca al posto mio.

    Goranco gira la testa di là, disgustato, e tace. Guarda la collina avvolta da una nebbia mobile, da dopo temporale, sopra il profilo dei caseggiati da nove piani, tutti uguali, sullo sfondo.

    Non parliamo più per il resto del pranzo, ognuno di noi preso dai suoi pensieri. Non posso certo dirgli che me ne frego dell’affitto, della benzina e della tele, che non ho bisogno di nulla, io; che considero il lavoro come una malattia e che se sono qui è perché mi servono i soldi per far felice Nella.

    Sì, il lavoro è proprio una malattia e come tutte le malattie è dotata di una sua brava fase di incubazione durante la quale uno si industria per cercare lavoro... Ma la malattia peggiore di tutte è l’amore, perché l’amore è all’origine di tutte le altre. L’amore è la malattia che causa altre malattie, come il lavoro, appunto, che a sua volta procura altre malattie, come la tendinite o la lombalgia, a furia di accatastare i cartoni nelle gabbie.

    Prima o poi qualcuno alla bocciofila si chiederà che fine ho fatto. Angela potrebbe insospettirsi per questa mia ormai lunga astinenza e decidere di venire direttamente da me, nel mio tugurio... E potrebbe trovarsi di fronte Nella, adesso che vive con me... No, Angela non può vedere Nella, non può venirlo a sapere così, senza che prima le abbia spiegato... Certo, lei è una puttana e io sono soltanto un cliente; assiduo e con risorse scarse ed episodiche, certo, ma lei sa che non ho altre donne, oltre a lei, e questa specie di mia strana fedeltà è sempre stato il più forte legame per i nostri giochetti del mattino... E poi, chissà, magari viene fuori che è gelosa... Mi sa che dovrò mettere una serratura alla porta della cascina, così sarebbe costretta a bussare e io avrei il tempo di nascondere Nella... Ma dove la prendo, io, una serratura? Non l’ho mai chiusa, io, la porta del mio rudere. E ora che ci penso, i due battenti nemmeno si accostano... E poi una serratura chissà quanto costa... E poi dovrò trovare qualcuno che sappia montarla, e pagarlo... Ecco, lo sapevo, stanno

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