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Il cadavere volubile: Incubo ad Avigliana per il Cardo
Il cadavere volubile: Incubo ad Avigliana per il Cardo
Il cadavere volubile: Incubo ad Avigliana per il Cardo
E-book322 pagine4 ore

Il cadavere volubile: Incubo ad Avigliana per il Cardo

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Info su questo ebook

Il Cardo è sempre lui: torna nella sua stamberga di Stupinigi in piena notte, ubriaco, e trova un morto sul pallet. Già, perché quando non va a cercarseli sono i guai a trovare il più sgangherato e sboccato perdigiorno del pianeta. Ma con un morto in casa c’è poco da scherzare, e se poi il morto sparisce di colpo per riapparire poco dopo, altrove, allora la faccenda comincia a prendere contorni inquietanti. E allora è necessario chiedere aiuto a Ribò, l’amico ex poliziotto. Ma sarà dura anche per lui, in questa storia capovolta, dove i morti si comportano da vivi, i sani cercano la miglior cura per le emorroidi da tre medici diversi e un morto stecchito dice la sua con una voce che fa gelare il sangue. Ma la girandola di situazioni grottesche, gaie e dissolute non finisce qui, perché quando c’è di mezzo il Cardo, si sa, tutto può succedere, e infatti, come se non bastasse, qualcuno se la prende anche con Angela… E poi tutto precipita, il Cardo si traveste da spaventapasseri e trova il morto in un frigo, poi ride e piange e noi con lui, trascinati dalla sua linguaccia di zolfo.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2016
ISBN9788869431586
Il cadavere volubile: Incubo ad Avigliana per il Cardo

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    Anteprima del libro

    Il cadavere volubile - Massimo Tallone

    PARTE PRIMA

    1

    Ci sono molti vantaggi nell’abitare una cascina semiabbandonata.

    Il primo e maggiore è che non vi si avventurano i testimoni di Geova la domenica mattina alle nove per chiedermi se ho letto la Bibbia. Avessi almeno visto il film, dico io.

    Vantaggio numero due: non ci sono vicini di casa che mi arroventano i marroni con il bambino che dorme, il nonno che ha l’enfisema, le scale pulite, non sbatta il portone, ma lei dove vive, spenga la radio e ne va del buon nome del caseggiato.

    C’è però uno svantaggio, ad abitare una cascina semiabbandonata.

    Succede di tornare a casa e trovare un cadavere nel letto o sul pallet che lo sostituisce, nel mio caso.

    E qui già me li vedo gli invidiosi, quelli che inizierebbero un romanzo immaginando il ritorno a casa in piena notte di un tanghero mezzo cotto dall’alcol che non accende nemmeno la luce, chiude la porta uncinandola con un piede e va a pisciare direttamente nel lavandino. Poi striscia nell’altra stanza sfiorando le pareti con le mani, per crollare poi, andando a memoria e a occhi chiusi, sul pallet. Di più, si abbatte sul pallet. Ma non incontra il solito materasso, quello preso in discarica. No, troppo facile. Lui rovina sulla pancia di un cadavere. Che nel buio lo riceve come un water riceve il suo pane quotidiano, vale a dire con un sonoro plof.

    Zac. Ecco l’inizio del romanzo.

    Un paio di palle, invece.

    Perché sono io quel tanghero ubriaco. E io non scrivo i romanzi. A me le vicende accadono. Non ho bisogno di inventarle, di scriverle o di leggerle. C’è chi uccide il barbiere per movimentare un po’ la vita e dopo soli quindici giorni, vedi caso, si ritrova di nuovo in piena monotonia, come prima. Io, va’ a capire perché, sono sempre nei casini. Altro che leggere i romanzi. O, peggio ancora, scriverne.

    Volete sapere chi sono i babbaloni che scrivono i romanzi? Vi faccio subito un elenco: al primo posto ci stanno gli impiegati di concetto, ma non tutti, attenzione, soltanto quelli che temono l’ira della moglie quando macchiano i calzoni. subito dopo vengono i mammalucchi che vanno in giro sempre soli, come i cani senza palle, soltanto perché la fortunata che ha suscitato la loro brama non ha capito quanto amore erompesse dall’ultima lettera, quella che è costata alla malcapitata donzella una lussazione della mandibola per il gran ridere. Poi non si possono dimenticare le facce di merda che quando sorridono sembrano Dracula e quando non sorridono pure. E non mancano medici e avvocati, che credono di conoscere la natura umana soltanto perché ne vedono la miseria, e che tentano di descriverla nel loro stile gonfio e anchilosato, come se ci fosse un legame fra la letteratura e la natura umana.

    Insomma, poche palle, i romanzi li scrivono le persone prive di immaginazione, gli ottusi.

    Io proprio non mi ci vedo seduto al tavolo a scrivere. Ho sempre di meglio da fare, io. E poi l’ho già detto, scrive chi è privo di testa. Io ho venti idee e trenta associazioni mentali al minuto. Ho più fantasia del volo d’un pipistrello, io. Come potrei scrivere? Come potrei tenere dietro a un’idea, puntellarla con le frasi, dosarne gli effetti, mentre altre mille idee e mille varianti e mille disegni e scherzi e burle mi si affollano sulla parte interna degli incisivi, e si perdono, risucchiati dalla saliva mentre trascrivo quella sola prima idea, crocifissa sul foglio, inchiodata su quattro lati dalle parole?

    No, io non scrivo. Anzi, vi do un consiglio, pensate voi a scrivere i romanzi, a salvare la lingua dallo sfacelo. Io ho altro da fare. Adesso, per esempio, devo capire che ci fa questo cadavere sul mio pallet. In poche parole: chi è questo babbeo? Come è giunto qui? E perché, poi, è così grasso? A me, per giunta, fanno senso fin da vivi, i ciccioni.

    Stai pur certo, trovare un morto in branda non è come trovare un tesoro. Anche supponendo che il morto sia, o sia stato, il tuo migliore amico. E io, questo, manco lo conosco. Ma lasciamo andare. Non è il momento di chiacchierare. Con un cadavere, poi, è veramente difficile. Sono pieni di sussiego, i morti. Loro si sentono superiori. Se ne fottono, dei vivi. Non si degnano di guardarli, di rispondere a una sola domanda, di fare un cenno. Se ne stanno lì, senza salutare, come se noi, i vivi, fossimo delle merde. E allora crepino, i morti.

    Giro l’interruttore. Dalla lampadina da quaranta candele piove una luce gialla come i denti dei vecchi, ma sufficiente per farmi vedere meglio il mio coinquilino. Si potrebbe dire che è nudo, lo sfigato, se attorno al collo non portasse una elegante sciarpa fatta con una corda da montagna. Se voleva inventare una nuova moda ha sbagliato i conti, il mingherlino. Stringe un po’ sulla presa d’aria, la sua cravatta da gran sera.

    E mentre tento di ridere per questa stupida battuta sulla moda, cerco gli abiti dell’uomo. Ma nello stesso istante mi attribuisco il Nobel della coglioneria, perché se qualcuno si prende la briga di spogliare un uomo, dopo averlo ucciso, è chiaro che vuole farne sparire gli abiti. Non si perde tempo quando si rischia di trascorrere il resto della vita facendo ceste di vimini.

    Dunque la conclusione può essere soltanto una: gli abiti di quest’uomo sarebbero bastati a identificarlo o quantomeno a restringere il campo delle ipotesi sulla sua identità e quindi su quella dell’assassino.

    Merda. Che faccio, ora? Mi ha fatto pure passare la sbornia, questa faccenda. Puttana miseria. Uno ci mette tutta la sera per costruirsi una lorda perfetta, dosata al millimetro in tutti i suoi passaggi, attendendone gli sviluppi e pilotandone gli effetti, ed ecco che, a impresa quasi riuscita, ti arriva un morto a rovinare tutto. E addio ciucca.

    Ora bisogna agire.

    Ma come? Chiamare la polizia? Non se ne parla neanche, perché sarei sicuramente accusato dell’omicidio. La serratura della porta d’ingresso non è forzata, per la buona ragione che la mia stamberga non ha serratura. Le finestre erano aperte, e aperte sono rimaste. Non potrei mai spiegare ai giudici che io non so chi sia, il ciccione, e che me lo sono trovato in casa, nudo e morto.

    La prima cosa da fare, mi dico, è spostarlo da qui. Lo avvolgo nello straccio che mi fa da lenzuolo, chiudo gli occhi, afferro le caviglie della salma, strette nei lembi del sudario improvvisato, e tiro. L’ippopotamo pesa come un ippopotamo. Lo trascino di là, nella stanza mezza diroccata e con il tetto sfondato, e lo lascio lì, mezzo coperto e mezzo a vista.

    2

    E per di più fa caldo.

    Non è caldo, è una totale mancanza d’aria. Sto sudando come un maiale. Fa così caldo che quasi invidio il morto, sia perché è morto, sia perché è freddo, o lo sta diventando. Esco di casa. Passeggio per qualche minuto, al buio, nello spiazzo in terra battuta che un tempo era l’aia della cascina. Dalla parte opposta, sotto la tettoia che copriva il fienile, intuisco il riverbero metallico degli attrezzi agricoli ammonticchiati, abbandonati e ormai in parte arrugginiti.

    Continuo a sudare. Sono ormai completamente sobrio.

    Intanto, ho preso una decisione. Senza barcollare, attraverso il grande arco che costituisce l’ingresso della cascina ed esco sulla strada. Mi fermo un istante per valutare la situazione. Guardo a sinistra. Al fondo dello stradone, il cervo che troneggia sulla cupola della Palazzina di Caccia di Stupinigi, mio abituale consigliere, annuisce. Vuol dire che ho deciso per il meglio. M’incammino prendendo verso destra, in direzione della città.

    Non ho ancora percorso cento metri e incontro Angela.

    «Hai nostalgia di me, Cardo?», mi dice ridendo.

    Non ricordo di averla incontrata, rientrando a casa, ma a dire il vero non ricordo nemmeno di essere rientrato in casa. E poi, c’è pure il caso che lei fosse con un cliente, mentre tornavo.

    «Senti, Angela», dico avvicinandomi a lei, «hai visto qualcuno entrare in cascina, a casa mia, nelle ultime ore?».

    «E che ne so? Non ci faccio caso, mentre lavoro. Che poi stasera proprio non si lavora. Manco uno. Dico, uno. Niente. Deve essere per il troppo caldo, non c’è altra spiegazione».

    «Ma quale caldo, è che sei vecchia».

    «Bravo merlo! Vecchia, ma sana. Che ti credi. Sai benissimo che noi quarantenni siamo le più richieste. Siamo della vecchia scuola, noi. Preservativo obbligatorio e niente droga. Si va sul sicuro, con me».

    «Va bene. Vecchia, ma sana», taglio corto, «ma adesso ascoltami. Cerca di farti venire in mente se hai visto fermarsi una macchina o un furgone vicino a casa mia».

    «Ti ho già detto che non lo so. Aspetta, che vado a chiedere al mio ragazzo».

    Ho già capito. Aldo, il suo ragazzo, che ha quasi sessant’anni, è sicuramente addormentato in macchina, dall’altra parte della strada, o alla bocciofila a giocare a briscola, pieno di vino come al solito. Me lo immagino correre in aiuto del suo amore, in caso di guai. Quello, di certo non ha visto nulla. Non aspetto nemmeno che Angela torni e riprendo il cammino in direzione della bocciofila, dall’altra parte della strada.

    Sono quasi le tre. Piattola sta finendo di lucidare il piano di zinco del bancone del bar. Gli chiedo se posso fare una telefonata dal fisso. Lui annuisce e io vado di là, nello stanzino privato. Senza esitazioni leggo il numero sull’avambraccio e afferro la cornetta. Non devo farmi troppi scrupoli. Ribò è la mia unica speranza. O mi dà una mano lui, o finisco in galera per qualche decennio. Suona libero. Nessuno risponde. Non appendo. Lascio suonare. Ancora silenzio.

    «Pronto», sibila infine una voce.

    «Ribò, sono il Cardo. Lo so che è notte, che stavi dormendo, che fa caldo, che non ci vediamo da tempo, che hai faticato per addormentarti, che domani forse devi lavorare e tutto il resto che vuoi. Ma sono nei guai. Nei guai, hai capito? C’è soltanto una cosa che puoi fare. Saltare in macchina e venire da me. Ma subito. Non è questione di ore, ma di minuti. Devo risolvere un casino e soltanto tu puoi dirmi qual è la strada più giusta. Fosse per me, io saprei come fare, appicco il fuoco a tutto e sparisco, ma forse non è la soluzione migliore. Devo parlarne con te. Tu conosci le leggi, i diritti, ammesso che esistano diritti per quelli come me, che campano come cazzo pare loro. Ribò, hai capito? Non puoi fregarmi, non puoi lasciarmi nella merda proprio adesso. Lo sai che non conosco nessuno. Le persone alle quali ho dipinto le pareti, escluso te, hanno apprezzato i miei lavori, ma poi, quanto fa, ecco i soldi, e chi s’è visto s’è visto. Tu non hai fatto così, Ribò. Mi giravi intorno, mentre lavoravo, ti interessavi alle tecniche, mi guardavi e stavi zitto. Poi, ogni tanto, parlavi, mi chiedevi dove avessi imparato, dove abito, come campo. E giù vino. E giù risate. O meglio, soltanto io, vino e risate. Perché tu non ridi mai. Ma tu, anche se non ridi non sei come le altre facce di culo, Ribò, e adesso devi dimostrarlo. Ti aspetto da me, vieni subito».

    «Il reparto psichiatrico è all’interno 21, signore. Questa è la radiologia. Vuole rifare il numero, o glielo passo io?».

    «Ma vaffanculo».

    Ho sbagliato numero. E adesso non ho più nessuna voglia di ripetere quello sproloquio sentimentale. Rifaccio il numero con più attenzione e aspetto.

    «Pronto?».

    Risposta immediata, calma. A quest’ora di notte.

    «Ribò, sono il Cardo. Puoi venire a casa mia?».

    «Adesso?».

    «Sì».

    «Aspettami», fa lui. E riattacca.

    3

    E adesso, mentre aspetto Ribò, che faccio? Cazzo, che posso fare? Cantare l’Aida? Non saprei neanche da che parte cominciare. E poi fa troppo caldo. È già un gran colpo di culo che Ribò fosse in città. Certo, è pure vero che lui non è come quei fessi che vanno in vacanza ad agosto, ad ammucchiarsi nei villaggi turistici come mosche sulla merda. E non mi riferisco a quelli che non possono scegliere, che quelli, si sa, vanno in ferie quando possono. Parlo di quegli altri, gli atrofizzati che, pur avendo la facoltà di lasciare la città quando pare loro, se ne vanno in vacanza durante il mese di agosto perché se no non si sentono in vacanza. Come le mosche sulla merda, appunto. Ma lasciamo stare. Ribò non è così. Che poi non so nemmeno se lui ci vada, in vacanza. E le donne? Mah. Affari suoi. Esco dalla bocciofila e attraverso il corso in diagonale per tornare nel mio tugurio. Angela è ancora lì.

    «Senti, vieni un momento da me, ho bisogno di sfogarmi un po’, stanotte. La sbronza ormai è andata, e mi devo accontentare del sesso».

    «Ehi, che ti prende, Cardo? Sembri uno che ha trovato un morto nel letto».

    Si è già sparsa la voce, commento fra me.

    «Deve essere il caldo», spiego.

    «Aspettami qui, torno subito. Ci penso io a tirarti su», dice, e trotta a informare il suo pappa alcolizzato. Il lavoro è lavoro. Il suo ragazzo deve sempre sapere dove va, e con chi. La guardo attraversare la strada.

    «Chiedigli se puoi farmi credito», lancio a voce alta.

    «Te lo puoi scordare», ribatte lei, alzando il medio in direzione di una macchina che ha rallentato per dar modo ai suoi occupanti di apostrofarla.

    «Allora?», chiedo, al suo ritorno.

    «Dice che non devi fare lo scemo, gli affari sono affari, dice, e l’amicizia non conta».

    Ci incamminiamo.

    «Ma tu devi proprio dire tutto, ad Aldo? Non ti senti umiliata?».

    «Sai una cosa, Cardo, secondo me tu non dovresti usare i pennelli a manico lungo, quando dipingi le prospettive sui muri».

    «Al mio lavoro ci penso io, Angela», replico con fierezza.

    «Appunto», ribatte lei.

    «Andiamo, andiamo», taglio corto prendendola per un polso.

    Passiamo sotto l’arco. La stanchezza mi costringe a trascinare i piedi. Sollevo nuvolette di polvere nell’aia. Assecondiamo l’angolo e spingo la porta di casa. Tocco l’interruttore e do luce alla stanza.

    «Hai messo un po’ d’ordine, finalmente», ironizza Angela, ruotando il collo al modo di un periscopio. Io, che sono sordo all’ovvio, non rispondo. Ma noto, attraverso i suoi occhi, che qui davvero trovano riparo tutti gli oggetti di questo mondo, e forse pure dell’altro. Ma del resto, che fare? In fondo è qui che io provo colori, tecniche, fondi, materiali, figure. Ed è ancora qui, in cucina, che mangio. Ed è qui che dormo, stravaccandomi sul giaciglio che ho ricavato con un pallet fregato dietro un supermercato, e su cui ho buttato un materasso pescato in discarica.

    Lascio Angela di qua e vado in bagno a mondarmi le pudende, come dicono i preti, a sciacquare la nerchia, come dico io. Ordini di Angela. Vecchia, ma pulita, dice lei. E vuole clienti puliti, specie quelli, come me, che hanno gusti particolari.

    E proprio mentre mondo l’immondo, Angela caccia un urlo.

    4

    A questo punto immagino che esistano quattro o cinque tritacazzi già pronti a obiettare che quanto mi sta accadendo non ha nulla di verosimile. Secondo questi impareggiabili coglioni è assolutamente impensabile che un tizio, vale a dire io, si porti a casa una puttana dieci minuti dopo aver trovato un cadavere sul pallet e che si accinga a intrattenere con questa l’insano (secondo loro) commercio di Numa Pompilio, e non dico di più.

    Ebbene, a costoro, io non rispondo. A me accade ciò che accade, né più né meno. Non ho bisogno di giustificare nulla, io.

    Ma intanto Angela urla, ed è sempre l’urlo di prima, non un secondo urlo.

    Ha visto il morto. E come tutti quelli che vedono un morto ha deciso di scorticarsi l’ugola con un vocalizzo che nemmeno un carnefice avrebbe saputo cavarle dal gargarozzo.

    Chissà poi per quale fottuta ragione uno deve urlare al cospetto di un morto. Per svegliarlo? Per dimostrargli quanto si è vivi, al suo confronto? Sia come sia, Angela sbraita.

    Con movenze da scimpanzé (provate voi a balzare dal bidè, nudi dalla cintola in giù, e a scaraventarvi, sgocciolando dalle dita e dalla virtù, nella camera a fianco) raggiungo Angela che, immobile, sulla porta della stanza sfondata, fissa il morto tenendo le due mani serrate sulla bocca. Non urla più, ma tenta di parlare, senza però cacciare fuori un solo suono, non appena appaio nel rettangolo della porta.

    «Tu, tu, tu», dice poi in un soffio, «tu, tu sei un maledetto porco, porco e assassino. Hai... Hai ucciso questo ciccione per... Per provare l’emozione di... Per eccitarti, per... Che ne so di quello che c’è nella tua testa malata. Ma te lo puoi scordare di mettermi in mezzo a questa storia di merda. Io voglio soltanto gente normale. Io non me la faccio con i maniaci che non godono se non hanno davanti un cadavere».

    E continua così per altri cinque minuti.

    Mi sciroppo tutta la sua filosofia, e intanto ne approfitto per asciugarmi il gocciolante con il bordo della camicia. Quando ha finito di berciare, Angela è più morta che viva. Spegne la luce della stanza, torna di là e si abbatte su una sedia.

    La seguo. Mi guarda disgustata mentre verso in un bicchiere sporco un fondo di vodka. È sudata come un pugile. E ha paura. Le porgo il bicchiere, lo afferra e tracanna a garganella.

    «Angela, stammi a sentire. Non ho ammazzato io quel fesso. Me lo sono trovato sul pallet mezz’ora fa, rientrando. Anch’io mi sono cacato addosso per la fifa, quando l’ho visto. Mi è anche passata la sbornia. Ero bello brasato e mi sono ritrovato di colpo lucido come il pavimento del notaio. E non fare quella faccia alla chi credi di prendere per il culo’. Ma per chi mi prendi, eh? Di’ un po, da quanto è che mi conosci? Quante volte sei entrata qui, eh? Non lo ricordi, d’improvviso? Ma mi conosci? Quante chiacchiere che abbiamo fatto, qui, io e te, per non dire del resto. Abbiamo parlato dei tuoi progetti, e dei miei, che non ne ho. E adesso te ne esci con un tu, tu, tu... quelli che si eccitano guardando i morti... Ma mi conosci o no?».

    Angela non vuole sentire ragioni.

    «Ti conosco, sì, e che vuol dire? Ho visto gente cento volte più normale di te farsi venire in testa le idee più strampalate, così, senza preavviso, tutto in una volta. C’è chi vuole farsela con le bestie, chi vuole farsi amputare un dito mentre gode. E fino a mezz’ora prima buongiorno buonasera, la moglie, i figli e il fine settimana a Sauze d’Oulx».

    «Angela, smettila di dire minchiate. È logico che una larva vada fuori di zucca e che gli salti la brocca dopo anni di ubbidienza alla moglie, al capoufficio, al confessore, al governo, alle rubriche di medicina, all’igiene intima, all’esercizio fisico, alla dieta, ma questo che c’entra con me? Gli stonati di cui parli tu sono quelli sposati. Lo sai meglio di me che il sesso coniugale è la cosa più noiosa che esista. I più furbi smettono di praticarlo, dopo un po’. Ma ci sono quelli che fanno finta di niente, e continuano a scopare con lo stesso entusiasmo che metterebbero per lavare i cessi di una caserma. Per forza che la fantasia galoppa, poi. E più sono remissivi, più combinano cazzate, quando gli salta il tappo. E tu vuoi paragonarmi a quei tontoloni? Sveglia, Angela. E stammi a sentire. Io ho trovato questo macaco stecchito sul mio pallet e basta. Ho già telefonato a uno che conosco, uno che lavora per la polizia. Fra poco sarà qui. Gli ho telefonato cinque minuti fa. Stavo proprio andando da Piattola, per telefonare, quando ti ho chiesto se avevi visto qualcosa, ricordi? Poi, dopo la telefonata, ho pensato di calmare un po’ i nervi chiedendoti di fare per me l’esercizio che ti ha reso famosa. Quello senza mani... Sai, no?».

    Angela riflette. Sono stato preciso e determinato. Mi guarda negli occhi. Un pezzo della sua bocca accenna un sorriso. Si è convinta. Sono tornato il Cardo che conosce lei. Non il maniaco che credeva fossi diventato.

    «Va bene, va bene. Mettiamo pure che tu non ne sappia niente, del cadavere. Mi incontri, mi chiedi il lavoretto, mi porti da te. E va bene. E mettiamo anche che a te il morto non dia nessun fastidio. Tanto hai già telefonato al tuo amico, dici. E va bene. Ma sia chiaro che io non ne voglio sapere. Io non l’ho visto, quello. E se devo dirla tutta, non mi piace lavorare vicino a un cadavere», insiste Angela.

    Potrei ricordarle che il suo lavoro si svolge qui, sul pallet, come sempre, e chiuderla lì, dato che il morto è di là. Ma a me fanno incazzare di brutto, i pregiudizi, e attacco.

    «Che ti frega del morto?», inveisco. «Ormai è morto. I morti non sono guardoni. A meno che tu ti riferisca all’anima che certamente sta volteggiando sul corpo ormai inutile dell’obeso. Ma è probabile che le anime dei morti abbiano un loro modo speciale di darci dentro. E credo che il nostro modo di accoppiarci risulti loro particolarmente banale e noioso, un po’ come se noi stessimo ore e ore a osservare le tecniche goderecce dei pesci rossi. Sai che palle, dopo un po’, e anche prima. Comunque, il morto è là, non dà fastidio. Smettila di comportarti da cocorita, e diamoci da fare, prima che arrivi Ribò».

    «A patto che si resti al buio», impone Angela.

    «Va bene, va bene», concedo. E spengo la luce.

    Sfilo la camicia, mollo i calzoni e mi stendo sul pallet. Angela si rannicchia su di me e comincia a lavorare.

    «Accompagnami in bagno», mugolo un quarto d’ora dopo, rendendo le dovute lodi, e l’anima, a questa infaticabile vecchietta, che poi ha soltanto quarantadue anni, a questa gran donna che è presente anche ai ricevimenti ufficiali di re, regine, papi, capi di stato e cardinali, se è vero che in tutte quelle occasioni l’importanza dell’evento esige la pompa magna.

    E mentre Angela, piegata sul lavabo, maneggia lo spazzolino e denteggia il dentifricio che porta sempre con sé; e mentre cavo dai calzoni ammonticchiati davanti al cacatoio un biglietto da cinquanta che le infilo fra l’elastico del reggiseno e la pelle, ecco che una serie di colpi simile a un rombo di aereo squassa la porta di casa e un orco barrisce:

    «Polizia».

    «Spegni la luce», sussurro ad Angela. Esegue. Restiamo muti.

    Rifletto.

    Merda, concludo, la finestra del cesso è sempre stata aperta, e inoltre dà sul cortile, proprio come la porta di accesso alla stamberga, e davanti alla quale stanno ora i poliziotti. Ed è inevitabile, perciò, che fino a un secondo fa loro abbiano visto un rettangolo di luce gialla disegnarsi sul terreno del cortile, se non addirittura sentito le nostre voci. E la finestra successiva, poi, è quella della stanza con il morto. Conclusione: sanno che c’è qualcuno in casa. E potrebbero anche entrare, se volessero, dato che basta spingere la porta.

    Che fare? Immobili, in silenzio, restiamo al buio.

    5

    Mi avvicino all’orecchio di Angela e le sparo questo discorsetto: «Senti, bellezza, sanno che siamo qui. Dobbiamo aprire. Ma attenzione, qui viene il bello. Ho un piano. Noi ci comportiamo come due fessi qualunque che stavano porconando in bagno. E se vogliono vedere le stanze, prego entrino pure. Quando vedranno il ciccione ci restiamo di merda, noi più di loro. Dobbiamo negare anche l’evidenza. Ecco la nostra

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