La donna alla fermata
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Anteprima del libro
La donna alla fermata - Antonio Caron
Introduzione
Un corso di addestramento e un mese e mezzo lontano da casa possono essere un grosso problema, pure per un navigato maresciallo dei carabinieri; soprattutto al pensiero di una moglie giovane e per nulla disposta a starsene sola a fare la calza.
Può pure capitare che dalla generosità di certi conoscenti arrivi l’offerta di un alloggio, per di più in una bella località della Riviera ligure. È una fortuna insperata, un’occasione che salva capra e cavoli.
Quale migliore occasione, dunque, per due coniugi senza figli: trascorrere qualche settimana al mare, senza preoccupazioni e con la prospettiva d’un aumento di stipendio e un nastrino in più sulla divisa.
Tutte cose che potrebbero andare bene a tanti, ma non certamente al maresciallo Vitale, un segugio
capace come pochi di fiutare delitti a miglia di distanza.
Fra Genova e il suo suggestivo territorio di levante, il sottufficiale si mette in testa – come un playmaker della pallacanestro – di imbeccare i giocatori giusti e in tal modo guidare un’ideale squadra alla scoperta della verità su due inspiegabili omicidi.
Nella sua improvvisata indagine si imbatte fra l’altro in preti reticenti, scava il passato di brigatisti neri repubblichini, va a sfruculiare sui soldi fatti da tracotanti padroni di ville.
In ultimo, entra in scena una giornalista di TV locale...
A quel punto, perfino i sibili selvaggi
di treno che si sentono dalla camera da letto diventano parte di una natura unica nel suo fascino.
Capitolo 1
In quei giorni Vitale se ne stava in panciolle, con poco da fare. L’aveva fatto smuovere una telefonata dal suo comando. Gli si consigliava
di andare a Genova, per un corso di formazione; nel suo stesso interesse, dal momento che poteva uscirci una promozione ad aiutante.
Fatti due conti e considerato che aveva ormai raggiunto il massimo di carriera come maresciallo, Sebastiano decise infine per il sì. Anche se, tutto sommato, al comando della stazione dei carabinieri di Cherasco – coi suoi panorami che abbracciano il Monviso e le Langhe – ci stava bene.
C’era però, come sempre, da tenere conto di quanto avrebbe detto sua moglie; non era infatti da escludere che potesse intromettersi, anche se di solito lasciava fare a lui, accettava le sue decisioni. Il caratterino di Marisa rimaneva comunque imprevedibile. Sopportava senza battere ciglio che il marito se ne stesse fuori nottate intere oppure che uscisse di casa all’improvviso, senza nemmeno dire dove andava o se tornava per cena. L’incertezza se poi dovesse tenergli in caldo i pasti diventava per lei una specie di dilemma (era fatta così!), da non dormirci la notte. Rimaneva coi suoi dubbi amletici, oltre con l’ansia che la prendeva ogni volta che intuiva i possibili pericoli a cui andava incontro il marito. La cosa peggiore che poteva in ogni caso capitarle era quando il marito, magari tornato in ore beate e stanco morto, si gettava sul letto senza neanche spogliarsi, dicendo:
Non ho fame, ho mangiato qualcosa di corsa...
.
Ripensando alle lunghe ore trascorse ai fornelli per preparare i piattini che lui più gradiva, Marisa veniva allora presa da sentimenti non proprio sereni. Doveva tenersi dal dirgliene quattro; di solito però si limitava ad andare in cucina a sbattere coperchi e stoviglie. Non era raro che in quei momenti le scappasse di mano, inavvertitamente o no, – e Sebastiano se lo domandava ogni volta – qualche piatto che andava a rompersi sul pavimento con un fracasso che si sentiva fin sulla strada.
Quando dopo cena ne parlarono, nell’alloggio del maresciallo situato al primo piano della palazzina sede dell’Arma ci fu un’atmosfera tesa.
Appena ebbe vagamente capito di che si trattava, Marisa tirò dapprima in lungo nello sparecchiare; uscì poi sul balcone per scrollare la tovaglia. La batté vigorosamente, quasi che le poche briciole in essa contenute fossero incollate. Sul suo volto si stampò un’espressione di indifferenza che poteva forse ingannare chiunque, ma non certamente il marito che conosceva assai bene le bizze di famiglia.
Il discorso non si protrasse per molto. Alla domanda di quanto tempo sarebbe durata quella cosa
, Sebastiano rispose con un certo imbarazzo:
Due, forse tre mesi...
.
Marisa si morse la lingua, per non ribattere con le parole che in quel momento le vennero spontanee:
E io nel frattempo che cosa faccio?
.
Si trattenne, prevalse il suo orgoglioso sentimento che non si abbassava a mendicare consolazioni di sorta.
Col suo acuto spirito di osservazione, il maresciallo capì che non era il caso di insistere; chiuse l’argomento con un: Comunque è ancora tutto da decidere... Una frase sibillina che nella realtà voleva dire e non dire.
Dopo cena, Sebastiano si inventò un impegno improvviso; trascorse la serata al bar, come gli capitava raramente. Accettò perfino di fare il quarto a un tavolo di scopone. Fu pessimo giocatore. La sua testa era altrove, con ori e settebello proprio non ci azzeccava.
Verso mezzanotte si trattava di andarsene; il titolare Renato aveva già spazzato il pavimento e riordinato. Aspettava solamente che gli ultimi avventori finissero la partita. Per una sorta di timore reverenziale nei confronti del maresciallo non se la sentiva di sollecitare; stava appoggiato al manico della scopa facendo finta di partecipare a giri di carte e commenti, delusi o entusiastici, dei giocatori. Renato non ci aveva messo molto a capire che qualcosa frullava nell’animo del sottufficiale nei confronti del quale ancora serbava gratitudine, per un certo intervento da lui fatto per togliere dai guai una sua sorella, caduta ingenuamente in un giro di truffe architettate con il sistema della catena di Sant’Antonio.
Per non contrariare una sua cara amica, la donna – che abitava in un paesino delle Langhe – aveva accettato di propagandare la vendita di fustini contenenti vino marsala; raggiunto un certo numero di clienti, per lei ci sarebbe stata una confezione gratis. La cosa andò avanti senza intoppi, sino a quando non salì la mosca al naso del presidente di un consorzio vitivinicolo, infastidito dal quel disinvolto commercio. Partì una denuncia e ci fu un’inchiesta. Dopo l’iniziale polverone, alimentato anche dalla stampa locale, la cosa fu messa a tacere anche perché la consistenza del presunto reato si era rivelata del tutto modesta. L’esercente del bar – timoroso di chissà quale scandalo – si era rivolto a Vitale; questi – pur di malavoglia – aveva fatto un paio di telefonate, soprattutto incuriosito dal produttore di marsala che aveva un cognome come ce n’erano tanti al suo paese d’origine. Il barista si convinse dell’intervento risolutore del maresciallo, ipotesi questa che il sottufficiale in qualche modo lasciò credere: un po’ per darsi importanza e un po’ perché dei contorni truffaldini nell’intera vicenda aveva sin dall’inizio nutrito perplessità.
Il barista lo aveva trattenuto con una scusa. Quando furono soli disse:
Lo beve il bicchiere della staffa?
.
Vitale aveva già ingurgitato – cosa per lui insolita – alcuni bicchieri che gli avevano dato pesantezza allo stomaco. Stava già per dire di no. Cambiò idea quando l’esercente tirò fuori una bottiglia insolita, con l’etichetta scritta a mano e il tappo coperto di ceralacca.
Le faccio assaggiare una grappa marca leone...
.
Vitale ricordò quel modo di dire magnificante, tante volte sentito quando era al Nucleo Investigativo di Torino. Portò alle labbra il bicchierino. Ebbe immediata convinzione di non avere mai bevuto prima d’allora un liquore buono come quello. La grappa, stravecchia di barolo, come riportato dall’etichetta, ebbe immediato potere di sciogliere gli animi e di aprirli alle confidenze.
A Vitale venne bene di dare del tu.
Sei mai stato a Genova?
, domandò con occhi socchiusi, guardando le colline in direzione del mare.
L’automobile utilitaria dei Vitale era appena uscita dal casello autostradale di Nervi. Il maresciallo tirò un sospiro di sollievo; la moglie fece altrettanto, anche se non lo diede a vedere. Le lunghe gallerie da poco attraversate avevano suscitato inquietudini, se non proprio paura. C’era voluto tutto il sangue freddo di lui per non lasciarsi prendere dallo sconforto. Al volante, si vedeva continuamente sorpassato da bolidi sfreccianti e impazienti. Sotto le volte illuminate di luce gialla, i rombi dei motori si amplificavano fino a diventare assordanti. Le labbra di Marisa in certi momenti si muovevano; Vitale ebbe il sospetto che stesse pregando qualche santo protettore. Il momento peggiore fu quando un grosso autocarro, incolonnato e infastidito dalla lentezza della loro auto, cominciò a lampeggiare e a suonare ripetutamente.
Adesso questo ci schiaccia...
, fu il preoccupato pensiero che passò nelle loro menti.
In altri momenti, il maresciallo avrebbe reagito. Ora però si limitava a sperare che il prepotente autista non facesse colpi di testa. Col cuore in gola, schiacciò al massimo l’acceleratore; in una delle rare piazzole di sosta accostò togliendosi dal traffico. Mentre il Tir gli passò accanto quasi sfiorandolo, gli venne spontanea un’imprecazione in dialetto meridionale che da tanto tempo non usava più.
La vista del cartello che indicava Nervi fu per loro una specie di liberazione.
Con desiderio di scambiare parola con qualche essere umano, all’addetto del casello domandò:
Per Bogliasco?
.
Sempre a sinistra
, fu la laconica e per niente esauriente risposta.
Si trovarono su una strada trafficata. Allungarono lo sguardo verso il mare, cosa che prima – nel percorso in galleria – neppure avevano osato fare per timore di distrazioni. Al semaforo di S. Ilario si aprì alla loro vista una visione mozzafiato: il monte di Portofino si stagliava contro il cielo azzurro come poderosa fortezza al confine del Golfo Paradiso; Camogli si offriva coi suoi palazzi fitti e squadrati. La distesa azzurra era qua e là punteggiata di vele e navi alla fonda.
Durò poco. L’autovettura si abbassò nel tratto in discesa dell’Aurelia e l’incantevole panorama svanì come un miraggio.
Capitolo 2
Era notte. Vitale si svegliò madido di sudore. Ai primi di giugno, l’estate cominciava a farsi sentire. Quando aprì la porta che dava sulla terrazza, sentì una folata d’aria fresca e profumata. Il silenzio era appena interrotto dal latrato di cani in lontananza e dallo sciabordio del mare. Il cielo era stellato, punteggiato in alcuni tratti da luci di velivoli che solcavano la volta del Golfo Paradiso. Si udì la campana del passaggio a livello. Un gatto attraversò di corsa andando ad arrampicarsi sulla barriera divisoria. Irruppe improvvisa una massa indistinta di vagoni sferraglianti, annunciati da sibili selvaggi. Il treno si allontanò rapidamente lasciando un vortice dietro di sé. Dopo di che, le luci sulle alture sembrarono brillare più di prima.
Spuntò il sole.
Non pensavo che i treni facessero tanto rumore...
.
Fu questo il primo commento di Marisa dopo la prima nottata trascorsa a Bogliasco. Il marito sembrava indifferente, ma pure lui non aveva chiuso occhio. I treni che sfrecciavano a pochi metri dalla camera da letto l’avevano più volte fatto sobbalzare fra le lenzuola.
Appena fece chiaro Marisa andò fuori. Ai suoi occhi si aprirono scorci di mare fra la vegetazione che le fecero provare intense emozioni. Ai bordi dell’ampia terrazza c’erano piante di limone, rose, buganvillee e vasi fioriti. Con stridio di freni, uno dei tanti convogli ferroviari si fermò alla vicina stazione. Le porte del treno si aprirono con uno sbuffo. Marisa fu colta da inspiegabile desiderio di salire, farsi portare non sapeva nemmeno lei dove. Il locomotore le era apparso all’improvviso, come un grosso giocattolo; l’aveva poi visto ripartire lentamente, come se qualcuno gli avesse dato la carica.
Dalla sovrastante via Aurelia si sentiva rumore di traffico. In un momento di silenzio udì il motore di un natante proveniente dal mare. Si adagiò su una sdraia. Davanti a lei giganteggiavano cipressi alti decine di metri; se ne stavano imponenti, appena accarezzati dalla brezza mattutina. Sul lato opposto al mare, c’erano alture punteggiate di case colorate. Il piccolo edificio della stazione era quasi coperto da un gigantesco oleandro fiorito; il suo caratteristico profumo si sentiva a distanza. Il passaggio a livello annunciò i suoi monotoni