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La garconnière di Monza
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E-book314 pagine4 ore

La garconnière di Monza

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Info su questo ebook

Un nuovo caso per il maresciallo Vitale alle prese, questa volta, con un delitto passionale, che vede coinvolti primari ospedalieri, ballerine di lapdance e biker, che si snoda tra Monza e Genova.

Provvisoriamente trasferito a Monza, il maresciallo dei carabinieri Sebastiano Vitale si trova alle prese con un omicidio che ha tutte le caratteristiche del delitto passionale. La vittima è uno stimato e insospettabile primario ospedaliero; l'ambientazione spazia fra alta borghesia, ballerine di lap-dance, graffitari, biker, giovani mendicanti extra comunitarie con particolari capacità intuitive: uno spaccato di società in cui le parti di buoni e cattivi non sono stabilite a priori. Le indagini prendono l'avvio dalla Procura della Repubblica e si svolgono nell'ambito della polizia giudiziaria. La vicenda si articola fra la Brianza, Genova (e se ne comprenderà il motivo) e Cherasco, nel cuneese. Il protagonista si fa in quattro per conciliare dovere professionale ed esigenze familiari: nel caso specifico, una moglie ansiosa e tutta presa a seguire i lavori di ristrutturazione di una casetta ereditata fra i vigneti e destinata ad abitazione definitiva dopo il pensionamento del marito. Dopo aver intuito chi è l'assassino, Vitale viene preso da scrupoli; si lascia umanamente coinvolgere, si domanda come lui stesso si sarebbe comportato in analoghe situazioni. Sullo sfondo, il centro storico di Monza, alcune località che fanno da contorno alla città, la Genova del Porto Antico, ambienti ospedalieri in cui maturano passioni travolgenti e insane bramosie. Scoperta la verità grazie al suo acume, il maresciallo se ne ritorna al paesello; stavolta però con qualche peccatuccio sulla coscienza...
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2014
ISBN9788875639730
La garconnière di Monza

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    Anteprima del libro

    La garconnière di Monza - Antonio Caron

    Presentazione

    Una vicenda che parla di donne con poteri ammalianti capaci di affascinare un uomo facendogli perdere la ragione fino alle estreme conseguenze potrebbe sembrare materia da Inquisizione, di tempi in cui le presunte streghe venivano bruciate sulla pubblica piazza. In questo caso è invece – pur con qualche licenza narrativa – trama di un giallo all’italiana, senza (occorre precisare) suggestioni televisive.

    L’autore parte dal presupposto che tutte le donne, almeno una volta nella loro vita, siano state colte da un puerile e inconfessabile desiderio: Se con lui potessi avere la bacchetta magica.... Ammesso che tali aspirazioni possano avverarsi, quali ne sarebbero le conseguenze?

    Chi scrive è convinto che simili capacità sono destinate a di­sastrose rotte di collisione con un sentimento comune quanto diffuso: la gelosia. Allo stesso modo dell’apprendista stregone, una sorta di magia capace d’incantare gli uomini farebbe oltretutto correre il rischio di non controllare gli eventi e produrre effetti tragici.

    Mettendosi nei panni dei protagonisti, il lettore che avrà la pazienza di seguire il percorso narrativo fino all’ultima pagina potrà farsene un’idea.

    Va da sé che nominativi, circostanze e quanto non compreso nelle carte geografiche d’una certa Lombardia a nord di Milano sono del tutto immaginari. Anzi, secondo la formula ricorrente in questi casi, qualsiasi riferimento a persone esistenti e situazioni realmente accadute è puramente casuale.

    Messosi in questo modo l’animo in pace, l’autore si lancia in una nuova storia (ottava della serie) che vede protagonista il maresciallo Sebastiano Vitale. Stavolta il sottufficiale è provvisoriamente trasferito a Monza dalla sua tranquilla stazione dei carabinieri di Cherasco, in Piemonte. Nel capoluogo brianzolo è coinvolto (e c’era da dubitarne?) in un bel delitto, di quelli che eccitano l’opinione pubblica per i particolari scabrosi che fanno da contorno.

    Come negli altri suoi romanzi, l’autore giostra fra realtà e immaginazione, combina cronaca vera con vicende irreali, alterna luoghi esistenti ad altri inventati; nella sua narrazione nulla è tuttavia inverosimile, ogni particolare si attiene ai canoni di una fiction realistica la cui principale finalità è di essere in ogni momento leggibile e accattivante.

    Avvertenze:

    – I riferimenti in materia di sessuologia e psicoterapia contenuti nella trama rientrano nell’ambito della licenza narrativa; non hanno pertanto (ci mancherebbe...) alcuna pretesa di rivelazione scientifica e tanto meno di divulgazione. In dette discipline, i rispettivi medici specialisti sono gli unici autorizzati a pronunciarsi ufficialmente su diagnosi, terapie e giudizi di merito.

    – La sede della polizia giudiziaria di Monza non si trova nello stesso fabbricato che ospita la Procura della Repubblica; mettendo con artificio letterario l’una assieme all’altra ne ha indubbiamente guadagnato lo scorrevole svolgimento della trama. Con questa trovata i patiti del commissario Maigret potranno, se non altro, immaginare analogie con il parigino Quai des Orfèvres.

    – Argomenti e descrizioni contenuti in alcune parti del libro consigliano la lettura a un pubblico adulto. Rimane da chiarire il significato di pubblico adulto. Il consiglio è in ogni modo dato e ciascuno si regoli quindi come meglio crede.

    Personaggi principali

    Marinella Mancardi: sostituto procuratore

    Fausto Nocivelli: maggiore di Polizia Giudiziaria

    Letizia (Letti) Simone: figlia della donna trovata uccisa

    Caroline Debré in Benasconi: amica disinvolta della vittima

    Regis Franceschetti: medico aiuto di ginecologia

    Gessica Gromo in arte Cindy: spogliarellista patita per le moto di grossa cilindrata

    Daniele Canziani: un bell’uomo che dimostra meno dei suoi anni

    Giachi e Manu: giovanissimi skater con vocazione a disegnare sui muri

    Marco Voltini: autista della Procura

    Debora Pedriali: antipatica segretaria di pm

    Varina: mendicante rumena

    Achille Gavriani: meccanico garagista

    Mario Masantini: irrequieto archivista in pensione

    Capitolo 1

    Sei tu Marisa? Dimmi tutto.

    Come d’intesa, la telefonata era giunta alle undici precise al cellulare di Sebastiano. La moglie Marisa lo chiamava tutti i giorni per sapere come stava e per informarlo minutamente sull’andamento dei lavori della casa di campagna situata in una località del Roero. Il maresciallo aiutante Vitale aveva raggiunto l’età lavorativa in cui si comincia a pensare alla pensione; la prospettiva non gli dispiaceva per niente, anche se l’idea di smettere la divisa un po’ lo inquietava. Decenni d’onorato servizio nell’Arma dei carabinieri non scorrono, infatti, come acqua di fonte sulla roccia; se da una parte non vedeva l’ora di trascorrere tranquillamente quanto gli rimaneva da vivere in compagnia di Marisa – bella donna, più giovane di lui d’una quindicina d’anni, di cui era tuttora innamorato – dall’altra non nascondeva il timore di trovarsi di fronte a una specie d’incognita esistenziale.

    Si domandava infatti: E poi, che cosa faccio, come passo il tempo?. Sapeva del resto di alcuni colleghi che, una volta in quiescenza, avevano trovato modo di arrangiarsi, arrotondare con piccole attività e consulenze. Il suo ideale era collaborare con un avvocato, aiutarlo nelle indagini, consentire, in sostanza, alle sue capacità che facevano di lui un eccezionale investigatore di continuare a esercitarsi. Nel frattempo, era elettrizzato all’idea del disabitato autin dei genitori di Marisa che – con spesa non impossibile – poteva essere riattato e diventare abitazione definitiva per lui e sua moglie. Era una casupola che sorgeva nel bel mezzo di un vigneto, la cui vista spaziava su orizzonti collinari che sembravano senza fine.

    La modesta costruzione – a metà strada fra Asti e Alba – occupava una parte importante nei loro sogni. I due fantasticavano di stanze riattate, bagni rifatti e cucina rinnovata, ma senza stravolgere gli originali contorni di rustica accoglienza. Fra cumuli di sabbia, mattoni ammassati, cataste d’assi e vecchi coppi sbiaditi che potevano essere recuperati, Vitale in particolare provava a immaginarvi la vita di un tempo: esistenze stentate di contadini che campavano di poche cose e che nella vigna avevano la principale fonte di sostentamento. E fino a non molti anni prima, i filari di proprietà erano più numerosi, prima che il defunto nonno di Marisa – con decisione mai abbastanza criticata da parte di figlie e nipoti – scegliesse di vendere una parte delle sue terre a gente di Torino innamorata dei luoghi, ma anche interessata ai promettenti business che si profilavano con l’introduzione per legge della denominazione d’origine controllata dei vini prodotti in zona.

    I lavori di sistemazione erano stati affidati ad artigiani del posto. Come capita di solito in questi casi, le spese preventivate furono superate e rese inadeguate da imprevisti e costi aggiuntivi. Per giunta, il muratore che s’era preso l’incarico non poteva certo definirsi un fulmine d’azione, per non parlare dell’idraulico: più assente che presente, al punto di beccarsi il nomignolo di Primula Rossa del Roero, zona nella quale lavorava ed era noto per i suoi tempi lunghissimi di consegna.

    I soldi in un primo tempo stanziati da Sebastiano e Marisa – aiutati per la verità dalla suocera che aveva contribuito – non bastavano mai. C’era sempre qualcosa da aggiungere: costi reali o forse inventati con sotterfugi da chi – nelle attese – doveva finire al più presto la casa dove i coniugi Vitale (tuttora residenti nell’alloggio del maresciallo alla stazione dei carabinieri di Cherasco) avrebbero preso nuova dimora e potuto godere d’una casa di proprietà, tutta per loro.

    Avessero saputo i reali retroscena, buona parte di quanti si erano sul momento meravigliati potevano farsene una ragione, se non addirittura giustificare la decisione del maresciallo di trasferirsi – provvisoriamente e per ragioni di servizio – alla Polizia Giudiziaria presso la Procura della Repubblica di Monza. Lo aveva richiesto il maggiore Fausto Nocivelli dopo il suo trasferimento, che era una promozione, dalla Procura di Cuneo a quella lombarda. L’ufficiale aveva avuto modo di conoscere e apprezzare le doti non comuni di Vitale. Quando a Monza era stato necessario sostituire un sottufficiale tuttora in convalescenza dopo aver subito una ferita d’arma da fuoco nel corso di un movimentato arresto, Nocivelli aveva fatto il nome di Vitale: un valido e ottimo elemento, perfino sprecato in una sede periferica di provincia.

    Sebastiano si ritrovò in pratica a decidere, nel giro di un’ora, se dare oppure no conferma della sua immediata disponibilità. Fra le ragioni che lo fecero propendere per il sì, c’era sicuramente l’indennità straordinaria di trasferta che avrebbe intascato. Considerato inoltre che si trattava di una situazione transitoria, ci mise ben poco a convincere sua moglie dell’opportunità che gli si parava. I soldi in più nella busta paga venivano, eccome, comodi per fare fronte alle spese sempre crescenti della casa.

    Quanto pensi di stare via? gli aveva domandato Marisa, non del tutto convinta che il trasferimento del marito fosse la decisione giusta.

    Un mesetto, non di più aveva risposto Sebastiano tenendosi abbondante, forse più di quanto fosse lui stesso convinto.

    Alla Procura di Monza, Vitale era stato assegnato al sostituto procuratore dottoressa Marinella Mancardi, magistrato di fresca nomina, proveniente da una sede del Sud presso la quale aveva fatto pratica nell’attesa che la sua richiesta d’avvicinamento fosse accolta. Era una donna sui quaranta. Vitale non si sarebbe mai permesso di domandarle l’età. Un particolare l’aveva in ogni caso colpito sin dal primo momento: il pubblico ministero (pm) non badava al proprio aspetto, curava poco la sua persona, sembrava che non le importasse di apparire veramente per quello che era, vale a dire una donna in possesso di un certo fascino. Per certi versi, la sua trascuratezza poteva perfino apparire come studiata per accrescere interesse alla sua persona. Memorabile era rimasta una fotografia di giornale in cui appariva – erano torridi giorni d’estate – accaldata e scarmigliata, vestita con maglietta e calzoni leggeri che il sudore incollava al corpo. Per uno strano gioco di luci, all’inguine si era formata un’ombra particolare che – con un po’ di fantasia – poteva essere interpretata come indicativa di un intimo femminile nascosto e allo stesso tempo intuibile. L’istantanea aveva fatto scalpore, ingenerato nell’immaginario, soprattutto maschile, un’emozione superiore a ogni esplicita fotografia di pin-up. Da allora, i fotografi le facevano la posta, pronti a immortalare particolari posture e originali atteggiamenti. La cosa non fece tuttavia piacere all’interessata, anche se lontana mille miglia dall’idea che il suo corpo potesse essere oggetto d’eccessiva curiosità.

    Fra le prime dritte che Nocivelli diede a Vitale ci fu quella di proteggere in modo particolare l’incolumità, ma anche l’immagine, del sostituto procuratore da ogni indebita invadenza; non esclusa – testuali parole – l’eventualità di rifilare anche qualche calcio in culo agli sconsiderati. Il maresciallo – che per la prima volta aveva da fare con un magistrato donna – capì l’antifona, soprattutto dopo che in Procura erano arrivate lettere anonime indirizzate alla dottoressa Mancardi. Sulle prime sembravano missive scritte da un maniaco; a ben leggere, però, le frasi contenute non erano scurrili o irriguardose. Il mittente poteva pure essere uno svitato, ma indubbia era la sua capacità di scrittura, il modo di esprimersi appropriato ed elegante, in perfetto italiano.

    Per farla breve, il primo incarico affidato a Vitale fu di indagare sullo spasimante occulto della dottoressa, sul suo irresistibile desiderio di rivolgerle espressioni d’ammirata devozione ed esternare – almeno a parole – delicati sentimenti che, in situazioni normali, potevano perfino apparire non sgraditi. La prima volta, l’anonimo grafomane si firmò ammiratore sicuramente patetico, ma altrettanto convinto. Ci sono stati momenti in cui arrivava una lettera ogni due giorni; le addette all’ufficio della dottoressa, che ormai conoscevano calligrafia e forma della busta, scrivevano col pennarello e protocollavano patetico oppure convinto.

    Saranno pure state molestie – peraltro soft – a pubblico ufficiale, ma stare dietro alle fisime di uno squinternato attratto da una figura che incarnava il potere e il masochistico desiderio di essere sottomesso non era certamente il massimo per Vitale. Iniziò, infatti, a dare segni d’insofferenza. Oltre a tutto, la mancanza della presenza amorevole e costante di sua moglie lo coglieva impreparato ad alcuni aspetti di vita quotidiana, come tenere in ordine il monolocale in cui aveva preso alloggio; per non parlare del cibo: arrivava al punto di credere che i milanesi saranno pure i meglio del bigoncio, ma sicuramente non nel mangiare. In sostanza, i pranzetti e i mangiarini preparati da Marisa ora se li poteva scordare. Vabbè, c’era anche dell’altro. Come l’aumento di stipendio che quando arrivò fece dimenticare il resto.

    C’erano poi le frequenti telefonate fra loro; di lei in tarda mattinata e le altre che partivano dal cellulare di Sebastiano nelle ore più impensate, al punto che Marisa a un certo momento sospettò perfino che il marito la volesse controllare. D’origine meridionale, anche se da tanto tempo residente al Nord, Sebastiano non riusciva a reprimere certe sue caratteristiche di uomo del sud. Le prime impressioni che si era fatto nel corso del lavoro nella nuova sede, gli avevano risvegliato vaghi istinti di gelosia. In comportamenti e documentazioni aveva colto una certa diffusione di quella che poteva apparire rilassatezza di costumi: donne e uomini divorziati, conviventi, accompagnati, con figli nati da diversi matrimoni e unioni di fatto. Poteva essere il riflesso di una società evoluta tipica della metropoli, diversa dalle conservatrici tradizioni di provincia. A essere precisi, non si può certamente dire che nei piccoli centri gli abitanti siano tutti dediti a virtù e castità. Stava tuttavia di fatto che, a una prima impressione sulla gente incontrata, sembrava addirittura che fossero più le donne separate che quelle regolarmente coniugate. Fra queste ultime poi, a scavare, ne sarebbero uscite delle belle. Vitale tenne per sé impressioni, sospetti e pregiudizi che secondo i canoni di una mentalità moderna potevano sembrare tartufeschi; e non era un caso se passava per prevenuto o qualcosa del genere, soprattutto in un ambiente dove i sentimenti e le convinzioni personali passano in secondo piano rispetto alle prove concrete e ai fatti circostanziati.

    Facendo confronti con le sue mansioni di comandante di stazione, alcune differenze si potevano in ogni caso notare. A Cherasco si poteva ritenere una piccola autorità, adesso niente più che una rotella di un ingranaggio complesso e macchinoso, dove ci voleva il suo tempo prima di capirne il funzionamento. L’incarico al servizio della Mancardi tutto sommato gli poteva pure stare bene; da quando era arrivato, non aveva in pratica dovuto occuparsi d’altro all’infuori delle smanie dell’anonimo grafomane. Fra l’altro, va’ a sapere chi poteva mai essere! Non era da escludere qualche buontempone, se non addirittura qualcuno che voleva mettere in cattiva luce un magistrato, per di più donna, forse venuto a rompere le uova in certi panieri o a scompigliare delicati equilibri interni. Dopo la sua ultima lettera, allo spasimante fu affibbiato il titolo di professore, a causa della sua ottima proprietà di linguaggio mai villano o privo di riguardo, sempre galante e discreto.

    Nelle condizioni in cui operava, Vitale non poteva prendere iniziative e indirizzare indagini, doveva rimanere a disposizione, seguire le indicazioni che gli arrivavano. D’altra parte, provava il complesso del provinciale nella grande città: questa, per lui, era la di­stesa di case, fabbriche, uffici e grattacieli che si estende a macchia d’olio nella zona a nord di Milano, realtà in cui si passa da un comune all’altro senza nemmeno accorgersene e dove i confini sono più convenzioni amministrative che limitazioni di diversità.

    Aveva preso puntualmente servizio in un mattino d’inverno terso e ventoso che aveva squarciato le brume sui primi rilievi alpini. Sulle prime pagine dei giornali, posati sulla scrivania del maggiore, campeggiavano titoli tutti più o meno dello stesso contenuto: Primario d’ospedale trovata strangolata in una garçonnière.

    Ahi, ahi! Stavolta ci siamo disse fra sé Vitale.

    Capitolo 2

    Monza e dintorni erano in preda a un sensazionalismo che i mezzi di informazione si guardavano bene dall’attenuare. Foto di giornali e immagini televisive ripresentavano in modo ossessivo fototessera della donna morta e la facciata dello stabile in cui, all’interno di una garçonnière, era stata rinvenuta assassinata. Il corpo senza vita di Maria Rosaria Capaletti, cinquantacinque anni, primario al reparto di ginecologia dell’ospedale Besuschio di Sesto San Giovanni e domiciliata a Cinisello Balsamo – dopo le ricognizioni di rito – era stato portato al San Gerardo Nuovo di Monza e sottoposto ad autopsia. Secondo le prime ricostruzioni, il delitto era avvenuto presumibilmente nella mattinata, massimo primo pomeriggio, del nove febbraio. La morte era avvenuta per strangolamento.

    A lanciare l’allarme fu Domitilla Lampugani, incaricata delle pulizie. Lo spettacolo che si trovò di fronte fu spaventoso. Il corpo nudo della ginecologa – almeno da quello che era trapelato – si trovava disteso sul letto. Ci volle poi poco – soprattutto per cronisti scafati che avevano fiutato la notizia bomba – per infiocchettare e ingigantire. Tant’è che, a botta calda, alcuni giornali riportarono particolari al limite della verosimiglianza se non della vera e propria paranoia. Furono sparati articoli che lasciavano sottintendere tragiche conclusioni di un droga-party, di presunte ammucchiate con uomini di colore. Alle domande rivolte insistentemente alla Lampugani dai giornalisti che per primi l’avevano rintracciata, vale a dire: Lei sapeva con chi la dottoressa s’incontrava..., la risposta ostinata fu: "Mi su nient, mi voi saver nient...".

    Il dottor Marco Valecchi del commissariato di zona fu il primo ad arrivare, seguito dagli agenti della squadra mobile. Il medico legale, dottor Mezzagira, formulò le prime ipotesi. Il referto certificava un decesso per soffocamento dovuto a pressione e occlusione dei vasi sanguigni che portano il sangue al cervello. Detto in parole povere, la Capaletti era stata, né più né meno, strozzata. La vittima sembrava non avere opposto resistenza; la posizione del corpo, come del resto il letto trovato quasi intatto, non dava motivo di pensare a colluttazioni o resistenze di sorta. La ginecologa – divorziata e con una figlia domiciliata all’estero, personaggio conosciuto in tutto il circondario per serietà professionale e prestigio acquisito in decenni d’attività medica – era stata con tutta probabilità uccisa durante un incontro che i commenti più delicati e ben disposti definivano galante. L’assassino si era dato alla fuga senza lasciare tracce. In seguito alla trasmissione del rapporto da parte del commissario, la Procura della Repubblica avviò un procedimento per omicidio contro ignoti. Il procuratore capo assegnò il caso alla dottoressa Mancardi, la quale aprì un fascicolo. Il mattino in cui i giornali pubblicarono la notizia e nel momento stesso in cui incontrò Vitale, il magistrato gli disse:

    Che ne dice maresciallo, se la sente?.

    Se me la sento? A essere sincero, cominciavo a stufarmi nella ricerca di buontemponi grafomani che se la stanno ridendo.

    L’ho pensato anch’io. Ora però il caso è diverso, molto più impegnativo. Non le pare?.

    Concordo pienamente.

    Secondo le intese, il maggiore Nocivelli, al quale lei riferirà puntualmente e in modo costante, l’ha assegnata a me. Non mi faccia fare brutta figura....

    Nel dire le ultime parole, la donna assunse un’espressione particolare. Si vedeva che sotto la scorza di giudice inflessibile e glaciale batteva un cuore umano e trepidante. Del resto, per uno con la vista lunga come Vitale, ci volle poco per accorgersene.

    Le concedo carta bianca, mi tenga soltanto informata. Per il resto, si muova come meglio ritiene. Nocivelli, e io gli credo, mi ha assicurato che posso fidarmi di lei.

    Farò di tutto per meritarmi la sua fiducia.

    Potevano sembrare parole di circostanza ma, dette da uomo leale e con spiccato senso dell’onore come Vitale, assumevano un significato ben preciso. Da quel momento, il maresciallo aiutante Sebastiano Vitale – provvisoriamente comandato alla Polizia Giudiziaria presso la Procura di Monza – si sentì impegnato a dare il massimo delle sue capacità nei confronti della giustizia, ma anche verso una signora magistrato che vestiva in modo non troppo elegante, che appariva timida e impacciata, ma pure capace all’occorrenza – e di questo Vitale era consapevole – di sfoderare artigli e menare fendenti. Il fatto che dovesse fare luce su una violenza estrema commessa nei confronti di una donna la rendeva ancora più motivata. D’altra parte, il maresciallo non aveva trascorso invano un trentennio con la divisa dell’Arma senza imparare a conoscere le persone con le quali aveva a che fare. Sapeva inquadrare con uno sguardo l’ufficiale borioso e presuntuoso allo stesso modo dell’appuntato umile e coraggioso. Aveva maturato un particolare codice etico fatto di convinzioni personali che non sempre collimavano con codici e procedure. S’era pure fatto dei nemici e preso facciate clamorose. Al reparto operativo di Torino – per fare un esempio – erano saltati tappi di spumante alla notizia del suo trasferimento. Allora la prese come un’autentica vigliaccata nei suoi confronti: invidia e malafede avevano tramato e trionfato, pur di toglierlo dai piedi. A nulla erano valsi gli indubbi meriti acquisiti in indagini che senza il suo intervento – e di questo egli fu sempre persuaso – non sarebbero approdate a niente.

    Vitale non perse tempo, mise in atto il suo fiuto e la sua sagacia, allo stesso modo con il quale si comportava solitamente nella veste di comandante di stazione. Il quadro, tutto sommato, non gli sembrava poi così buio e impenetrabile come in un primo momento si poteva pensare. Il suo istinto gli diceva, infatti, che c’erano sufficienti elementi in cui scavare. La ginecologa era stata uccisa in un piccolo appartamento usato, con ogni probabilità, come luogo d’incontri clandestini. Il fatto che la garçonnière si trovasse nelle vicinanze della stazione ferroviaria poteva avere – ma di ciò non si poteva ancora essere certi – importanza e significati particolari. Fatte le debite considerazioni, il maresciallo si convinse che il bandolo dell’intricata matassa partiva dalla donna delle pulizie. Subito dopo, nella lista c’era l’amministratore dello stabile in cui era avvenuto il delitto.

    Per sua esperienza, sapeva che il locale appartato nel quale svolgere attività non proprio specchiate viene spesso usato da più utenti. Ciò vale sicuramente in ambito maschile, ma – con tutto il po’ po’ di emancipazione femminile in atto – può essere preso in considerazione anche da donne, specie le emancipate e in carriera, che hanno poco tempo da dedicare alle loro segrete distrazioni. Vitale era venuto a sapere, quando prestava servizio a Torino, che una certa capunera (come si diceva da quelle parti di soffitte usate per trastulli amorosi) era affittata e pagata pro-quota da una decina di baldi giovani e meno giovani. Pure lì ci fu un omicidio: una gatta da pelare da cui fu difficile venirne a capo. I dieci inquilini avevano, infatti, preso l’abitudine di prestare le chiavi ad amici e conoscenti; in definitiva, il letto del piccolo appartamento era usato da una cinquantina di frequentatori fra occasionali e abituali. In quel viavai non fu semplice smascherare l’assassino, anche se poi la giustizia ebbe modo – seppure casualmente e fortunosamente – di trionfare, soprattutto perché il palazzo conservava la benemerita istituzione del portierato, una fonte d’informazioni mai abbastanza lodata da questurini e

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