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KGB. Torino. Filiale 44
KGB. Torino. Filiale 44
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E-book378 pagine

KGB. Torino. Filiale 44

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Info su questo ebook

L’agente del KGB Alexandr Mikhailovic Romanenko lascia l’Unione Sovietica diretto verso l’Italia, più precisamente a Torino. Aldo Ferrero, invece, lavora in banca, ha una famiglia, una moglie e una vita ordinaria, anche lui nel capoluogo piemontese. Sono due persone molto diverse, i cui destini, normalmente, non si sfiorerebbero mai. Che cosa hanno, invece, in comune? Cosa porterà le loro vite ad incrociarsi? Una romanzo che parte da un progetto top secret della disciolta URSS e termina dove qualcuno sta cercando, invece, di riportarlo in vita, attraverso vent’anni di menzogne, nascondigli e morti misteriose.
LinguaItaliano
Data di uscita13 feb 2013
ISBN9788875638566
KGB. Torino. Filiale 44

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    Anteprima del libro

    KGB. Torino. Filiale 44 - Luca Serra

    1

    Aldo entrò in ufficio, quel giovedì mattina, una decina di minuti prima del solito.

    Era sempre molto mattiniero e, soprattutto in estate, gli piaceva svegliarsi presto e arrivare per tempo, in modo da riuscire a pianificarsi la giornata con calma prima che clienti e colleghi prendessero il sopravvento.

    Introdusse la chiave nella porta della filiale Torino 44 di Eurobanca, di cui era direttore da circa due anni, e seguì il percorso – che solo lui e il suo vice conoscevano – che, passando davanti alle postazioni dei cassieri, gli consentiva di arrivare al pannello dell’antifurto senza far scattare l’allarme. Digitò il codice di sette cifre – noto solo a lui e al suo vice – e sbloccò il dispositivo. Due bip molto sonori gli confermarono che il codice era stato accettato e che poteva muoversi liberamente. Accese l’aria condizionata e si spostò nel suo ufficio.

    L’agenda della giornata era abbastanza tranquilla: nel pomeriggio aveva un incontro con il suo capo filiale ma, una volta tanto, ci sarebbe andato abbastanza sereno. Con un po’ di meriti e un po’ di fortuna la sua agenzia stava rispettando la tabella di marcia che le era stata imposta dalla sede centrale, e probabilmente la riunione si sarebbe risolta in poco tempo e, auspicabilmente, senza lavate di capo.

    Aprì il giornale del mattino per dare una scorsa almeno ai titoli, ma non aveva sfogliato più di due pagine quando la testa di Luciano fece capolino attraverso il vano della porta.

    Disturbo?.

    Luciano veniva soprannominato, a sua insaputa, lo Svizzero, non tanto perché fosse una persona precisa, quanto per l’impeccabile puntualità con cui timbrava il cartellino di uscita. Alcuni dicevano che era possibile regolare l’orologio sincronizzandolo con il momento in cui si allontanava dalla scrivania. Costituiva, tuttavia, un elemento preziosissimo: lavorava lì da dodici anni, conosceva patrimoni e vita privata di tantissimi clienti e aveva un modo di fare così carismatico con il pubblico che nessuno dei predecessori di Aldo aveva mai osato privarsene.

    No, Luciano, entra pure. Anzi, ero curioso di sentirti per sapere come era andata....

    Luciano era dirigente di una piccola squadra di calcio locale nella quale giocava anche suo figlio e le sue prime parole, il giovedì, erano sempre su quell’argomento.

    Ad Aldo piaceva lo sport e, anche se non aveva mai visto giocare la squadra in questione, ascoltava sempre volentieri i resoconti del collega, soprattutto per la sua capacità di drammatizzare gli avvenimenti.

    Luciano si sedette alla scrivania e, con fare molto teatrale, alzò gli occhi al cielo, come per cercare un’ispirazione divina per trovar la forza di raccontare.

    Guarda, per la prima volta sono contento che tu neppure questa volta sia venuto al campo, e lo dico sinceramente. Perché, se fossi venuto, mi avresti chiesto se sono rincoglionito a perdere tempo dietro a un’indecenza del genere.

    Aldo non poté far a meno di sorridere.

    Perché? Che è capitato?.

    "Perché nel calcio puoi fare tante parole e tanti ragionamenti, ma, se nessuno tira in porta, la palla da sola non ci entra. Invece i nostri sono bravissimi a fare mille tocchetti, se la passano, la girano, la voltano... poi fanno un passaggio lungo, il loro stopper – e sottolineo lo stopper! – intercetta una palla molle, un lancio lungo e – zac! – il centravanti è solo solo al limite dell’area. Non poteva credere a tanta grazia: controlla, verifica che il difensore più vicino sia a non meno di venti metri, e ce la butta dentro!". Nel dire questo si prende il viso tra le mani e scuote il capo.

    E poi? incalzò Aldo.

    "E poi mi dico: magari non è un male, ora si danno una svegliata e rimontano. E invece ricominciano con i passaggetti: ho contato quindici passaggi per arrivare oltre la nostra metà campo, mentre gli avversari stanno lì e guardano: avrebbero potuto anche uscire e i nostri avrebbero continuato a farsi le seghe tra di loro".

    Si prende una pausa per sospirare.

    "E difatti non sbagliavano: calcio di punizione per loro nel cerchio di centrocampo, tattica del fuorigioco tentata da una difesa a due fatta da uno zoppo e da un morto di sonno, e due a zero per loro senza neppure sapere quale santo ringraziare per essersi trovati in due liberi contro il portiere!".

    E come è finita? cercò di accelerare Aldo, sentendo che l’ufficio nel frattempo si stava animando.

    Tre a uno per loro: abbiamo segnato su rigore negli ultimi cinque minuti, e stavamo sbagliando pure quello!.

    Un improvviso rumore di nocche sul legno interruppe il racconto di Luciano.

    È permesso? domandò un uomo interamente vestito di grigio dalla soglia.

    Senza attendere risposta, entrò nell’ufficio e si fermò sorridente di fronte alla scrivania.

    Ci scusi un attimo, Luciano? domandò Aldo dopo aver squadrato il nuovo venuto.

    L’anziano collega non disse una parola e lasciò la stanza, chiudendosi la porta dietro di sé.

    Porca miseria, Nino, ci dobbiamo vedere proprio tutte le settimane? sbottò Aldo senza neppure tentare di nascondere il fastidio che l’aveva sopraffatto.

    L’uomo di fronte a sé aprì la valigetta ventiquattr’ore che si era portato e ne estrasse una cartella trasparente, che appoggiò sul piano della scrivania.

    Sai bene che non dipende da me, Aldo rispose flemmaticamente guardandolo negli occhi, e sembrava sinceramente dispiaciuto. Con la fusione in corso, anche l’ispettorato, come le agenzie, deve presentare dei numeri. E noi i numeri li facciamo controllando i nostri colleghi.

    Chiuse con uno scatto le serrature della valigetta e la ripose accanto alla sedia.

    Ma cosa vi resta ancora da controllare, mi chiedo! proseguì Aldo, per nulla rabbonito. Siete venuti qui dieci giorni fa, non avete trovato nulla, e ora siamo da capo. Cosa volete, farmi saltare i nervi?.

    Incrociò le braccia sul petto.

    Non staremo qui a lungo, te lo prometto promise Nino, propinandogli nuovamente il sorriso tranquillizzante. Non ti incazzare, dai!.

    Senti, sai benissimo che non è questione di tempo provò a spiegare Aldo, protendendosi sulla scrivania. Quando vengono gli ispettori, tutti i dipendenti si innervosiscono. I cassieri rallentano perché hanno paura di sbagliare, i consulenti diventano evasivi con i clienti perché temono di farsi scappare qualche parola di troppo... Tutto rallenta e diventa più difficile.

    Nino diventò serio e si tolse gli occhiali.

    Lo so benissimo e, te lo ripeto, ne farei volentieri a meno. Non prenderla come un fatto personale, perché non lo è. Tu sei un direttore, io un ispettore, e stiamo semplicemente lavorando. Faccio quello che mi dicono di fare, e non posso farne a meno.

    Aldo si abbandonò contro lo schienale della poltrona pizzicandosi il lobo dell’orecchio, come sempre faceva quando era nervoso.

    Dai, tagliamo corto, allora. Cosa devi controllare, oggi? si arrese.

    Nino scartabellò nella cartellina che aveva estratto dalla borsa.

    Oggi ho bisogno delle ultime tre pratiche di fido istruite, degli ultimi tre mutui concessi e degli ultimi tre conti correnti aperti. Fatto questo, controlliamo le cassette di sicurezza, gli assegni circolari in bianco e ce ne andiamo. Se non ci sono intoppi proseguì guardando l’ora da uno Swatch colorato, per le undici, undici e mezza al massimo, ci togliamo dalle scatole.

    Aldo sbuffò ancora una volta.

    Dai, accomodati e fai quello che devi fare. Prima però lascia che vada io in cassetta di sicurezza, che devo prendere una cosa.

    Fece per alzarsi, ma l’ispettore lo fermò con un gesto.

    No, Aldo, non puoi andare in cassetta gli disse fermo.

    Prego? domandò stupito, rimanendo a metà tra la posizione seduta e quella eretta.

    Non puoi andare nelle cassette di sicurezza dopo che io ti ho detto che devo controllarle. Verrebbe meno lo scopo dell’ispezione a sorpresa, non trovi? spiegò senza staccare gli occhi dal modulo che stava iniziando a compilare.

    "Ma cosa pensi che vada a fare? Devo prendere una cosa dalla mia cassetta di sicurezza!".

    Non importa. Le regole le conosci bene quanto me. Aspetta gentilmente un paio d’ore e dopo potrai prendere tutto quello che vuoi. Non avrai mica una bomba a tempo da disinnescare, no?.

    Aldo scosse la testa e si alzò dalla poltrona, uscendo dall’ufficio senza degnare di uno sguardo il collega.

    Appena fuori dalla porta intercettò lo sguardo interrogativo della collega alla scrivania di fronte al suo ufficio.

    Ci risiamo, non chiedermi perché, Paola le rispose, prevenendo la domanda. Oggi controllano questo settore, per cui fammi la cortesia di metterti a loro disposizione. Con un po’ di fortuna ce li togliamo dalle palle prima di pranzo.

    È a causa della fusione? domandò la ragazza.

    Ovviamente rispose rassegnato.

    La notizia era esplosa come una bomba sui quotidiani finanziari un mese prima.

    Eurobanca e il Gruppo BNNC avevano deliberato una fusione che li avrebbe portati a essere il quinto polo bancario su scala nazionale, e, dal giorno dopo, era iniziata quella fase che Aldo aveva ribattezzato non fate prigionieri. Ogni direttore era stato catechizzato su quanto sarebbe stato importante potersi sedere al tavolo delle trattative con un bilancio virtuoso, e l’unica maniera per conseguire quel risultato era spremere.

    Spremere i dipendenti perché lavorassero di più, spremere i clienti perché producessero più utile, spremere le meningi per inventarsi iniziative per accaparrarsi le aziende più grosse.

    Ogni dato doveva essere scintillante, e anche l’Ufficio ispettorato, Aldo lo sapeva, era sottoposto alle medesime pressioni.

    Come fai con la riunione di oggi? gli domandò Paola.

    Non posso non andarci. Speriamo solo che termino in tempo rispose poco speranzoso.

    2

    Alexandr Mikhailovic Romanenko, sorseggiando una tazza di tè all’aeroporto di Mosca, pensò di capire come si sentivano i condannati a morte.

    Non era nel suo carattere indugiare su pensieri così tetri, ma continuava a trovare sinistre analogie tra l’argomento dei suoi pensieri e la situazione che stava vivendo.

    Da un punto di vista strettamente fisico, la sua vita non sarebbe terminata, ma, a meno di clamorosi colpi di scena, la storia di Sasha – come lo chiamavano tutti – era arrivata alle sue ultime battute. Tra un paio d’ore sarebbe salito su un aereo che l’avrebbe condotto a Berlino Est, dove avrebbe semplicemente smesso di esistere.

    Nei giorni precedenti aveva sbrigato le ultime incombenze: era andato a salutare i genitori e i nonni, aveva distribuito ad amici e familiari alcuni oggetti che gli erano cari e si era soffermato a osservare, per l’ultima volta, i luoghi in cui era cresciuto. C’erano state lacrime, abbracci e qualche battuta allegra, poi si era lasciato tutto alle spalle. Non era la prima volta che si allontanava dal suo Paese per ragioni di lavoro, ma stavolta era diverso.

    Quello che sapeva lui, e che invece non era noto ai suoi cari, era che, questa volta, non sarebbe più tornato.

    Mai più.

    Posò la tazza di tè e si guardò attorno. Erano le nove del mattino, e a quell’ora il movimento non era eccessivo. Si vedeva qualche gruppo vagare in silenzio in cerca di un bar o di un bagno, ma era tutto molto tranquillo, mentre gli altoparlanti diffondevano un sottofondo di musica classica che non sapeva riconoscere.

    Si accese una sigaretta e ripensò agli ultimi mesi, quattro dei quali passati a Novgorod.

    Novgorod era un’anonima città nel nord-ovest della Russia accanto alla quale, nella più assoluta segretezza, sorgeva il più complesso centro di addestramento che mente umana potesse concepire. Chi aveva progettato e realizzato il sito aveva probabilmente preso alla lettera il detto su Maometto e la montagna e l’aveva trasposto in campo militare: se non puoi portare i tuoi agenti all’estero, trasporta l’estero in Unione Sovietica.

    A Novgorod, semplicemente, c’era tutto il mondo.

    Quella che avrebbe potuto sembrare, a prima vista, una comune cittadina, in realtà non era altro che l’agglomerato di molteplici realtà, tutte riprodotte alla perfezione, che consentivano agli agenti di simulare una permanenza all’estero.

    La città era divisa in settori, uno per ogni Paese. Quello più esteso era – per ovvie ragioni – dedicato agli Stati Uniti, ma notevole attenzione era stata dedicata a quasi ognuna delle nazioni che componevano il cosiddetto mondo occidentale.

    Vi si trovavano case, fattorie, ristoranti, uffici... Qualunque tipo di struttura esistesse nel mondo, lì c’era, solo su scala ridotta.

    Un ignaro visitatore che si fosse trovato a passarvi avrebbe inoltre trovato, come i figuranti di una insolita e noiosa Disneyland, anche i relativi contadini, camerieri e impiegati; solo un occhio molto attento avrebbe potuto cogliere che, sotto camici e grembiuli, si celavano in realtà altrettanti istruttori, certamente più abili a sparare con la carabina che a zappare la terra.

    All’interno di ogni settore era consentito comunicare solo nella lingua di riferimento, e i cadetti imparavano, ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette, a vivere in una realtà diversa.

    L’addestramento, infatti, non si limitava al solo apprendimento della lingua. Lo scopo per cui era stata realizzata quell’opera era permettere ai futuri agenti di calarsi in una vita simulata senza muoversi dal suolo patrio, con notevole risparmio di risorse per il proprio Paese e totale assenza di rischi.

    Calati in una finzione perenne, gli allievi imparavano anche a sbrigare piccole incombenze quotidiane, come compilare un modulo per l’assicurazione dell’auto o dirimere una lite tra vicini, affinando, giorno per giorno, le proprie capacità e studiando le variabili di ogni situazione.

    Non di rado gli addestratori tendevano ai cadetti dei tranelli mirati, come quando si rivolgevano a loro in russo impartendo degli ordini – che avrebbero dovuto non essere compresi – o quando li coinvolgevano in situazioni di pericolo in cui sarebbe stato sconveniente per l’agente dare dimostrazione delle sue reali capacità.

    Sasha, benché conoscesse già piuttosto bene l’inglese e il tedesco, era stato assegnato al settore italiano. Ora padroneggiava in maniera pressoché perfetta la lingua, solo i dialetti erano ancora un grosso problema. Aveva studiato il sistema politico e il Festival di Sanremo, sapeva di Aldo Moro e di Bruno Conti e, pur senza amare il vino spassionatamente, era comunque in grado di distinguere una Bonarda da un Lambrusco.

    Oltre a questo, tutti loro avevano imparato quello che un soldato deve conoscere per operare in territorio nemico. Avevano acquisito la capacità di far saltare un camion con il plastico, di sabotare una centralina telefonica e di far piombare nell’oscurità un intero edificio; si erano esercitati a costruirsi un arma mortale utilizzando solo gli oggetti che si trovano in un ufficio, a pedinare una persona e a sfuggire a loro volta a un pedinamento.

    Mentre addentava una fetta di torta si chiese se gli sarebbe mancato il suo Paese. C’era del buffo nel fatto che fossero in tanti a provare a uscirne e lui, che era a un passo dal farlo, avesse delle perplessità.

    Sapeva che c’erano tante cose che non andavano in Unione Sovietica, non era cieco al punto da non rendersene conto; tuttavia, preferiva cercare di migliorarle lavorando per essa, piuttosto che scappando. Ma, paradossalmente, era proprio questo il significato della sua partenza.

    Non era stata una decisione facile per lui.

    Sarebbe stato più semplice se avesse dovuto partire per combattere in un conflitto armato o per una missione mordi e fuggi.

    Combattere una guerra non era molto diverso per lui dal lavorare in fabbrica, insegnare in una scuola o fare qualsiasi altro lavoro. Il concetto di comunismo, in un certo senso, era anche quello di contribuire tutti, ognuno alla propria maniera, a una causa comune.

    Andare all’estero e confondersi con la popolazione, invece, era un’altra cosa.

    Sarebbe stato in grado di farlo?

    I suoi istruttori dicevano di sì, diversamente non sarebbe stato prossimo alla partenza, ma intimamente non ne era molto sicuro.

    Qualche settimana prima, a Novgorod, si trovava in un bar a sorseggiare un espresso, quando il barista, interrompendo l’asciugatura dei bicchieri, si era proteso verso di lui e gli aveva bisbigliato in russo: Visto che siamo soli, volevo solo dirti di rilassarti. È tutto interrotto.

    Prego? aveva domandato Sasha in italiano.

    Tutto il progetto. Il Presidente non ha approvato ulteriori stanziamenti di fondi, e tra una settimana tutta la baracca chiude. Si torna a casa aveva proseguito il barista.

    Mi scusi, ma non riesco proprio a capirla aveva replicato Sasha, seccato.

    Ma dai, sì che mi capisci! Ve lo diranno tra un paio di giorni, ma ho visto con i miei occhi la circolare. Tra mezz’ora vado in camerata, telefono alla mia fidanzata e tra dieci giorni me la spasserò con lei sul Mar Nero! e gli aveva rivolto un sorriso aperto, vagamente lussurioso.

    Senta, senza rancore, ma penso che lei mi abbia scambiato per un’altra persona. Buona giornata.

    Aveva pagato il caffè ed era uscito.

    Quella prova era stata superata, ma sapeva che avrebbe potuto essere sottoposto a tranelli come quello; sarebbe stato in grado di evitare le insidie una volta effettivamente sul posto?

    Era stato promosso con voti alti, quindi la risposta doveva essere stata affermativa.

    Cercò di fugare i suoi dubbi concentrandosi sui vantaggi della sua missione. Ai suoi genitori sarebbe stato assegnato un appartamento più grande e a suo padre un lavoro in un ufficio anziché in fabbrica, e questo era veramente un toccasana per la sua famiglia.

    Quello contava veramente.

    Si accese una sigaretta, controllò per l’ennesima volta il bagaglio e si mise ad attendere la sua chiamata.

    Cinque ore dopo, il carrello dell’aereo Aeroflot si poggiava sulla pista di una torrida Berlino Est. Sbrigate le formalità di sbarco, che per Sasha furono particolarmente rapide grazie al passaporto militare, si recò direttamente all’albergo che gli avevano destinato.

    Appena arrivato, dichiarò le proprie generalità alla reception e ritirò la chiave della stanza che gli era stata prenotata direttamente da Mosca.

    Salì subito al piano. Era stanco e teso, e aveva tremendamente bisogno di riposarsi un po’.

    La camera era decisamente semplice, come si era aspettato. Le pareti non ricevevano un’imbiancata decente da parecchi anni e l’arredamento era composto semplicemente da un letto a una piazza, un armadio e un comodino.

    Il bagno era anche più squallido, senza finestre e con le piastrelle di un terribile verde acqua; dal soffitto pendeva una lampadina che illuminava a fatica l’ambiente.

    Perlustrò velocemente l’armadio, guardò sotto il letto e nella cabina doccia, poi fece scattare la serratura e si diresse verso il comodino.

    Nel cassetto trovò una busta totalmente anonima in carta piuttosto spessa. La prese, la soppesò un istante e la rimise al suo posto, poi si buttò sotto la doccia.

    L’acqua era calda e il getto potente, quello che ci voleva per lavare via la tensione e la preoccupazione. O almeno per provarci.

    Uscì dalla nuvola di vapore e si sbarbò con molta calma, poi si sedette rigido sul bordo del letto per esaminare il plico che non aveva ancora aperto.

    Lo osservò in controluce, per appurare che non fosse stato manomesso, poi ne aprì un lato con un coltellino e ne rovesciò il contenuto sulla coperta.

    All’interno c’era un passaporto della Repubblica Federale Tedesca. La foto in terza pagina era indubbiamente la sua, ma i dati erano di un certo Hans Weber, residente a Monaco di Baviera. Oltre al passaporto, la busta conteneva una carta di credito American Express, sempre a nome di Weber, e una lettera con cui una ditta di Berlino Ovest richiedeva sul posto la presenza del signor Weber per una generica consulenza meccanica.

    Rimise tutto nel cassetto e si stese sul letto, ricapitolando mentalmente quello che avrebbe dovuto fare il giorno successivo.

    3

    Quaranta minuti dopo, gli ispettori erano ancora alle prese con la prima cartellina e Aldo aveva perso le speranze di vederli fuori dall’agenzia prima di pranzo.

    Aveva scritto una mail di protesta al responsabile dell’ispettorato, inoltrandola per conoscenza al suo capo filiale, anche se sapeva bene che non sarebbe servito a nulla.

    Chiamò Paola nel suo ufficio.

    Come sta andando con i due Sherlock Holmes? le chiese.

    Peggio del solito. Hanno appena fotocopiato tre moduli firmati dai clienti e dicono che vogliono farli esaminare ad un perito calligrafo perché non sono sicuri che le firme siano autentiche.

    Aldo le fece cenno di avvicinarsi.

    Lo sono? le chiese guardandola negli occhi e abbassando leggermente il tono di voce.

    Sì, quelle sono autentiche rispose lei con convinzione. Le avevo fatte io, in principio, ma fortunatamente i clienti sono passati qualche giorno fa e, con una scusa, gliel’ho fatte rifare.

    Abbassò lo sguardo verso il pavimento, imbarazzata.

    Dobbiamo fare attenzione con queste cose disse Aldo con un sospiro. Per cavolate del genere rischiamo di avere una montagna di guai.

    Sai bene che ci faccio sempre attenzione si giustificò la ragazza con energia. In quel caso mi ero dimenticata di fare firmare il modello privacy e, se non l’avessi inoltrato in giornata, il fido non sarebbe stato deliberato in tempo. L’ho fatto per evitare che una banalità del genere gli creasse dei problemi.

    Lo so bene la interruppe lui. Il problema è che, di fronte ad un fatto del genere, non potrei neppure pensare di difenderti. Da quando c’è questa fusione in ballo dobbiamo andarci tutti con i piedi di piombo, lo dico per te.

    Paola rimase in silenzio qualche istante, visibilmente combattuta tra il desiderio di parlare e quello di tacere.

    Hai ragione rispose con un sorriso furbo. Però non farmi la predica perché, anche tu, qualche volta, lavori senza seguire alla lettera la procedura.

    Aldo la guardò di sottecchi.

    Ad esempio? domandò.

    Ad esempio con Bertone rispose lei pronta.

    Aldo ridacchiò.

    Hai scelto proprio l’esempio sbagliato. Con Bertone non abbiamo rischiato niente asserì convinto, incrociando le braccia davanti a sé.

    Bertone era stato uno dei primi grattacapi che si era trovato a risolvere.

    Due giorni dopo essere stato promosso direttore, gli era arrivata una telefonata dal Brasile e dall’altro capo del telefono – in pieno panico – si era trovato un cliente cui, in viaggio di nozze, avevano appena rubato tutto: contanti, bancomat, carta di credito.

    Aveva preso le sue generalità, fatto un po’ di controlli e qualche ora dopo gli aveva fatto arrivare un vaglia in una banca corrispondente a Rio de Janeiro.

    Ah no? lo incalzò Paola. E se quello, una volta tornato, fosse venuto qui a dirti che non aveva mai telefonato? Cosa avevi per giustificare un addebito sul suo conto? Che ne sapevi che Bertone fosse veramente in Brasile?.

    Aldo scosse il capo con fermezza.

    Mi aveva detto di essere un carabiniere che lavorava alla centrale qui accanto, ho telefonato lì e mi hanno confermato non solo che esisteva, ma che era effettivamente a Rio spiegò alzando l’indice in maniera un po’ cattedratica. Poi il vaglia che gli ho fatto era nominativo e, se non si fosse presentato a riscuoterlo, sarebbe tornato indietro. Non c’era nessun rischio.

    Sì, ma la firma per l’addebito? incalzò Paola.

    Non l’ho sicuramente messa io. Ho lasciato la distinta in bianco, l’ho tenuta da parte e, non appena è rientrato, gliel’ho fatta firmare. Sai bene che è molto diverso dal falsificarla.

    Paola rimase in silenzio.

    Senti, non ti sto dicendo di essere impeccabile le disse paternamente. Voglio solo sottolineare il fatto che, anche facendo tutto a fin di bene, come nel caso che mi hai appena raccontato, ci si può trovare a passare dei casini. Tu sei in gamba, e mi spiacerebbe che capitasse. A te come ad altri, ovviamente.

    La ragazza annuì storcendo la bocca.

    Ok, capo, messaggio ricevuto. Ora vado, magari hanno bisogno di me.

    Gli venne da sorridere dopo che lei fu uscita. Era simpatica, anche se a volte avrebbe dovuto frenare la lingua.

    Sapeva per esperienza che non tutti quelli che occupano la sua posizione sono così liberali nell’accettare le critiche dei propri collaboratori, e se lei avesse tenuto lo stesso atteggiamento con la persona sbagliata avrebbe potuto essere facilmente bollata come una rompiballe. Inoltre, non voleva che diventasse un’abitudine chiudersi nel suo ufficio a parlare.

    Tutti erano a conoscenza che lui era sentimentalmente impegnato – come lei, d’altra parte – ma sapeva molto bene con che velocità nascono a volte certe dicerie, e non aveva proprio voglia che certe illazioni cominciassero a girare, anche solo per scherzo.

    Anche perché a fine anno aveva intenzione di promuoverla e non voleva dare adito a nessun equivoco.

    4

    A Novgorod, Sasha aveva imparato, tra le altre cose, a controllare il sonno. Quando si è in zona di guerra, anche se simulata, non si può pianificare l’ora in cui chiudere gli occhi e l’ora in cui riaprirli, e aveva imparato a dormire quando poteva permetterselo.

    Era capitato, a lui come ai suoi compagni, di passare anche venti ore consecutive in azione, poi dormirne un paio, sempre con l’orecchio vigile e i muscoli pronti, sempre pronto a balzare in piedi col fucile in mano.

    Per questo, dopo aver controllato ancora una volta la stanza e verificato attentamente fuori dalla finestra che non ci fosse alcunché di sospetto, si spogliò rapidamente e si infilò sotto le coperte, nonostante fossero solamente le nove di sera.

    Avrebbe dovuto svegliarsi molto presto ed era comunque parecchio provato, tuttavia, prima che la sua mente cominciasse a intorpidirsi e a lasciar spazio al sonno, il suo pensiero tornò a Svetlana.

    Erano diversi mesi che non pensava più a lei, ma sospettava che non sarebbe stata l’ultima volta.

    Il ricordo tornò al momento in cui si erano conosciuti, diversi anni prima, quando lui aveva solo diciotto anni e lei uno di più.

    Avvenne in una luminosa sera di primavera del 1975, appena dopo la fine dell’anno scolastico. All’epoca giocava come difensore centrale nella formazione giovanile della squadra di calcio della sua città e desiderava ardentemente mettersi in mostra nella stagione appena iniziata. Aveva l’età giusta per poter aspirare a essere promosso in prima squadra, se si fosse giocato bene le sue carte; così decise, per quella sera, di incrementare l’allenamento con un po’ di corsa.

    Indossò la tuta da ginnastica, calzò delle scarpe comode e si buttò in strada, dirigendosi verso la periferia.

    Dopo una decina di minuti di corsa a buon ritmo, si trovò a passare di fronte alla fermata dell’autobus. Vi sostavano una dozzina di persone in disciplinata attesa; erano quasi tutti uomini di mezza età, a eccezione di una ragazza che sedeva leggermente in disparte e che, forse per quello, attirò la sua attenzione.

    Rallentò leggermente l’andatura per poterla osservare con più attenzione.

    Era stancamente appoggiata a un muro, con lo sguardo perso davanti a sé e i capelli in disordine, ma, nonostante ciò, Sasha non poté fare a meno di giudicarla carina.

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