Commissario Zen
Di Roberto Riva
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Info su questo ebook
È benestante, colto, ha successo con le donne e, non pago delle sue fortune, chiede alla vita di capire quale ne sia il significato e cosa e chi motivi quella degli altri.
Il caso nel quale si trova coinvolto gli fornirà qualche aiuto in merito, il tutto immersi nel decadente e triste interland padovano, con generose incursioni nel sapido e poco tradizionale privato del protagonista.
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Anteprima del libro
Commissario Zen - Roberto Riva
ZEN
Autore: Roberto Riva
© CIESSE Edizioni
www.ciessedizioni.it
info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it
I Edizione stampata nel mese di agosto 2020
Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni
Immagine di copertina: Licenza Creative Commons CC0
(libero uso commerciale, attribuzione non richiesta)
Collana: Black & Yellow
Editing a cura di: Renato Costa
Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
All’amico Tex. Grazie per esserci stato. R.I.P.
Un’indagine di polizia è come corteggiare una bella donna.
Molte energie spese e molti sforzi finalizzati ad ottenere un tête à tête con una persona che alla fine, femmina o criminale che sia, non vi ripagherà mai delle fatiche profuse per farli capitolare.
Il crimine è in costante aumento e questo perché le persone hanno un enorme bisogno di essere amate.
C’è un’immagine di me bimbo che strenuamente resiste nella mia memoria, nonostante il tempo faccia ogni sforzo perché io la cancelli e la sostituisca con l’esatta sequenza di numeri e lettere che compongono il mio codice fiscale.
Ho sei anni, sono in pantaloncini corti e gioco a guardie e ladri.
Senza saperlo ho appena accettato il mio primo caso e lotto senza risparmio di mezzi e forze perché un concetto molto draconiano di bene trionfi sui pomeriggi poveri e noiosi della provincia veneta.
Nulla mi differenzia, per equipaggiamento e scelte estetiche, da coloro che hanno voluto scegliere il lato oscuro della forza e questo spiegherà in seguito molte cose.
Il tarlo per l’investigazione – se così lo vogliamo chiamare – me l’ha trasmesso zio Luigino, detto Gibi (contrazione tutta veneta della nota marca di whiskey J&B), che, infermo sulle gambe e a corto di lucidità, nel suo perenne inverno etilico mi incaricava di scovare la chiave del mobiletto-bar che zia Adelina, di volta in volta, dirottava verso nuovi e fantasiosi nascondigli.
La poveretta non era al corrente del contributo che davo alle ricerche dell’indomito e avvinazzato consorte, e così, per anni, il loro legame è rimasto tale solo perché lei apprezzava orgogliosamente l’acume del suo uomo, devastato a livello epatico e gonadico, ma ancora in grado di tenerle testa (come testimoniano i quotidiani recuperi della chiave).
Nell’economia del matrimonio veneto, se lui non ti tradisce, non molesta bambini o gli animali da cortile e mostra un minimo di lucidità da rendere moralmente condannabile l’unica forma di divorzio consentito dalla Chiesa – vale a dire l’internamento in una casa di riposo – perché venir meno alle gioie della coppia?
La mia ricompensa era una bizzarra carta moneta da cento o duecento lire, che per un po’ di tempo ha fatto le veci dell’introvabile contropartita metallica.
Raccoglievo le ridicole emissioni bancarie in una vecchia scatola del Lego, che volutamente lasciavo profanare ai miei cuginetti e a qualche amico a corto di paghetta settimanale.
Il divertimento, semmai, era scoprire chi ci aveva messo le mani e si era appropriato del malloppo.
Il denaro non mi ha mai sedotto, mentre mi piace assistere allo spettacolo di chi per tutta una vita lo circuisce e lo brama. Avrei anche potuto rinunciare ai compensi di zio Luigino, ma dato il delicato equilibrio in cui versava la sua materia grigia, avrei corso seriamente il rischio di fargli del male.
Mi piaceva senza dubbio la sfida con zia Adelina, il quotidiano inseguimento dei processi mentali che le suggerivano sempre nuovi nascondigli ed eludere il sospetto che fossi io il vero artefice dei ritrovamenti.
Fingevo d’interessarmi ai suoi lavori domestici per osservarla nel suo spazio e capire fin dove poteva arrivare la sua creatività criptatoria.
In seguito imparai che l’esercizio mentale di scovare una verità nascosta altro non era che cercare se stessi anche attraverso gli errori o gli esperimenti di vita altrui.
I contrari, si sa, esistono per dare senso alla vita e una segnaletica ben visibile a chi la percorre sempre troppo velocemente per capire che è un luogo dell’anima e non un viaggio del corpo.
A dieci anni era lontano l’ingresso in polizia e l’avvento dell’investigazione vera e propria, ma le basi erano state inesorabilmente gettate.
Finita l’ora dei giochi e riposte le armi finte, mi sono guardato intorno e ho deciso di vestire seriamente i panni del tutore della legge. Potevo intraprendere altre carriere ma è risaputo che i karma non sono scritti con l’inchiostro simpatico.
L’eredità spirituale e materiale lasciata in dono da un padre attento frequentatore di commercialisti scaltri, era sufficiente al suo unico figlio per condurre un’esistenza agiata e priva di fremiti da bollette scadute, ma le scelte che arrivarono in seguito erano e sono un chiaro segno di irrequietudine e di un grande bisogno d’attenzione.
Tuttavia, per un po’ non mi ha fatto schifo attingere al fondo spese di papà e ho scorrazzato libero nel paese dei balocchi.
Bello lo ero abbastanza da non rischiare il mio patrimonio in rapporti mercenari e la rete di amicizie tessuta all’università era una valida garanzia per tenermi occupato senza che lo spettro della noia e dell’utilità sociale bivaccassero troppo a lungo sul mio pianerottolo.
Chi mi incontrava, per l’aperitivo delle undici all’elegante Caffè Pedrocchi o sotto i portici delle piazze per il dibattito sesso-politico-pallonaro del tardo pomeriggio, non doveva certo ricavare l’impressione che qualcosa d’incompiuto inquinasse la mia esistenza, eccezion fatta per una zazzera fluente e ribelle ad ogni acconciatura.
Soggiornavo sul Pianeta Terra come un piccolo sultano, dedito alla ricerca e alla sperimentazione del me stesso meno lontano e complesso per un facile e comodo raggiungimento dello scopo.
Una collocazione attico
– tanto per capirsi – a costo equo canone.
Paola, la morosa dell’epoca, di fronte all’opulenza e alla quiete che riempivano le mie giornate, diceva che la sfiga aveva perso il mio indirizzo e se anche trovava qualcuno a cui chiedere, quest’ultimo, impietosito, se la portava a casa sua!
Non succedeva mai di pensarmi in difficoltà e di fatto le sberle che la vita dispensa senza distinzione di censo, a me arrivavano sempre tramutate in carezze.
Non so cosa o chi mi abbia alla fine indotto a compilare i moduli per il concorso di Stato. Ricordo solo il commento sollevato di mio padre alla notizia che avevo superato l’esame di ammissione: «Perlomeno non è Polizia Tributaria!»
La mia laurea in lettere, utilissima fino a quel momento per farsi conoscere dalla Padova in gonnella, si rivelò giuridicamente indispensabile per non finire di pattuglia in autostrada o a scortare ultrà avversari nel blasfemo pellegrinaggio al glorioso stadio Appiani.
Di delinquenti veri, durante il corso, l’addestramento e l’apprendistato, nemmeno l’ombra, fatta eccezione per quel pervertito di Alberto Dal Cin, detto agente patogeno
, che in piena sintonia con i dettami del codice penale a noi riservati, scorrazzava in tutte le case d’appuntamento della provincia. Il suo «Aprite, Polizia!», non si limitava agli anonimi portoncini d’entrata, e Dio solo sa come sifilide e denunce siano rimaste fuori dal suo curriculum.
Personalmente trovavo tutto ciò noioso. Non capivo cosa ci stessimo a fare in quelle aule polverose coi poster sbiaditi delle vecchie Alfa Giulia e della Celere alle pareti. Perché tenerci segregati in un contesto atto a stabilire che noi eravamo i buoni e quelli con l’accento meridionale e la barba incolta i cattivi?
L’uso poi delle armi come mezzo di difesa e offesa mi precipitava nella più totale confusione.
Avevo scelto bene?
Era davvero quello il percorso ideale per affrontare le mie sfide? Chissà perché non avevo proprio calcolato la tiritera formativa e le menate sulle procedure.
Zio Luigino aveva consegnato da tempo l’anima al Creatore e non poteva quindi testimoniare sulle mie indiscutibili capacità investigative. Se sognavo una scorciatoia che bypassasse le rotture di coglioni e mi consegnasse prontamente lo status di accertatore della verità
, potevo anche cominciare a svegliarmi e a guardare in faccia la realtà.
Meditai pure di tornare agli spritz e alle casalinghe dal talamo capiente, ma prima che lo sconforto raggiungesse livelli insopportabili, fu impartita a tutto il mio corso la benedizione del Prefetto e con essa il lasciapassare per il mondo reale.
Il primo incarico fu al Centro Operativo della Questura di Padova. I buoni uffici del mio immacolato genitore commossero il Questore, che pensò subito a me come indispensabile supervisore dei servizi interni.
Sulla carta l'incarico poteva impressionare chiunque, ma in soldoni si trattava di non far mancare carta e toner alle stampanti e tenere lontani gli stacanovisti della lotta al crimine dai siti porno.
Al massimo dello splendore creativo inventai una specie di catena di Sant’Antonio delle delazioni, in cui l’incolumità propria e della famiglia erano salve se ognuno dei contattati confessava le inadempienze di almeno due colleghi di lavoro.
Trascorsi in codesto modo sette interminabili mesi della mia vita, determinanti per capire che non c’era una parte giusta dove stare, ma esistevano strumenti e situazioni diverse per scoprire chi sei veramente. Il primo scossone alla mia carriera lo diede la moglie del Questore.
Anna, un’indomita e per nulla rinunciataria signora di ben quindici anni più grande di me, che soleva avvalersi del sottoscritto per conferire col marito, soprattutto quando questi disertava appuntamenti telefonici e cene programmate con gli amici. Ben presto la mia efficienza di segretario personale fu testata anche in ambiti meno professionali e senza che ce ne accorgessimo ci regalammo una relazione con tutti i crismi.
La cosa andò avanti finché la mia sbadataggine non urtò con la totale assenza di precauzioni. Lei non restò incinta, perché le donne isterectomizzate fanno un po’ fatica a rimanerci, ma il grosso vibratore nero che le spuntava dalle natiche ed io nudo che lo azionavo, erano comunque la prova che non stavo sempre in ufficio e che i servigi resi al Questore non erano quelli da lui espressamente richiesti.
Il fatto che la sua famiglia fosse improntata su di un ferreo matriarcato e che io sapessi maneggiare con maestria certa oggettistica, mi premise di salvare culo e distintivo.
Nella buonuscita di quella storia rimediai pure una promozione a investigatore con i dovuti limiti imposti dall’inesperienza. Se non ero in grado di monitorare gli spostamenti e i rientri a casa di un cornuto medio, non potevo certo pormi come baluardo al crimine più efferato.
Alla mia amante pesavano la noia e la trascuratezza che l’essere maritata a un alto funzionario di Stato comportano e in più stavano stretti gli abiti della casalinga, nel senso che proprio non perdeva occasione per farseli togliere e indossare quelli ancor meno comodi della mistress.
Fu lei a introdurmi nel mondo del fetish, dove corpetti in latex, frustini e tacchi alti incrementano il numero degli ammennicoli preposti al piacere. Ma di questo ci sarà occasione di parlare più avanti. La nuova avventura lavorativa, terminate le fatiche nel talamo del capo, consisteva nell’inseguire le mezze tacche del crimine nostrano, più per ricordar loro i limiti della decenza recitati dal codice penale che per un reale bisogno di rimpolpare la popolazione carceraria. Nel mio ufficio distaccato in via Ognissanti, nel noto quartiere popolare del Portello, eletto ad alcova da numerose professioniste, confluivano le denunce della Padova sana e lavoratrice, stanca di dover sempre riacquistare catenine d’oro e argenteria. I piccoli furti hanno da sempre rivitalizzato i rapporti interpersonali e il dialogo tra i diversi ceti, con l’inconveniente di scomodare la polizia quando i più abbienti si sentono un po’ tagliati fuori dalla conversazione.
Il nucleo investigativo era composto dal sottoscritto, una segretaria part-time, Gustavo Lorenzoni – il mio aiutante di campo – e una Fiat 127 color verde pisello.
I sopralluoghi li faceva Lorenzoni che, dopo una carica finita male al Petrolchimico di Marghera, non era più in grado di reggersi in piedi per ore, fronteggiando a muso duro cassaintegrati, tifoserie, sfrattati e quanto il sadismo dei potenti o il masochismo degli umani sanno produrre. Lui con la 27
scorrazzava da una parte all’altra della città a raccogliere testimonianze e prove, mentre io battevo a macchina i verbali che la segretaria – la signorina Ida – redigeva poi a mano, in bella calligrafia, su appositi moduli. Avevamo provato a fare il contrario, con il catastrofico risultato che lei non capiva il mio corsivo e io non riuscivo a leggere i suoi fogli dattiloscritti.
L’apice della nostra fama ed efficienza lo raggiungemmo con l’incriminazione per furto d’auto a carico di un certo Vittorino Celeghin, che l’indomani dell’indebita appropriazione bussò al portone di diverse officine meccaniche con la richiesta di installare un impianto a gas nella sua fiammante Ferrari Testarossa. Lo sdegno del più purista degli interpellati raggiunse i nostri orecchi sotto forma di concitata conversazione telefonica che implorava l’intervento delle forze dell’ordine affinché fosse impedito un simile scempio. L’italico capolavoro di design e meccanica fu restituito al suo proprietario, quando scoprimmo che il Celeghin figurava tra i paria della società e che aveva ridipinto le strisce blu di un posto auto in centro città con lo stesso rosso fuoco del suo bolide.
La notizia riempì la terza pagina del Mattino di Padova e i bar della città per giorni. Il fatto che l’auto appartenesse al presidente della Confindustria Veneta, non fece del male alla mia carriera.
Venni invitato a cena nella sua villa sui Colli Euganei e di fronte a giornalisti, familiari e amici che come me erano presenti per celebrare la vittoria della legalità e del buongusto, pronunciai un discorso che avrebbe definitivamente segnato il mio destino di personaggio pubblico.
Non avendo nessuna intenzione di crocefiggere il povero Celeghin – che a quattr’occhi in ufficio se n’era uscito con un: «Vacca troia, comissario, so stufo de guidare solo Fiat. Le donne no ghe piase le machine color pisello. Le voe el rosso passion!» – ma neppure di abbracciare una politica da centri sociali, dissi quello che nessuno si aspettava.
Pescai dal profondo del mio vissuto intriso di mediazione, parcheggi in doppia fila, senso di irresponsabilità e voglia di cazzeggiare, ricavandone le seguenti riflessioni: «Chi non vorrebbe custodire tra le lamiere del suo box-auto una formidabile Ferrari come quella del nostro insigne anfitrione? Le tentazioni sono come la marmellata: appiccicose. Non riesci a togliertele di dosso o a lasciarle in barattoli che appartengono sempre ad altri. Deploro fortemente l’intento vandalico che il grezzo Signor Celeghin aveva in animo di compiere, forse la società dovrebbe farsi carico anche di codeste cadute di stile, ma non posso non pensare allo spettacolo di un muratore che celebra il miracolo del Nord-Est andandosene in giro con la fuoriserie di uno dei suoi principali artefici!»
Le mie considerazioni furono salutate da una vera e propria ovazione e lo stesso padrone di casa, legittimato a dubitare del convinto impegno delle forze dell’ordine nello stroncare la piaga del furto, mi porse il suo miglior sorriso accompagnato da un flûte di Prosecco D.O.C. di Valdobbiadene.
In vino veritas? No, ma ognuno aveva avuto quello che cercava. Lui la tanto invidiata automobile. Io una buona dose di pubblicità. I giornalisti un nuovo eroe da copertina. Gli invitati un pretesto per mangiare gratis e spegnere i mozziconi di sigaretta sui tappeti.
In società, è risaputo, quello che conta sono le apparenze. All’indomani del mio exploit filosofico-investigativo, per la stampa locale ero diventato il «Commissario Zen!»
Del mio vero cognome, Zennaro, si salvava il suffisso, più facile e veloce da pronunciare, maggiormente in linea con il personaggio folcloristico che andavo a impersonare.
Parte della mia identità anagrafica andava perduta per sempre. Un pezzo della mia vita rimaneva al palo come i serbatoi dello Shuttle che, dopo aver fornito la spinta decisiva, si staccano e lasciano libera la navicella di proseguire il suo viaggio tra gli astri.
Il potere dei media è forte e ancor più lo è il desiderio collettivo di creare qualcosa che sfugga alla normalità e ci illuda di essere diversi dagli altri.
In città c’era un ragazzo nuovo – come dicono gli anglosassoni – e il suo nome era ZEN.
Il propellente per il balzo nell’empireo della Padova che conta venne dalla soluzione del più cretino dei casi, senza che ne avessi particolare merito e in assenza di alcun guizzo intuitivo.
Chi non saprebbe scovare un ladro pirla e megalomane che progetta di convertire a GPL un motore a dodici cilindri e cinquemila centimetri cubici di cilindrata per consumare meno e parcheggia in una della piazze centrali con tanto di asfalto evidenziato in rosso e un po’ di confusione sul concetto di personaggio in vista
?
Era una buffonata di cui la mia promozione rappresentava l’acme.
Non ero nulla come adulto, se si esclude un certo gusto per il vestire e un onesto interessamento