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Destini di sangue: Un'indagine dell'ispettore Sangermano
Destini di sangue: Un'indagine dell'ispettore Sangermano
Destini di sangue: Un'indagine dell'ispettore Sangermano
E-book278 pagine3 ore

Destini di sangue: Un'indagine dell'ispettore Sangermano

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Info su questo ebook

Roma. Il Natale è alle porte. Per Marcello Sangermano, ispettore dell'Unità Operativa per i Crimini Seriali, uomo di profonda umanità e dal carattere bonario, non può esserci fine anno peggiore. Da qualche mese, infatti, si aggira per Roma un assassino sadico e spietato. I suoi obiettivi sono innocui anziani trucidati senza alcuna pietà e poi fatti a pezzi. Nonostante le indagini frenetiche, la pressione dell'opinione pubblica spaventata e delle autorità che chiedono con decisione una soluzione al problema, la ricerca del colpevole è a un punto morto. Sangermano, pur aiutato dai colleghi dell'Unità, fra i quali primeggiano il capo del reparto scientifico Gizzi, la viceispettrice Fedele e l'amico Placidi, si trova di fronte alla prospettiva di un clamoroso fallimento, dopo anni di onorata carriera. A soccorrerlo arriva però un indizio fortuito, che lo porta sulla giusta strada, segnata dagli incroci coi vicoli di un mondo torbido e squallido, dove aleggiano strani personaggi che lo aiuteranno a imboccare il percorso che svelerà un'imprevedibile verità.
LinguaItaliano
Data di uscita17 lug 2013
ISBN9788868510077
Destini di sangue: Un'indagine dell'ispettore Sangermano

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    Destini di sangue - Marco Di Tillo

    Destini di sangue

    Un’indagine dell’ispettore Sangermano

    di Marco Di Tillo

    © Arkadia Editore

    2013

    Collana Eclypse 26

    Isbn 978 88 96412 800

    1

    L’ultimo a passare era stato un camion, la luce scintillante dei fari che rimbalzava fastidiosa contro lo specchietto retrovisore.

    Lui si era tirato su per guardare.

    Il viso del camionista gli ricordava qualcuno, ma non sapeva bene chi. Forse uno di quelli che venivano sempre per scaricare la carne oppure per portare le cassette di frutta e verdura.

    La pioggia continuava inesorabile a tamburellargli sopra la testa, battendo ritmicamente sul tetto della piccola macchina parcheggiata nei pressi della stazione.

    Anche il rumore dei treni che passavano lo teneva sveglio.

    Ogni tanto si fissava a guardare le luci dei finestrini. Gli scompartimenti illuminati correvano via, come frecce nella notte. A bordo decine di persone sedevano da sole oppure in compagnia, mentre si trasferivano per lavoro o necessità da una parte all’altra del Paese. Ognuno con la propria storia, ognuno con i propri pensieri. Si domandò se il numero dei cattivi superasse quello dei buoni. E continuava a guardare, seduto sul sedile anteriore della macchina, sotto la pioggia.

    Quando pioveva si sentiva più solo. Gli succedeva sempre così.

    Da piccolo passava ore intere con la fronte poggiata sul vetro della finestra a osservare tutta quella gente che camminava veloce e cercava invano di ripararsi sotto l’ombrello. I tergicristalli delle automobili danzavano in modo schizofrenico da una parte all’altra, come stupidi ballerini ubriachi. Le ruote dei ciclomotori continuavano inesorabilmente a infilarsi dentro alle pozzanghere color petrolio. Nella casa di sua zia non c’era quasi mai nessuno. Solo silenzio intorno e dentro di lui. Unica compagnia quelle gocce di pioggia, che davano forma a decine di complicati disegni sul vetro della finestra.

    Ritornò al presente. Guardò l’orologio e decise che era giunto il momento.

    Indossò il mantello impermeabilizzato, infilò sulla testa il passamontagna, sistemò con cura la plastica sotto le scarpe e infine si mise i guanti. Poi prese lo zainetto, uscì dalla macchina e si diresse lentamente verso la logora palazzina a tre piani.

    La finestra del pianoterra aveva le persiane vecchie. Molte stecche di legno erano fradice. Ne tolse un paio. Stava già per estrarre dalla tasca il suo piccolo diamante per fare il buco sul vetro dell’infisso e farci passare la mano, quando si accorse che non era chiusa dall’interno. Provò soltanto a spingere e la finestra si spalancò. Scavalcò il davanzale e saltò dentro. Una volta nella stanza richiuse le persiane e la finestra, poi si fermò un istante al buio per capire se qualcuno avesse sentito.

    Dopo qualche secondo uscì nel corridoio e raggiunse l’altra stanza. L’uomo anziano dormiva. Non aveva udito niente.

    Lui afferrò il disgraziato per i capelli, scuotendolo.

    «Svegliati vecchio. Mi devi dare tre nomi.»

    L’uomo spalancò gli occhi, terrorizzato.

    «Chi sei?», balbettò.

    «Tre nomi!»

    «Ma di cosa parli?»

    Il vecchio iniziò a gridare, ma l’altro lo colpì con un violento manrovescio in pieno viso e continuò a percuoterlo sul resto del corpo, finché stremato e impaurito la vittima implorò il suo aguzzino di fermarsi.

    «Che cosa vuoi sapere?», mugolò con il sangue che gli colava da un angolo della bocca.

    Lui gli fece le domande. Il vecchio rispose a ognuna sperando così di allontanare il pericolo da sé.

    Alla fine disse: «Ora sai tutto, lasciami in pace!»

    Furono le ultime parole che riuscì a pronunciare. Una mano veloce gli si infilò dentro la bocca e gli tagliò con un colpo netto la lingua.

    Mentre il sangue iniziava a uscire a fiotti, il vecchio ebbe uno scatto improvviso, mise entrambe le mani sotto al passamontagna del suo aggressore e gli tolse il copricapo dalla testa.

    Fissò per un istante il viso di quel giovane. Il naso schiacciato, la chioma di quello strano colore biondo cenere, gli occhi gelidi come quelli di un pescecane. Poi le sue dita si ancorarono ai capelli dello sconosciuto e gli strapparono di netto un ciuffo dalla nuca. In quegli attimi disperati la vittima cercò di sollevarsi, di tentare una qualsiasi resistenza. Ma ogni cosa fu inutile. L’assassino lo inchiodò al letto con il ginocchio premuto sullo stomaco, poi gli conficcò un’altra lama, più lunga, nel cuore e tutto finì.

    Morì in pochissimi istanti, con la bocca aperta, crollando sul materasso zuppo del suo stesso sangue.

    Con un terzo coltello, quello di precisione, il giovane lavorò alacremente, finché la testa del vecchio non fu asportata completamente dal resto del corpo.

    Infilando il capo mozzato in una busta di plastica il giovane notò che gli occhi erano rimasti spalancati. Curioso, pensò. A volte succedeva, ma era la prima volta che assisteva di persona a una cosa del genere. Prima di andarsene si guardò intorno. Voleva essere sicuro di non avere lasciato tracce. Ma, cosa ancora più importante, staccò dal muro il brutto quadro raffigurante una campagna toscana e sul chiodo conficcò la lingua dell’uomo che aveva appena ucciso.

    Infine prese il giornale pornografico che aveva portato con sé.

    La donna sulla copertina aveva le labbra carnose colme di rossetto e due seni da maggiorata, nel mezzo dei quali il fotografo aveva accuratamente poggiato una grande rosa rossa.

    2

    Tre mesi più tardi

    Dopo aver trascorso molte ore del pomeriggio a disegnare, Nanni era uscito a prendere una boccata d’aria.

    Camminava lentamente, respirava a fatica e grondava sudore come il nasone della strada, ma non avrebbe potuto fare meglio di così.

    «Lei ha quarantanove anni, Nanni. È alto un metro e sessantotto e pesa centotrenta chili. Il suo cuore soffre, i suoi polmoni soffrono, le sue gambe soffrono e anch’io soffro moltissimo nel ripeterle sempre le stesse cose. Quindi, o dimagrisce subito di almeno trenta o quaranta chili facendo la dieta che io le ho prescritto un anno fa, oppure morirà molto presto. Decida in assoluta tranquillità. E non mi dica che non trova le medicine, visto che le vende lei!»

    Nanni sentiva un impulso violento ogni qualvolta il dottor Roveri lo trattava in quel modo, però sapeva che aveva ragione. Avrebbe dovuto decidersi a fare quella dieta.

    Prima o poi.

    Al termine della passeggiata era entrato finalmente nella sua amata saletta di piazza di Spagna, si era seduto al solito tavolo davanti alla finestra e aveva ordinato come sempre una tazza di tè oolong e un vassoio di paste miste. Quella era la sua merenda. Un’abitudine che aveva preso da quando sua moglie era andata a vivere con Redi e a casa non c’era più nessuno ad aspettarlo.

    Digrignò i denti, pensando a tutte le cose che quel viscido verme gli aveva preso: l’affetto quotidiano di sua moglie e suo figlio, le loro confidenze, i sogni, i divertimenti, le gioie, le paure, i dolori, i viaggi e chissà quanto altro ancora.

    Socchiuse gli occhi e li riaprì dopo un istante, respirando profondamente. Si concentrò sul sobrio arredamento della sala e osservò con attenzione le cameriere che si muovevano con apparente leggerezza sullo scricchiolante parquet.

    Quell’ambiente lo tranquillizzava. Lì riusciva, almeno per qualche ora, ad alleviare il continuo senso di angoscia e il devastante morso allo stomaco che si portava appresso. Aveva letto da qualche parte che il locale era stato inaugurato verso la fine dell’Ottocento da Isabel Cargill e Anna Maria Babington, signorine inglesi di buona famiglia venute a Roma con l’intento di aprire un nuovo ritrovo per la comunità anglosassone. E da quel momento l’esercizio commerciale, gestito ora da una pronipote della Cargill, grande esperta di tè internazionali, conservava alcuni gloriosi arredi d’epoca e anche l’antico camino, sempre acceso nelle fredde giornate invernali. Meditò che si trattava di un vero e proprio miracolo commerciale mantenere la stessa attività in famiglia per così tanto tempo.

    In attesa che il tè si raffreddasse un pochino, sbirciò fuori della finestra. Mancavano soltanto due settimane a Natale ma, forse anche per colpa del continuo maltempo e della pioggia incessante, non si vedeva in giro il movimento solito del periodo che precede la festa, con le signore borghesi che andavano in giro a fare spesa morbidamente avvolte nei loro sofisticati e soffici cappottini, le giovani mamme con tanto di pargoli al seguito, padri sbuffanti per l’ennesima fermata di fronte all’ennesima vetrina, giovani coppie ancora innamorate e non guastate dalla vita.

    In quel momento gli sembrava che anche la piazza fosse più vuota rispetto agli altri anni, con meno stelline luminose, ornamenti e decorazioni colorate.

    Certo, il momento di crisi che attanagliava il Paese era drammatico, soldi in giro ce n’erano davvero pochi ma, insomma, quel Natale si stava proprio presentando in modo triste e disadorno. Al contrario da Babington’s sembrava che le cose andassero meglio, almeno all’apparenza. Tutti i tavolini erano stati apparecchiati con una sgargiante tovaglia rossa dalle scintillanti bordature dorate. C’erano alberelli di legno molto carini ovunque, grandi festoni di muschio verde ai lati del camino e naturalmente il tradizionale e superbo abete gigante, addobbato con grandi palle di vetro rosso porpora e dolciumi incartati in eleganti sacchetti colorati. E la gente non si faceva certo pregare per sostare a un tavolo e consumare. Nanni pensò che almeno lì dentro sarebbe stato Natale davvero.

    Tirò fuori dalla borsa l’album a fumetti acquistato nel negozietto L’aventure di via del Vantaggio. Era una delle storie di Blake e Mortimer, su sceneggiatura di Yves Sente e disegni di André Juillard. Accarezzò il libro, guardando l’immagine sulla copertina. Il professor Mortimer indossava un elegante impermeabile verde con una fiammante sciarpa gialla annodata intorno al collo. Abbigliamento particolare, considerando la sua consueta sobrietà. Per fortuna il taglio dei suoi famosi capelli rossi era sempre lo stesso: riga da una parte, ciuffo ribelle dall’altra e viso incorniciato dalla solita barbetta alla Nerone.

    Aprì lentamente il volume e lesse la didascalia in alto a sinistra: Cosmodromo di Baiknur, vicino al mare di Aral….

    «Mare di Aral…», ripeté a bassa voce.

    «Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan», aggiunse la voce della giovane cameriera, spuntata d’improvviso alle sue spalle.

    «Ha detto, scusi?», domandò Nanni incuriosito.

    «Sono le cinque regioni bagnate da quel mare», proseguì velocemente la ragazza. «Ma in realtà non è proprio un mare, è un lago.»

    Nanni guardò la magrissima bionda con gli occhi verdi che parlava con un forte accento dell’est europeo.

    «È russa?», domandò.

    «Sono ucraina», rispose lei con espressione fiera.

    «Mi scusi», aggiunse subito lui, quasi vergognandosi dell’errore.

    «Sono nata lo stesso anno in cui il nostro Paese ha ottenuto l’indipendenza. Gradisce dell’altro tè, signore?»

    «Sì, grazie», disse Nanni, cercando inutilmente di ricordarsi in che anno l’Ucraina avesse ottenuto l’indipendenza, tanto per definire meglio l’età della ragazza. In effetti di quel lontano paese lui non conosceva assolutamente nulla, se non che c’era nato Andrij Ševčenko, l’ex giocatore del Milan.

    Scostò con un pigro movimento della mano le tendine di lino ricamato e guardò ancora fuori della finestra. Pioveva così tanto che con una certa difficoltà si riusciva a vedere il lato opposto della piazza. Il venditore di caldarroste cingalese aveva cercato riparo nell’androne di un palazzo, trascinandosi dietro i suoi strumenti di lavoro, lo sgabello di legno, il fornello e i due sacchi, uno con dentro le castagne e l’altro con la carbonella per la brace.

    I passanti correvano di qua e di là, come formiche spaventate, coprendosi alla meglio la testa con un giornale o, peggio, col semplice palmo della mano. Nanni sorseggiò un altro po’ del suo tè e iniziò a leggere, mentre in sottofondo si andava diffondendo un rassicurante tappeto di note musicali. Il tempo trascorse pigro, scandito dal cadenzato picchiettio della pioggia proveniente dall’esterno. Finché un improvviso rumore lo fece sobbalzare. Si girò di scatto. Alle sue spalle la giovane cameriera ucraina, inginocchiata in terra, stava raccogliendo con una mano i pezzi della tazza di ceramica appena caduta. Nanni pensò che le vaste conoscenze geografiche della ragazza sarebbero servite ben poco di fronte ai pesanti rimproveri che sicuramente le avrebbe indirizzato a fine turno la signora Elvira, la governante di sala.

    Tornò a girarsi e quello che vide fu proprio strano.

    Dalla piccola finestra, proprio di fronte a lui, una persona lo guardava intensamente, con la faccia a pochi centimetri dal vetro. Si trattava di un giovane bruttissimo che lui non aveva mai visto prima. Era molto robusto, aveva capelli neri tagliati corti e tutta una serie di piccole escoriazioni sulle guance e sugli zigomi. Sul naso portava un vistoso cerotto, come se si fosse appena sottoposto a un intervento al setto, e lo fissava con una specie di perfido ghigno, incurante della pioggia che gli calava sul viso e gli bagnava completamente i vestiti e lo zainetto che teneva a tracolla su una spalla. All’improvviso tirò fuori la lingua e la mosse su e giù, con fare sconcio. Restò così una decina di secondi e poi se ne andò.

    «L’ha visto anche lei?», gli domandò la cameriera, che nel frattempo si era alzata in piedi.

    «Quello che faceva le boccacce?», disse Nanni.

    «Mi ha messo paura. È per questo che mi è caduta la tazza dal vassoio!», rispose la ragazza, ancora molto agitata per l’incidente.

    Lui si alzò in piedi, lasciò i soldi sul tavolo, prese la borsa, l’ombrello e si precipitò fuori a cercare l’uomo. Ma sulla piazza, a parte il venditore di caldarroste ancora rifugiato nell’androne del palazzo, non scorse nessun altro. Aprì il parapioggia nell’atto di andarsene, e in quel momento lo vide. Faceva capolino dietro il tronco di una palma.

    «Senti un po’ tu!», gridò Nanni.

    Ma quello continuava a fissarlo senza rispondere. La porta di Babington’s si spalancò d’improvviso e lui si girò di scatto a guardare la governante Elvira che usciva trafelata.

    «Il suo libro, signor Nanni!», disse lei, porgendogli l’album a fumetti che nella fretta aveva dimenticato sul tavolo.

    «Grazie», rispose, girandosi di nuovo a guardare in direzione dell’uomo che, però, non era più nello stesso posto di prima.

    Nanni percorse con lo sguardo l’intera piazza, senza riuscire a vederlo. Proteggendosi sotto l’ombrello dalla pioggia battente, fece qualche passo avanti, in direzione di vicolo del Bottino, per vedere se per caso si trovasse lì. Ma non c’era. Quando poi si girò nuovamente verso la piazza, lo vide di nuovo. Stava dalla parte opposta, sul marciapiede di ardesia, tra via della Croce e via delle Carrozze. Immobile lo fissava da lontano, finché, improvvisamente, fece di nuovo quel gesto volgare, tirando la lingua fuori dalla bocca e iniziando a muoverla su e giù. Infine si girò e corse verso via della Croce, dileguandosi rapidamente tra gli ombrelli e la fretta della gente.

    3

    «Gridano e il Signore li ascolta, li salva da tutte le loro angosce. Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito, Egli salva gli spiriti affranti. Molte sono le sventure del giusto, ma lo libera da tutte il Signore. Il Signore riscatta la vita dei suoi servi, chi in Lui si rifugia non sarà condannato.»

    Dopo qualche istante chiuse il libro dei Salmi, si alzò in piedi, fece lentamente il segno della croce e uscì dalla chiesa. Davanti alla porta del centro d’ascolto lo attendeva una donna minuta, sguardo malinconico, occhi umidi. Sembrava possedere dentro di sé una tristezza infinita.

    «Apre anche oggi, dottor Sangermano?», domandò.

    «Sì, Lucia. Anche oggi», rispose lui, cercando di trovare la chiave giusta nel grande mazzo che teneva ancorato con un moschettone al passante dei pantaloni. La stanza era piccola e fredda. Lui accese la stufetta elettrica sistemata vicino alla finestra e le fece segno di sedersi.

    «Allora, come vanno le cose?»

    «Male, dottore», rispose lei. «Ogni notte rientra verso le quattro o le cinque. A volte non rientra per niente. Io penso sempre che gli sia successo qualcosa, che abbia avuto un incidente con il motorino oppure che l’abbiano trovato dietro una siepe, come hanno trovato il fratello di quell’attore famoso qualche tempo fa.»

    «Adesso quanti anni ha?»

    «Diciotto. Li ha compiuti il mese scorso.»

    «Sei stata a parlare al Sert?»

    «Sì, la psicologa mi ha detto che lo devo sbattere fuori di casa.»

    «E tu perché non lo fai?»

    La donna non rispose subito. Si prese una lunga pausa. Guardò per un momento fuori dalla finestra, osservando i ragazzini che giocavano a pallone sotto la pioggia, nel campetto dell’oratorio.

    Le loro grida, i calci alla palla, il rumore delle scarpette di gomma sul cemento, il piccoletto col ciuffo che faceva sempre goal. Tutto le arrivava come ovattato, confuso.

    «È ancora un ragazzo, dottore…»

    «Sì, ma è un ragazzo malato. Si droga da almeno quattro anni. Deve entrare in comunità e pure di corsa.»

    «Io gliel’ho detto. Non sa quante volte. Ma lui risponde sempre che non lo farà mai. Dice che non sta così male, che io mi sbaglio, che non ho capito niente, che esagero, che quelli che stanno veramente male io non li conosco.»

    «Dicono tutti così, Lucia. Senti, facciamo una cosa. Ti mando a casa uno dei nostri ragazzi.»

    «I drogati che vivono in parrocchia con voi?»

    «Gli ex drogati, Lucia. Ora sono tutti recuperati. Ti mando Riccardo. Lui è bravo, uno che ce l’ha fatta. Ci parla lui con Fabio.»

    «Ho paura che possa finire male. Mio figlio lei non lo conosce, dottore.»

    «Riccardo è alto due metri, a vederlo mette paura. Ci parla lui con Fabio. Te lo mando domani.»

    «No, dottore. Lasci stare. Magari un’altra volta…»

    «Ti voglio bene, Lucia. Fidati di me», incalzò Sangermano.

    «È di mio figlio che non mi fido. Lasci stare, per favore. Aspettiamo ancora un po’…», disse la donnina, alzandosi in piedi.

    Sangermano l’accompagnò alla porta, salutandola con un leggero bacio sulla fronte. Nel corridoio non c’era più nessuno ma lui doveva lo stesso rispettare gli orari d’apertura del turno settimanale.

    Pensò a tutto quello che doveva passare ogni giorno quella povera donna, con quel deficiente di figlio così impicciato con la droga.

    E pensò anche a quante povere donne come lei c’erano in giro, quanti genitori che ogni giorno soffrivano per lo

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