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Tonni matematici e balene metafisiche: I filosofi e gli animali
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Tonni matematici e balene metafisiche: I filosofi e gli animali
E-book220 pagine3 ore

Tonni matematici e balene metafisiche: I filosofi e gli animali

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Info su questo ebook

Il volume studia il rapporto tra l'uomo e il mondo animale da vari punti di vista, tutti connessi all'analisi filosofica della realtà.

Das E-Book Tonni matematici e balene metafisiche wird angeboten von Diogene Multimedia und wurde mit folgenden Begriffen kategorisiert:
animali
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2016
ISBN9788893630139
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    Tonni matematici e balene metafisiche - Giuseppe Pulina

    Giuseppe Pulina

    TONNI MATEMATICI E BALENE METAFISICHE

    I filosofi e gli animali

    Copertina: Jimmy Knows S.C.P., Barcelona (ES)

    Impaginazione: Stefano Savella

    eBook by ePubMATIC.com

    ISBN 978-88-93630-13-9

    © Diogene Multimedia

    Via Marconi 36, 40122 Bologna

    Prima edizione: febbraio 2016

    INDICE

    INTRODUZIONE

    DI TERRA E DI MARE…

    1. I cani di Sophia

    2. Il cane filantropo di Miguel de Unamuno

    3. Mai dire gatto…

    4. Martinetti: l’imperscrutabile dolcezza dei gatti

    5. Sguardi scimmieschi

    6. Rousseau e l’orangotango

    7. Asini e profeti

    8. Al lupo, al lupo!

    9. Un lupo nel salotto

    10. Serpentinamente

    11. Il mito di Melampo

    12. Per un’etica del pachiderma

    13. Leggero come un elefante

    14. Suina abiezione

    15. Cosmiche tartarughe

    16. Animali e paradossi

    17. Nella rete dei filosofi

    18. Giona e la balena

    DI CIELO E DI FUOCO…

    1. L’oscuroveggenza delle civette

    2. L’ornitologia del santo filosofo

    3. L’industriosità delle api

    4. Mandeville e il favoloso mondo delle api

    5. Il canto dell’usignolo

    6. About Simurgh

    7. Nel Paese-del-non-dove

    8. Il nibbio di Leonardo

    9. L’ultimo canto

    10. Ascendere

    11. Equine combinazioni

    12. Un giorno da farfalle

    13. Il coltivatore di ortiche

    14. Il grande potere degli insetti

    15. L’acaro di Pascal

    16. Del sogno animale

    17. Aristotele: sognano i cani e russano i delfini

    18. Sulle tracce del pantamorfo

    19. L’enigma della sfinge

    Appendice. Esercizi zoofilosofici

    Riferimenti bibliografici

    INTRODUZIONE

    C’è un modo per avvicinarsi alla filosofia, farne la prima scoperta e studiarla che ci piacerebbe raccomandare al lettore. Consiste nell’individuazione di un’idea guida, più precisamente, di un tema, attraverso il quale fare la spola tra pensatori e filosofie di tempi diversi. Non è un tema come tanti, anche se nella stessa filosofia non sembra avere sempre avuto il rilievo che in realtà meriterebbe. Parliamo degli animali o, se si vuole, dell’idea che filosofi di epoche differenti si sono fatti del mondo naturale e dell’animalità. Si tratta, per chi vuole esplorare con profitto la filosofia, di un campo tematico fertile e stimolante come pochi altri. Per farci un’idea della sua utilità proviamo a proporre un esempio che potrebbe richiamare a più di un lettore i tempi passati del liceo e dei primi approcci alla filosofia.

    L’esempio in questione riguarda Aristotele, del quale, subito dopo essersi congedati dalle teorie dell’ultimo Platone, può risultare di grande utilità studiare almeno per sommi tratti la biografia. Attraverso il racconto degli anni giovanili di Aristotele si può cogliere una delle prime e delle più significative differenze con Platone, che ne è stato per venti anni il maestro all’Accademia. Figlio di un medico ben introdotto nella corte del re macedone Aminta, Aristotele visse in un ambiente famigliare che si può facilmente immaginare simile ad un grande laboratorio. È la suggestione di una particolare atmosfera formativa che si può ricavare dalla lettura degli scritti di biologia, con i quali viene dimostrata una perizia rara e straordinaria nella conoscenza di questioni attinenti il campo della medicina, dell’anatomia, della zoologia e dell’etologia. La mole e la ricchezza di questi studi fanno capire quanto importante debba essere stata per Aristotele, sin dagli anni della sua prima formazione, la conoscenza dei fenomeni naturali e quanto possa essere stato determinante l’imprinting ricevuto da un padre che esercitava la medicina per professione, la cui casa doveva essere anche un ambiente di lavoro e ricerca.

    La sua prima vera formazione didattica deve essere stata perciò ricevuta da Aristotele in un ambiente simile ad un piccolo serraglio o, se l’immagine sembra eccessiva, ad una ben attrezzata fattoria didattica, dove tra galline, capponi e tacchini potevano transitare anche esemplari di rettili, volatili e quadrupedi. Nella filosofia di Aristotele gli animali diventano oggetto di una scrupolosa analisi scientifica, entrando nell’orbita di osservazione dell’indagine razionale. Vi entrano però per una ragione ben precisa: quante più cose si vengono a sapere sul loro conto, tanto più se ne potrà avvantaggiare la conoscenza dell’uomo. Anche per Aristotele poteva in fin dei conti valere il principio secondo il quale l’animale può essere una buona occasione per esercitare fruttuosamente il pensiero.

    Sarà difficile riscontrare nelle filosofie successive lo stesso rilievo che gli animali hanno avuto negli scritti naturalistici di Aristotele, ma, come si tenterà di dimostrare nelle pagine che seguono, non c’è stato filosofo o filosofia che non abbiano incrociato lungo il loro percorso la figura di un animale. Di rado, però, quest’incontro ha prodotto quegli effetti di cui oggi lamentiamo il ritardo o, peggio ancora, la mancanza. Anche nella filosofia che si occupa della questione animale, e non solo quindi nella riflessione ecologica, sono forti il rimpianto e la denuncia per un mondo che non può essere più quello di prima. L’arca di Noè fa acqua da più parti, e l’ecologia – come non si stanca di ricordarci Morin – è diventata la scienza madre del nostro tempo, perché, come piloti di un jet in avaria, abbiamo un disperato bisogno di prendere in mano il controllo della situazione e, ammesso che ciò sia ancora possibile, salvare il salvabile.¹ Quando i filosofi ci provano (e ammettiamo di vederli sempre più impegnati in questo tipo di operazione), la fatica e la laboriosità dei tentativi messi in atto risultano evidenti. Nessun atterraggio sicuro sarà possibile e tanto meno nessun paradiso perduto potrà schiudersi ai loro e ai nostri occhi per attutire i colpi dell’inarrestabile caduta. E così, quanto più cresce la consapevolezza degli errori compiuti, tanto più penosa diventa l’ammissione delle responsabilità, facendo crescere nello stesso tempo il senso dell’urgenza di una riparazione dovuta.

    Lungo questa frustrante direzione si situa anche il nostro tentativo di mettere a fuoco alcune forme dell’animalità, così come sono state percepite e pensate in filosofia.² Diciamo forme, usiamo il plurale, ma pensiamo al singolare. L’animalità è una, anche se varie e molteplici possono essere le sue espressioni. Pensando l’animale e incorporandolo nel testo delle sue narrazioni, la filosofia ha dato rassicuranti garanzie sul modo in cui l’animale può essere evocato nel pensiero, soddisfacendo quello che si può considerare un vezzo della nostra condizione postmoderna.³ La trasformazione dell’animale in concetto o in metafora filosofica, compresa anche la sua terrificante trasfigurazione in bestia pericolosa, equivale però ad una sorta di sterilizzazione dell’animalità.⁴ È in questo modo che la foresta si è fatta zoo, e lo zoo, attraverso ulteriori forme di addomesticamento, fattoria. Vale a dire che, trasformato in oggetto del pensiero, l’animale viene inevitabilmente a perdere la sua animalità, essendo il pensiero la forma più elevata ed efficace in cui si esplicherebbe la razionalità umana. È attraverso l’esercizio chiarificatore del pensiero che l’umanità platonica si è congedata dalla caverna e che l’uomo copernicano di Cartesio e Kant (l’uomo che, pur piacendoci sempre meno, continuiamo a essere) ha preso definitivamente possesso del mondo. In questo mondo, sottoposto al copyright dell’animale-uomo, tutto il resto è diventato contestuale, subalterno, marginale, e l’antropocentrismo non fa più mistero ormai nemmeno delle sue più tronfie manifestazioni. Il cacciatore di frodo, spesso un ricco professionista occidentale alla ricerca di esotiche avventure, che mostra orgoglioso nella foto il cadavere di uno dei pochi leoni che ancora sopravvivono nella savana, è solo una delle tante possibili, squallide e deprimenti immagini dell’autocelebrazione di un malinteso potere umano su tutto ciò che è vivo ma umano non è.

    In questo libro – sarà ormai chiaro – si parlerà di animali e del modo in cui vengono chiamati in causa dai filosofi. L’animale pensato è un’entità astratta, un prototipo, e l’animalità, concepita come la quintessenza di tutto ciò che è vivo e non è umano, appare come il più impalpabile degli algoritmi. Bizzarra congettura, si dirà, considerato che ciò che più si teme in generale degli animali è semmai la loro materialità, il loro essere carne, squame, osso, forza, movimento, istinto. Ma che cosa sappiamo, in definitiva, degli animali? Quanto realmente vogliamo sforzarci per conoscerli? Forse tutti i nostri tentativi sono da considerare inconfessabilmente ipocriti e le nostre intenzioni meno nobili di quanto si possa credere. Un primo passo verso una riconsiderazione della questione animale può essere perciò il riconoscimento delle nostre non dichiarate paure. «Perché» – come ha sostenuto Cimatti – «gli animali ci spaventano, proprio perché non sappiamo mai bene dove stanno, cosa gli passa per la testa, che cosa desiderano, che cosa vogliono. Per questo tutti, soprattutto quelli che dicono di amarli, non fanno che dirci che gli animali pensano, parlano, sognano, proprio come noi. Loro non hanno dubbi, su quel che pensano gli animali. Sarebbe la fine, se ammettessero che non ne sanno nulla, dei sogni del gatto, o delle speranze del cane, o degli incubi del topo. Che ne sarebbe di noi, se ammettessimo che, degli animali, non sappiamo niente, ma proprio niente? Come faremmo a dire che sono i nostri migliori amici, se non presumessimo di sapere tutto di loro?»⁵ Non diciamolo allora e proviamo a farcene una ragione. Proviamo cioè a capire che cosa i filosofi possono avere visto nell’animalità, a prescindere da quella che potrebbe essere la loro maggiore o minore sensibilità nei riguardi della cosiddetta (ma quanto sarà poi giusto definirla così?) questione animale.

    Agli animali viene in effetti attribuita la capacità di esprimere un mondo ricco di simboli. Api, cani, cavalli e gatti proiettano con le loro esistenze un’immagine nella quale all’uomo viene facile riflettersi e riconoscersi. L’animale costruisce mondi (non solo simbolici, riteniamo) e sa anche insegnare, cioè indicare, una via: scimmie, maiali, elefanti e pesci possono istruire l’uomo in più campi. La definizione heideggeriana dell’animale come weltarm, povero di mondo, sembrerebbe pertanto lontana da questa prospettiva, anche se, come fa presente Agamben, dire che l’animale è affetto da una simile forma di penuria non significa ammettere la sua totale estraneità al mondo. Anzi, questa definizione, segnando un confine tra l’umano e l’animale, determinerebbe la possibilità di una residuale contiguità, e così più che di un confine vero e proprio, si dovrebbe parlare di soglia. «L’animale – scrive Agamben – non è semplicemente privo di mondo perché, in quanto è aperto nello stordimento, deve – a differenza della pietra, priva di mondo – farne a meno, mancare (entbehren), può cioè essere determinato nel suo essere da una povertà e da una mancanza».⁶ Heidegger non dice ovviamente se gli animali lamentino questa loro condizione e rivendichino una maggiore porzione di mondo per sentirsi, per così dire, meno poveri. Lo sguardo con il quale vengono osservati sembra avere poco della filosofica curiosità che spingeva Montaigne e Derrida ad interrogarsi sui gesti dei loro gatti domestici. Per dirla con Derrida, Heidegger vede l’animale, ma non si vede a sua volta visto da questo. La sua visione dell’animalità risulterebbe unidirezionale e autoreferenziale. Cieca per Derrida, miope, forse, per Agamben.

    Una contiguità, che può essere fisica e simbolica, tra uomo e animali, è stata teorizzata, a suo modo, anche da Joseph De Maistre, secondo il quale, attraverso la guerra, procedendo «dall’animaletto quasi invisibile fino all’uomo», si compirebbe «la grande legge dell’annientamento violento degli esseri viventi».⁷ Per De Maistre, «non c’è un solo istante in cui un essere vivente non sia divorato da un altro. Al di sopra di queste razze animali è posto l’uomo, la cui mano distruttrice non risparmia niente di ciò che vive; egli uccide per nutrirsi, uccide per vestirsi, uccide per ornarsi, uccide per attaccare, uccide per difendersi, uccide per istruirsi e anche per divertirsi, uccide per uccidere: sovrano superbo e terribile, egli ha bisogno di tutto e nulla gli resiste; egli sa quanti barili d’olio gli fornirà la testa del pescecane e del capodoglio».⁸ Poco interessa stabilire che cosa di giustificabile potesse esserci per De Maistre nella guerra e nella furia distruttrice dell’uomo. Il punto è un altro. Così come credeva nella netta superiorità di alcuni valori rispetto ad altri (la tradizione contro il progresso; il Medioevo contro la modernità; i vecchi regimi politici contro le novità introdotte dallo spirito rivoluzionario francese), il reazionario De Maistre ritiene che tra uomo e animale ci sia una differenza abissale e che questa, data la sua enormità, giustifichi l’uso (non solo di natura alimentare) che il primo fa del secondo. Nessuna contiguità sembrerebbe allora esserci, e se mai parentela c’è stata, questa è stata definitivamente ripudiata dall’uomo, animale che ha dichiarato guerra all’animalità. E dire che c’è stato un giorno in cui l’uomo ha creduto di essere affine e simile al resto degli altri animali più di quanto, in tempi di conclamato darwinismo, lo creda oggi.

    Se nel racconto biblico della creazione gli animali precedono in ordine di apparizione l’uomo (prima i grandi animali acquatici, poi gli uccelli, i rettili e quindi l’uomo),⁹ nella tradizione greca, che collega mito e filosofia, uomini e animali sono entrati nella storia del mondo gli uni accanto agli altri. Nel mito platonico di Epimeteo e Prometeo tutti gli animali, compreso l’uomo, ricevono i caratteri della specie dalle divinità. L’uomo avrebbe ricevuto da Prometeo quanto Epimeteo, incauto e sprovveduto, si era scordato di attribuirgli. La sua differenza, ciò che lo qualifica e rende diverso rispetto agli altri animali, è il dono del fuoco che riceve da Prometeo.¹⁰ Il fuoco è l’elemento forgiatore per eccellenza e, grazie a questo, l’uomo prometeico inventa la tecnica necessaria per rendere meno inospitale la natura e difendersi dalle fiere.¹¹ Per salvare l’uomo dall’autodistruzione – racconta la versione platonica del mito – dovrà però intervenire lo stesso Zeus, che, attraverso Hermes, distribuirà agli umani le virtù della vita sociale, pudore (αιδώς) e giustizia (δίχη), primo passo verso la costituzione di complesse organizzazioni politiche. Uomini e «animali non umani», per usare un’espressione di Nozick,¹² irrompono così, nello stesso tempo, nella scena del mondo. All’animalità di cui è stato originariamente dotato, l’uomo del mito platonico può sommare le concessioni fattegli dagli dei. È grazie alla loro benevolenza (concetto abbastanza estraneo al sentimento religioso degli antichi greci) che gli uomini si sarebbero differenziati dagli animali.

    Nel pensiero cristiano medievale questa differenza assumerà un significato più marcatamente gerarchico. La vicenda della creazione sarà interpretata alla luce di una mutata percezione dell’uomo e del suo ruolo nel mondo. La licenza di abitare il mondo accordatagli dal dio che lo ha generato diventa per l’uomo una patente di dominio sulla natura e, quindi, sugli stessi animali. La parentela viene ripudiata e il ricordo di una comune origine è sottoposto a un processo di radicale rimozione. Sembra quasi che, consentendo il salvataggio degli animali dal diluvio universale, Noè ne abbia preteso la totale prostrazione all’uomo. Motivo, questo, che spiega perché il pensiero animalista si sia spesso dimostrato particolarmente severo nei riguardi delle religioni bibliche.¹³ Ovviamente non si può fare di un’erba un fascio e ridurre sotto la comune (e, in questo caso, decisamente antistorica) etichetta di pensatori antianimalisti tutti i filosofi del Medioevo cristiano. Le eccezioni, per quanto non numerosissime, non sono mancate, e a queste si può ricondurre la posizione di Max Scheler che ci ha ricordato che l’uomo «non si è affatto evoluto dal mondo animale, ma è stato animale, è animale e resterà sempre animale».¹⁴ Parole che sarà bene tenere presenti sino all’ultima pagina.

    In questo libro, che riprende, aggiornandoli e integrandoli, i contenuti di un precedente lavoro,¹⁵ si farà il punto su una serie di avvistamenti filosofici dell’animalità. Proveremo a chiederci che cosa siano riusciti a vedere dell’animale i filosofi che ne hanno fatto menzione nelle loro teorie; ne saggeremo le intenzioni per stabilire quanto aleatorio o

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