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L'insostenibile tenerezza del gatto
L'insostenibile tenerezza del gatto
L'insostenibile tenerezza del gatto
E-book377 pagine5 ore

L'insostenibile tenerezza del gatto

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Info su questo ebook

Per una relazione serena, sana e appagante con il proprio compagno di vita a quattro zampe

La relazione è dialogo. E un dialogo autentico presuppone la capacità di comunicare ma anche e soprattutto quella di ascoltare l’altro. Ma cosa significa dialogare con un gatto e ascoltarlo? Quali sono gli elementi che determinano il carattere di un micio durante la crescita? Cosa definisce la maggiore o minore socievolezza nei confronti degli umani di casa e come si forma un carattere amabile? La relazione con il gatto è un’intesa privata, emozionale, semplice, ma va costruita. La relazione con l’amico più intimo e solidale che si possa pensare di avere è una dimensione personale da cui ognuno può decidere di partire per scoprire nuove cose del mondo, sapendo che l’altro è pronto ad accoglierlo al ritorno.

Fra i temi trattati nel libro:

• Gatti in un mondo di (troppi) uomini

• A scuola da mamma gatta

• La Terra vista dal gatto

• Capirti per conoscerci

Sonia Campa

è diplomata al Master in Etologia degli animali d’affezione dell’Università di Pisa. È docente, referente e membro del comitato scientifico della Scuola di Interazione Uomo-Animale, ha tenuto corsi per operatori sul territorio nazionale, promuove attività di interesse scientifico e culturale, offre consulenze private in ambito relazionale per compagni umani di cani e gatti. È spesso ospite radiofonica e televisiva come esperta della materia.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2014
ISBN9788854170506
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    Anteprima del libro

    L'insostenibile tenerezza del gatto - Sonia Campa

    Capitolo 1

    Evoluzione di un legame

    Io non conosco il gatto. So tutto sulla vita

    e i suoi misteri ma non sono mai

    riuscito a decifrare il gatto.

    PABLO NERUDA

    «Mi raccomando, appena sollevo il telo sii veloce e afferra il primo che vedi perché sono un po’ selvatichini, scappano e non li prendiamo più».

    Quel giorno mio padre aveva fatto una sorpresa alla sua bambina schiva e introversa. Preoccupato che non riuscissi a superare le difficoltà di integrazione nel paese in cui da due anni eravamo andati a vivere, era riuscito a convincere mia madre a farmi adottare un gattino. Aveva scoperto che nella casa di campagna di suo fratello una gatta aveva partorito dei piccoli e che mio zio avrebbe voluto darli in adozione.

    Arrivammo in tarda mattinata: nelle mie mani da bambina di dieci anni stringevo emozionata una culla per bambole, l’unica cosa che mi era venuta in mente di utilizzare a mo’ di trasportino quando mio padre mi annunciò improvvisamente che saremmo partiti per quella strabiliante avventura. Conoscevo i gatti, sin dai primi anni dell’infanzia non perdevo occasione per relazionarmici, mi avevano sempre incuriosita con i loro lunghi baffi, la loro divertente vivacità e quegli occhioni pieni di amicizia e ora, finalmente, stavo per averne uno tutto mio.

    Io e mio padre ci avvicinammo silenziosamente al sacco di iuta sotto il quale lui sapeva che mamma gatta aveva eletto la sua tana. «Pronta?». Fu un attimo, appena sollevò il telo, come tanti piccoli petardi, quattro pallette di pelo iniziarono a fuggire in tutte le direzioni, alla disperata ricerca del primo pertugio disponibile. Mentre mio padre cercava di bloccarne uno, il mio sguardo fu attratto da un micetto tutto tigrato, lo afferrai e quello iniziò a dimenarsi, a graffiare e a soffiare come una piccola anguilla pelosa. Non lo mollai, cercai di tenerlo con me in attesa che si calmasse: in qualche modo sapevo che quella piccola granata fra le mie mani aveva bisogno del suo tempo per capire che non rappresentavo un pericolo.

    «Brava!», esclamò mio padre. «Sei stata velocissima ad acchiapparlo, io non ci sarei riuscito». Forse mentiva, ci sarebbe riuscito anche lui. Ma le sue parole mi riempirono d’orgoglio, mi fecero sentire speciale, una bimba con poteri magici in grado di parlare con i gatti una lingua segreta, nota solo a me e ai miei amici baffuti.

    Ci avviammo verso la macchina e, ancora incredula all’idea di portare un gattino a casa, lo adagiai nella culla e notai che, sebbene non soffiasse più, sembrava molto impaurito. «Come lo chiamerai?», mi chiese mio padre sulla via del ritorno. Guardai la palletta di pelo tra le mie mani che ogni tanto provava a lanciare un incerto richiamo diretto a nessuno: era simpatico, aveva due grossi occhioni che spuntavano da una testolina a pelo raso ed enormi orecchie. Ci voleva un nome buffo, come lui: «Lo chiamerò Pippo! Ha proprio la faccia da Pippo!».

    Negli ultimi anni mi sono ritrovata spesso a riflettere su questo episodio della mia infanzia che, seppur minimale nei fatti, ha rappresentato una tappa fondamentale della mia crescita e persino del rapporto con mio padre.

    Analizzandolo alla luce degli strumenti sempre nuovi che lo studio della zooantropologia mi concedeva, mi sono resa conto che racchiude in sé molte dimensioni diverse della relazione uomo-gatto. L’aneddoto ci dice qualcosa della convivenza tra animali e bambini ma ci parla anche della relazione genitore-figlio mediata dall’animale, offre una fotografia di un contesto socio-ambientale in cui il gatto è inserito e del modo in cui la sua presenza viene interpretata, suggerisce coordinate di interazioni umane ma apre anche a una discussione relativa al ruolo ecologico che il gatto assume o assumeva in certi territori. Un evento semplice, quasi banale, come l’adozione di un micetto acciuffato di sottecchi da una cucciolata nata in un contesto rurale, analizzato con gli appropriati strumenti della conoscenza zooantropologica, può aprire mille, insospettabili dimensioni.

    La relazione come oggetto di studio

    Molti miei conoscenti reagiscono con scetticismo e con una vaga punta di ilarità sapendo che mi occupo di gatti e di comprendere la relazione che l’uomo instaura con essi. La maggior parte di loro mi considera un’animalista, una gattara, una patita impenitente che (giudizio sovente espresso verso qualunque donna senza figli vagamente interessata ai gatti) probabilmente sfoga in questo modo una mancata maternità. Da osservatrice dei fenomeni sociali che ruotano attorno alla relazione con gli animali, non posso negare di essere incuriosita dai motivi che provocano la maturazione di associazioni simili perché, ancora una volta, essi rivelano aspetti per me interessanti su come le persone percepiscono i gatti e il rapporto della nostra specie con essi.

    Spiegare perché è importante comprendere la relazione uomo-animale a uno scettico non è mai impresa facile, perché non è liquidabile come un mero interesse personale, una passione e tanto meno un hobby culturale da fine settimana. Al contrario, come spero di riuscire a dimostrare nelle prossime pagine, ritengo che la relazione che l’uomo instaura con i gatti sia uno specchio di quel che siamo, come individui e come società. Non solo, sono convinta che per comprendere la relazione uomo-gatto sia assolutamente necessario guardare oltre le dinamiche che coinvolgono queste due specie: con il tempo ho capito quanto fosse importante abbracciare una visione più ampia e complessiva del modo in cui, nel corso dei millenni, l’essere umano si è relazionato con gli altri esseri viventi per arrivare poi a interrogarsi sul legame con il gatto come caso particolare.

    Ecco allora che lo studio della relazione uomo-animale nelle sue tante dimensioni diventa un viaggio irrinunciabile verso noi stessi, sia come collettività sia come singoli.

    Ma cosa si intende esattamente per relazione? Ammetto di provare sempre un po’ di disagio nell’utilizzare con leggerezza questa parola perché sono consapevole del fatto che essa assume un significato diverso a seconda dell’interlocutore con cui sto parlando, per cui i fraintendimenti sono sempre a portata di mano.

    Per alcuni, la relazione con un animale si esprime con il possesso: sono in relazione con il mio cane, con il mio gatto perché ci vivo, perché lo conosco, perché mi prendo cura di lui e lo porto dal veterinario quando sta male. Per altri il concetto di relazione ha più a che fare con l’affettività e con lo scambio di sentimenti ed emozioni generate dalla vicinanza fisica: in questo senso, si può essere in relazione con un animale più che con un altro, pur vivendo sotto lo stesso tetto, perché si avverte più comunanza, più affinità, più sintonia. Per altri ancora, relazione è sinonimo di cura e di contatto per cui essa si manifesta soprattutto nella protezione, nella tutela dell’incolumità dell’altro, nel soddisfacimento di una serie di parametri di benessere quali abbondanza di cibo, disponibilità di un tetto, protezione dagli agenti atmosferici, coccole. E non manca chi al termine relazione assegna un amalgama di tutte queste componenti.

    In tutti gli esempi che ho riportato, è evidente che la parola richiama un’esperienza personale, un punto di vista soggettivo rispetto al proprio posizionamento nei confronti dell’animale.

    Ridursi a queste visioni sarebbe, tuttavia, estremamente limitante.

    La relazione che l’uomo ha instaurato con gli animali nel corso della sua evoluzione è talmente ricca di contenuti e di sviluppi da richiamare intere aree di studio in moltissime discipline. L’antropologia, la scienza che studia il significato che l’uomo attribuisce ai propri comportamenti, si è fatta zooantropologia nel momento in cui si è dato valore ai contributi portati alla nostra storia dalla coesistenza con gli animali. E viceversa.

    In altre parole, quando si parla di relazione uomo-animale, ci si riferisce a un vastissimo orizzonte di cambiamenti che l’interazione tra le specie ha prodotto, sia lungo la storia evolutiva di ciascuna, sia nell’esperienza personale di ogni singolo individuo coinvolto. Ecco allora che antropologia, storia, neuroscienze, biologia, etologia, psicologia, filosofia sono solo alcune delle discipline che, nel loro insieme e ciascuna secondo le proprie specializzazioni, contribuiscono a definire il complesso quadro di contributi che uomo e animale si sono scambiati e si scambiano, influenzandosi e modificandosi vicendevolmente.

    Questo stesso libro vuole essere un testimone di come l’argomento relazione con il gatto possa aprire a tante tematiche diverse: come si vedrà, per comprendere a pieno il comportamento del gatto che fuseggia soddisfatto sul nostro grembo e il nostro modo di relazionarci con lui, sarà fondamentale capire quali sono le influenze culturali che ci portano a interpretare la sua presenza nelle nostre vite in certi modi piuttosto che in altri. Ma le influenze culturali sono il risultato della nostra storia evolutiva, sia da un punto di vista biologico, sia da un punto di vista sociale. Dunque, sarà importante capire chi siamo stati nel passato e chi siamo oggi. Come si è evoluta la nostra società e quali sono i valori su cui si basa. Questo passaggio sarà fondamentale per acquisire consapevolezza dell’approccio che tendiamo a esibire nei confronti della specie gatto e di tutte le problematiche di convivenza che ne scaturiscono al giorno d’oggi e con le caratteristiche del mondo di oggi, mondo che saremo chiamati a conoscere e ad analizzare.

    Una volta inquadrati gli schemi mentali entro cui tendiamo a muoverci come società e come individui, poi, impararemo che all’interno della relazione con il gatto esprimiamo singolarmente comportamenti attinenti a caratteristiche della nostra specie, attitudini e tendenze che la psicologia ha descritto molto bene nelle interazioni tra umani e che ha dei richiami evidenti anche nelle interazioni con gli animali. Diventeremo consapevoli che il nostro mondo interno, fatto di aspettative, di credenze, di desideri perseguiti dentro e attraverso la relazione, si incontra-scontra con il mondo interno dell’animale, fatto di aspettative, di credenze, di desideri perseguiti dentro e attraverso la relazione. Impararemo a esplorare la soggettività animale, il suo punto di vista personale sulla realtà, capiremo che esso può essere estremamente diverso dal nostro e, sorprendentemente, potremmo persino scoprire quanto sia difficile non solo ammettere, ma persino accettare che la loro prospettiva sulle cose sia in antitesi o semplicemente alternativa alla nostra. In definitiva, realizzeremo che ciò che lega uomo e animale è uno scambio continuo di contributi esistenziali che cambiano l’uno e cambiano l’altro in maniera unica e irripetibile. E impareremo che gli animali sono importanti, da conoscere, da studiare, da amare non tanto perché ci amano incondizionatamente e non ci giudicano, come celebra un punto di vista antropocentrico parziale e auto-riferito, quanto perché partecipano attivamente e con piena titolarità a questa incredibile avventura che è la vita e possono farlo accanto a noi, insegnandoci al contempo chi siamo e dove stiamo andando.

    Un campo che vorrei sgomberare da subito è la confusione concettuale tra relazione e interazione. O, quanto meno, vorrei chiarire in che modo questi due termini saranno utilizzati all’interno di questo libro, non considerandoli io dei sinonimi.

    La parola interazione richiama il complesso di dinamiche che si possono manifestare nell’interagire con un animale. In questi termini, per me l’interazione è un fenomeno puntuale, che vede coinvolti due attori (l’uomo e l’animale) i quali, agendo, si influenzano l’uno con l’altro. Da questo punto di vista, interazione è anche quella del veterinario che manipola il suo assistito allo scopo di visitarlo; interazione è l’imbeccamento di un pollo alimentato artificialmente o la carezza insistente a un gatto che risponde menando zampate d’irritazione. In tutti questi casi di dinamiche puntuali, descrittive, occasionali, non parlerei di relazione quanto di interazione diretta, cioè di un complesso di comportamenti e di risposte dovute all’occasionalità dell’evento partecipato.

    La relazione è un fenomeno più articolato, più complesso e spalmato nel tempo e nello spazio, è co-evoluzione tra due soggettività e si alimenta non solo dell’occasionalità degli eventi che si verificano nel momento interattivo, ma anche della storia biografica ed etografica degli individui coinvolti. In una relazione non è importante quanto o come due individui entrano in contatto o cosa succede mentre lo fanno. Il contatto può non essere nemmeno contemplato. In una relazione emergono i cambiamenti reciproci, le consapevolezze che maturano grazie all’assunzione del valore dell’altro, è un viaggio profondo dentro se stessi fatto attraverso l’ascolto e l’accoglienza del diverso da me. Ben la caratterizza lo psicologo britannico John Bowlby nel suo libro Una base sicura: egli la descrive come l’unificazione delle mete di due individui, ciascuno dei quali è consapevole del punto di vista dell’altro e dei sentimenti dell’altro, che è possibile solo all’interno di una comunicazione libera e se ciascuno è titolare di un modello ragionevolmente accurato del sé e dell’altro.

    In questi termini, un’interazione di per sé difficilmente potrà rivelare qualcosa sull’esistenza o sulla qualità di una relazione. Accarezzare ogni cane o gatto che si incontri per strada, prendersi cura di soggetti feriti, passeggiare con un cane al guinzaglio o in generale manifestare momenti interattivi coinvolgendo gli animali, non necessariamente rivela in che modo una persona entra in relazione con loro, quali sono i contributi biografici che mette a disposizione dell’altro, cosa rivela di sé, cosa fa emergere e cosa accoglie dell’altro, ovvero quale spazio lascia a disposizione per la comunicazione libera della personalità altrui. È vero il contrario, però: una relazione autentica si alimenta della cura che la persona ripone in ogni singola interazione, perché ogni interazione diventa momento di scambio e di crescita, non di semplice trasferimento di informazione. In una relazione, ogni momento interattivo (la carezza, la passaggiata al guinzaglio, una medicazione) sono sempre preceduti da una fase intensa di ascolto e di comunicazione con l’altro.

    In quest’ottica, dunque, la relazione è soprattutto un dialogo tra due individui, ciascuno dei quali riconosce il valore dell’altro e si rende disponibile e aperto a farsi cambiare giacché l’altro restituisce, come uno specchio, un’immagine di chi si è ma anche di chi si potrebbe diventare. La relazione, se autentica, aperta e partecipata può diventare il teatro per una vita condivisa e appagante, ovvero per la libertà di ciascuno di evolversi come individuo, di fare le esperienze e di avere le opportunità che gli consentano di realizzare totalmente il proprio progetto identitario, così come previsto per la specie di appartenenza e per la sua singolare e irripetibile biografia, in modo da essere perfettamente corrispondente con il contesto socio-ambientale in cui è inserito e con il suo mondo interiore. Un individuo è appagato se vive una vita perfettamente aderente alle sue caratteristiche etografiche, alle sue aspettative e ai bisogni soggettivi, ovvero se può andare in libertà nel mondo e se può evolversi, anche e soprattutto attraverso i contributi forniti dall’altro all’interno della relazione.

    Cosa diamo di noi nel rapportarci con gli altri e cosa ne riceviamo dipende, dunque, da chi siamo come individui e come membri di un complesso di dinamiche e di interazioni che chiamiamo società. Come agiamo, quali scelte siamo portati a fare, le cose in cui crediamo, sono tutti elementi che entrano a far parte dei contributi messi in campo da ciascuno in un contesto relazionale. Di fronte a un cane o a un gatto, l’amante degli animali si comporterà necessariamente in maniera diversa rispetto a chi non ha alcun interesse per questo tipo di interazione. Tuttavia, la varietà dei nostri comportamenti non è semplicemente questione di preferenze personali o di sensibilità specifiche. Chi siamo e ciò che manifestiamo quotidianamente è anche il frutto delle influenze culturali che subiamo o che abbiamo subito, sia come individui, ciascuno secondo la propria biografia, sia come collettività, sia come specie.

    Per spiegare questo fenomeno, basti pensare alle enormi differenze percettive esistenti a livello mondiale rispetto all’immagine del gatto nero. In Italia è da sempre considerato un simbolo di malasorte e ancora oggi molte persone tendono a proferire scongiuri incontrandone uno sulla propria strada. In Inghilterra, distante da noi solo poche migliaia di chilometri, il gatto nero è simbolo di buona sorte e prosperità. Non è che gli inglesi siano più intelligenti o più fortunati di noi: il modo in cui la loro cultura nazionale si è sviluppata ha evidentemente portato a una tradizione orale che celebrava in termini positivi i gatti di questo colore. I latini sono fortemente condizionati da una cultura classica (oltre che cattolica), che già prima del Medioevo aveva identificato i gatti neri con le tenebre e il diavolo.

    In alcuni paesi asiatici, alimentarsi di insetti o persino di cani è considerato normale, mentre qualunque europeo rabbrividirebbe alla sola ipotesi. Di contro, per la nostra cultura è ritenuto accettabile consumare carne di mucca mentre, come è ben noto, il bovino è considerato animale sacro e intoccabile nelle aree indiane del mondo.

    Non solo chi siamo ma anche ciò che riteniamo giusto è fortemente condizionato dalla cultura all’interno della quale siamo inseriti. Alcune informazioni, alcuni stili di vita e, quindi, di relazione con l’altro, ci giungono in maniera primitiva sin dalla primissima infanzia e diventano parte della nostra identità senza che l’ambiente circostante ci stimoli mai a metterli in discussione o ipotizzare che possano esserci interpretazioni diverse della stessa realtà. Tradizioni, usi, costumi, credenze, proprio perché costantemente richiamate e confermate dalla loro condivisione all’interno di un vivere sociale, entrano a far parte delle sicurezze più stabili della nostra idea di mondo. È proprio da questa rigidità, uscire dalla quale significa abbandonare la propria zona di comfort, che nascono gli scontri tra culture.

    Il risultato di tutto questo è che anche il modo in cui ognuno di noi – nella propria quotidianità – si relaziona con gli animali in generale e con il gatto in particolare, è il risultato di un complesso di influenze socio-ambientali che subiamo sin dalla nascita. Di alcune siamo più consapevoli, ma in nessun caso è possibile pensare di essere autarchici nell’interesse (o meno) che esprimiano nei confronti della relazione con l’animale. Persino il neonato di pochi giorni, senza saperlo, porta addosso a sé un’eredità di potenziali credenze, superstizioni, modali relazionali e rappresentazioni mentali che dipendono dal sol fatto di essere nato in un’area del mondo piuttosto che in un’altra. Persino il periodo storico può fare la differenza, a parità di localizzazione geografica.

    L’obiettivo di questo capitolo è quello di fare una panoramica del vastissimo orizzonte socio-culturale e ambientale che può influire nella nostra percezione di chi siano gli animali, a partire proprio da questa dicotomia umano vs animale tanto ovvia eppure già indicativa del più grande condizionamento culturale in cui tutti siamo immersi: l’antropocentrismo.

    A partire da L’origine delle specie di Charles Darwin, la scienza ci ha spiegato come l’uomo sia, al pari di tutti gli altri animali, il risultato di un processo evolutivo e selettivo che ha riguardato tutte le specie sul nostro pianeta; ricercatori e scienziati odierni continuano a raccogliere conferme di questa rivoluzionaria ipotesi rivelandoci come uomini e animali condividano molte strutture biologiche e, persino, intere aree del cervello. In altre parole, Homo sapiens è una specie animale come le altre, solo diversamente evoluta e diversamente specializzata, esattamente come lo sono le altre, ciascuna secondo le proprie peculiarità. Per secoli prima e dopo Darwin, tuttavia, l’uomo si è considerato la punta dell’evoluzione, la creatura più intelligente e, di conseguenza, quella attorno alla quale tutto ruotava, l’unità di misura per eccellenza dell’evoluzione e dell’intelligenza. Questa distanza riecheggia anche nelle parole d’uso comune: umano ed essere umano sono espressioni che definiscono la nostra specie e si contrappongono ad animali, un enorme cappello sotto il quale, non senza presunzione, racchiudiamo tutta l’enorme diversità del regno animale. E dire che c’è più differenza tra un cane e un gatto o tra un gatto e un cavallo di quanta ce ne sia tra un essere umano e uno scimpanzé, che condivide con noi il 98 percento del suo patrimonio genetico!

    L’antropocentrismo, dunque, il ritenerci di diritto superiori agli altri animali e la tendenza a riportare l’esistenza a una misura esclusivamente umana, è uno dei più grandi filtri attraverso il quale consideriamo le altre specie e ha origini antichissime. È una di quelle nebbie in cui veniamo calati sin dalla nascita e che assumiamo come ovvia perché talmente condivisa, così profondamente radicata nella cultura umana, da non riuscire a vederla al di fuori di noi. A meno di non prenderne esplicitamente consapevolezza.

    Ma l’antropocentrismo non è l’unico filtro attraverso cui vediamo il mondo.

    I primi del Novecento

    Da un punto di vista sociale, la coesistenza con l’uomo ha permesso al gatto di sviluppare una enorme flessibilità nel convivere accanto ad altre specie animali, come ci dimostrano pitture, sculture e racconti risalenti alla società rurale di fine XIX secolo. Ancora oggi, l’immagine più celebrata dall’arte è quella di una creatura in grado di convivere non solo con l’uomo ma con molte altre specie di cui egli si è circondato, occupando una nicchia ecologica spalancata dagli insediamenti antropici, dalla tendenza a produrre rifiuti e a circondarsi di animali che aiutassero nel lavoro dei campi.

    Del resto, da sempre gli altri animali hanno rappresentato uno specchio fedele del modo in cui gli esseri umani vivevano e si comportavano giacché tutta la storia dell’uomo è fittamente intrecciata con quella delle specie che ha incontrato, con cui si è contaminato, con cui ha creato modelli di convivenza ibridi in cui egli modificava se stesso in virtù della relazione con l’animale e viceversa. L’esempio più affascinante di questa contaminazione a doppio senso è senz’altro fornito dalla lunga storia di co-evoluzione con il cane. Questo quadrupede che oggi pensiamo sia così ovvio portare a passeggio per la città stringendo nelle mani un guinzaglio, già cordone ombelicale di un profondo legame sociale, ha permesso all’uomo di trentatremila anni fa, che aveva iniziato ad accogliere e ad alimentare i progenitori del cane, di diventare un cacciatore più abile, di stanare prede o di seguire piste olfattive con una precisione e una estensione spaziale negate alle dotazioni fisiche e sensoriali della nostra specie. Al contempo, l’uomo ha fornito al cane sicurezza, cibo e un’identità sociale all’interno della quale riconoscersi e accentuare i propri tratti di docilità. Grazie a queste reciproche influenze, uomini e cani sono cambiati e lo hanno fatto insieme, condividendo un percorso di evoluzione comportamentale e – a quanto confermano le ultime ricerche nell’ambito – anche genetico.

    È indubbio, del resto, che la relazione dell’uomo con gli altri animali abbia da sempre rivelato tinte utilitaristiche. La distinzione linguistica tra esseri umani e animali è solo un primo esempio dell’atteggiamento antropocentrico con cui l’uomo ha affrontato per secoli la sua relazione con le altre specie: sin dai dettati della Bibbia, secondo la quale Dio gli avrebbe assegnato il compito di tutelare quanto creato, l’uomo si è da sempre eretto ad altro, a superiore, a portatore di conoscenza, di coscienza e di autoconsapevolezza. Oggi la ricerca etologica e quella neurobiologica stanno iniziando a raccontarci una storia un po’ diversa ma la cultura dominante resta di gran lunga antropocentrica e prefigura un’umanità dotata di raziocinio, intelletto e capacità di costruire culturalmente, contrapposta a una animalità preda dei suoi istinti e dell’irrazionalità.

    Ma l’animale che mi porto dentro

    non mi fa vivere felice mai

    si prende tutto anche il caffè

    mi rende schiavo delle mie passioni

    e non si arrende mai e non sa attendere

    e l’animale che mi porto dentro vuole te.

    (Franco Battiato – L’animale, 1985)

    Tuttavia, gli ultimi cento anni di co-esistenza con gli animali su questo pianeta hanno segnato decisamente uno spartiacque nella storia evolutiva della nostra specie. Il passaggio dalla società rurale a quella industrializzata è caratterizzato da un cambio sostanziale del modo in cui gli animali vengono usati nelle attività umane. Ancora una volta, questo cambiamento è stato la conseguenza di un insieme di profonde modificazioni subite dalla società umana a molti livelli, primo fra tutti quello tecnologico, precursore di enormi stravolgimenti che hanno coinvolto la vita dell’intero pianeta.

    Nella società rurale preindustriale, gli animali erano completamente compresi nella vita e nell’economia della famiglia. La loro esistenza era ritenuta preziosa per la sussistenza di ciascuno perché grazie al loro latte, alla loro forza fisica, alla loro attitudine alla guardia, facilitavano il lavoro nei campi, proteggevano le proprietà e garantivano la pagnotta al nucleo familiare. C’era dunque una sorta di dipendenza reciproca tra gli uomini e gli altri animali: i primi si prendevano cura dei secondi, li sostenevano sul piano alimentare e, fin dove le tasche lo permettavano, su quello medico (la morte di una mucca o di un cavallo era un evento gravissimo nell’economia della famiglia); i secondi offrivano forza lavoro, manodopera e materie prime. Queste condizioni facevano sì che gli animali fossero tenuti in alta considerazione da tutta al famiglia, curati e apprezzati non solo in quanto utilizzabili ma anche perché, essendo profondamente inseriti nella vita familiare, stringevano legami con chi si prendeva cura di loro. L’economia non era certo di scala ma su base familiare, e gli animali domestici finivano inevitabilmente per entrare a far parte delle dinamiche personali. Potevano, inoltre, godere di un contesto ambientale a loro adeguato fatto di ripari notturni e di ampi pascoli, di aria sana e di un andamento delle stagioni che procedeva inesorabile e regolare e sul quale gli stessi contadini facevano enorme affidamento per la pianificazione dei raccolti. Questo tipo di realtà lasciava ampio spazio di esistenza anche ai selvatici che, sebbene cacciati e predati con armi fuoco, erano in grado di sopravvivere e riprodursi seguendo un ciclo vitale in equilibrio con le condizioni ambientali.

    Certo, all’epoca nessuno parlava di diritti degli animali o di bioetica. Ma sarebbe da chiedersi se queste tematiche avessero realmente ragion d’essere perché, benché fosse una vita dura per tutti, fatta di fatica e di lavoro, ogni individuo aveva, nell’economia familiare, un ruolo che garantiva il sostentamento di tutti e che era pienamente corrispondente alle carattestiche di specie di ciascuno: i cani aiutavano il pastore nella gestione dei capi o nella tutela della proprietà, le greggi e le mandrie di cavalli e mucche pascolavano in ampi spazi a loro disposizione, oche, conigli e galline godevano di un’aia ricavata da un fazzoletto di terra a loro libero uso, ognuno godeva di una propria nicchia coerente con le caratteristiche di specie. È improbabile, inoltre, che un qualunque contadino avesse dei dubbi sulla capacità delle proprie mucche di esprimere un desiderio, di opporsi a una richiesta, di valutare una situazione. C’è una saggezza contadina che si è andata accumulando nei secoli di co-esistenza con gli animali, una conoscenza empirica maturata sul campo, nella condivisione profonda di spazio e di tempo che, se non si stesse perdendo nell’usura del tempo e nel cambiamento della nostra relazione con la natura, oggi avrebbe molto da insegnare sulla consapevolezza della vita mentale ed emozionale delle specie non-umane.

    Il gatto non faceva eccezione a questo stato di cose. In generale, era considerato una sorta di appendice della casa, non gli erano riconosciuti peculiari diritti, il suo ruolo nell’economia familiare era quello di tenere sotto controllo le popolazioni di roditori che sterminavano raccolti, provviste e diffondevano malattie. Nessuno era in grado di eguagliarlo in efficacia ed efficienza e la cultura rurale lo sapeva molto bene.

    Probabilmente i gatti non sperimentavano relazioni granché profonde con gli esseri umani accanto cui vivevano, il loro benessere in termini di salute o di abbondanza di pasti non era garantito, ma la qualità della loro vita era pressoché

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