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Il dolore degli Innocenti: Il destino degli animali “minori”: Invertebrati, Rettili, Pesci, Uccelli
Il dolore degli Innocenti: Il destino degli animali “minori”: Invertebrati, Rettili, Pesci, Uccelli
Il dolore degli Innocenti: Il destino degli animali “minori”: Invertebrati, Rettili, Pesci, Uccelli
E-book493 pagine6 ore

Il dolore degli Innocenti: Il destino degli animali “minori”: Invertebrati, Rettili, Pesci, Uccelli

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Info su questo ebook

Il libro vuole mettere in luce il destino di questi animali, considerati “minori”: gli invertebrati, i rettili, i pesci, gli uccelli. I più invisibili tra gli invisibili. Un libro di denuncia che documenta scientificamente il dolore degli animali meno tutelati.
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Gli Autori 
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Enrico Moriconi, Medico veterinario, ha seguito campi diversi dell’attività veterinaria, dagli animali da “reddito” a quelli d’affezione anche come Dirigente del Servizio Sanitario Nazionale.
È stato per due legislature Consigliere regionale in Piemonte. Da anni collabora con le associazioni animaliste per l’affermazione di una cultura di rispetto nei confronti degli animali. Ha lavorato alla stesura di numerose proposte di legge, anche nazionali. È stato perito ufficiale in numerosi processi penali per il maltrattamento degli animali tra i quali Green Hill, il Circo Medrano, il Circo Victor, un allevamento di bovini, Circo Karoli. È autore di libri tra cui “Nutrirsi tutti inquinando meno”, “Medicina veterinaria e bioetica”, “La città degli uomini e degli altri animali”, “Le fabbriche degli animali”, “Vite a sei zampe”, “Cuori con la coda”. Interviene sugli organi della stampa e radiotelevisivi per la diffusione delle tematiche di tutela dei diritti degli animali.
Dal 2017 è Garante dei Diritti Animali della Regione Piemonte, unico in Italia.
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Christiana Soccini, insegnante, parallelamente svolge ricerche e interventi di conservazione, valutazioni di incidenza ambientale sulle biocenosi faunistiche e loro habitat, collaborando con diverse realtà museali, universitarie, enti locali e regionali.
Oltre 40 sono le pubblicazioni scientifiche peer-review, cui ha aggiunto manuali di scienze naturali, l’ultimo dei quali “Guida alle tartarughe e testuggini del mondo”(Franco Muzzio Editore), guide e atlanti faunistici di Parchi e Riserve d’Italia. Traduttrice e correttrice di testi e opere di carattere scientifico divulgativo, nell'ambito dell'informazione scientifica ha collaborato con la RAI e altre aziende e testate e ha ideato e condotto per diversi anni appuntamenti radiofonici di approfondimento scientifico e bioetico. Ha redatto ed emendato norme locali e nazionali a tutela e gestione di animali esotici e selvatici.
LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2019
ISBN9788895127507
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    Anteprima del libro

    Il dolore degli Innocenti - Enrico Moriconi

    Enrico Moriconi in collaborazione con Christiana Soccini

    IL DOLORE DEGLI INNOCENTI

    IL DESTINO DEGLI ANIMALI MINORI: Invertebrati, Rettili, Pesci, Uccelli

    ISBN: 9788895127507

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    Prefazione

    L’unicum dei viventi nella storia del pensiero umano

    Il dolore degli animali

    La percezione del dolore negli Invertebrati, negli Anfibi e nei Rettili

    I Pesci

    Gli Uccelli

    Conclusioni generali

    APPENDICE

    Il caso delle aragoste

    Circhi e Zoo

    Gli Autori

    Note

    Enrico Moriconi

    in collaborazione con Christiana Soccini

    IL DOLORE DEGLI INNOCENTI

    IL DESTINO DEGLI ANIMALI MINORI

    Invertebrati, Rettili, Pesci, Uccelli

    Edizioni Triskel

    Piazza Statuto, 15 - 10122 Torino

    Tel/fax: 011 530 846

    e-mail: info@triskeledition.com

    web site:

    www.triskeledition.com

    1 a Edizione 2019

    © Copyright 2019 - Edizioni Triskel

    Ebook ISBN 9788895127507

    Edizione cartacea ISBN 9788895127484

    " Sai che i tuoi desideri più vivi si realizzeranno

    solo se sarai capace di amore e di comprensione

    per uomini, animali, piante e stelle, così che ogni gioia

    sarà la tua gioia e ogni dolore il tuo dolore?"

    Albert Einstein

    Prefazione

    di Rosalba Nattero

    SIAMO TUTTI FIGLI DELLA STESSA MADRE

    Il dibattito mondiale sul cambiamento climatico, in corso soprattutto in questi ultimi anni, mette in luce un punto di non ritorno del nostro pianeta, uno squilibrio generale che crea giustamente allarme e preoccupazione.

    Purtroppo non vengono portati alla luce i veri motivi di questa crisi, né vengono presi i provvedimenti che forse potrebbero evitare una catastrofe annunciata.

    Mi riferisco agli allevamenti intensivi, una delle maggiori cause (ormai riconosciute) dell’inquinamento atmosferico. È noto che il processo produttivo dovuto alla trasformazione vegetale-animale è chiaramente causa di emissioni di gas serra, così come le deiezioni degli animali – allevati in quantità esorbitanti – generano liquami inquinanti ed emissioni di metano dovuti al loro processo digestivo.

    Per produrre 1 kg. di carne ottenuto dagli allevamenti intensivi occorre coltivare 15 kg. di vegetali. Questo genera l’emissione di gas serra, oltre che altri inquinanti, nonché un grande spreco di risorse.

    Ma la presa in esame di questo squilibrio generale non può prescindere da considerazioni di carattere etico e filosofico. Esiste un’anomalia di fondo, una mentalità con cui siamo abituati a convivere: gli animali possono essere sfruttati. Usati come cibo, adoperati negli spettacoli come circhi, zoo, sagre e fiere, impiegati nella sperimentazione animale. È un dato di fatto che difficilmente chi ha a cuore il benessere degli animali riesce ad accettare.

    Ci sono due modi di vedere gli animali: si possono considerare degli esseri inanimati, dei pupazzetti, e in questo caso diventa accettabile l’idea che vengano sottoposti a ogni genere di sfruttamento.

    Oppure li si considera esseri senzienti, in grado di provare gioia e dolore, come ormai ampi studi hanno dimostrato, e come è stato stabilito anche dal Trattato di Lisbona dell’Unione Europea.

    In questo secondo caso diventa molto difficile accettare che gli animali non umani siano trattati come oggetti senz’anima, alla stregua di un televisore o di un’auto, oggetti che quando non servono più possono essere tranquillamente rottamati e sostituiti.

    La legge non viene in aiuto dei nostri fratelli diversi: da anni le associazioni animaliste chiedono leggi più severe a tutela degli animali. Ma leggi più severe non sono sufficienti, se esiste a monte una discriminazione: l’animale umano è colui che detiene il potere di vita e di morte sugli animali non umani, è colui che usa tutto ciò che ha intorno a suo piacimento. Si chiama antropocentrismo, una visione difficile da scalzare in favore del biocentrismo.

    Esiste poi una gerarchia generata da luoghi comuni, creati non a caso, in cui anche chi ama gli animali rischia di imbattersi: animali di serie A, di serie B, e così via, fino ad arrivare ai più invisibili, a quelli meno tutelati anche dagli stessi animalisti.

    Quasi la metà delle famiglie italiane vive con almeno un cane o un gatto. Molto spesso vengono considerati come membri della famiglia e sono oggetto di amore e di attenzione. Spesso però il tipo di rapporto che viene instaurato è quello che si può avere con un eterno bambino bisognoso di cure, non considerando che il cane o il gatto di casa ha un suo percorso di crescita e di vita, e sarebbe infinitamente più giusto e anche più stimolante per noi dargli la dignità che merita. Ma la sensibilità verso gli animali è in costante aumento, e può capitare che gli stessi animali che convivono con noi ci facciano scoprire in loro un individuo sorprendente, che rivoluzionerà completamente il nostro modo di pensare.

    Tuttavia, purtroppo capita che le stesse persone che amano incondizionatamente il loro cane o il loro gatto non si rendano conto che la bistecca che hanno nel piatto proviene da un essere altrettanto senziente, strappato dalla sua famiglia e macellato.

    Ci sono poi altre specie di animali, i più invisibili tra gli invisibili.

    Il libro che avete tra le mani vuole mettere in luce il destino di questi animali, considerati minori: gli invertebrati, i rettili, i pesci, gli uccelli. I più maledetti tra i maledetti.

    I test che vengono compiuti su una rana non sono meno cruenti di quelli compiuti su uno scimpanzé, eppure suscitano minore indignazione. Si accetta supinamente che le aragoste vengano bollite vive o tenute sul ghiaccio con le chele legate seguendo il luogo comune (falso) secondo cui non provano dolore perché insensibili. E i pesci? Nei mari italiani vengono pescati continuamente milioni di pesci, senza nessun tipo di riguardo per la loro sofferenza. Tolti con violenza dal loro ambiente, poi ammassati nelle reti e lasciati agonizzare anche per ore, prima di venire uccisi. Ciò nonostante la loro sofferenza silenziosa sembra lontana da noi anni luce, è un mondo sommerso e non è certamente oggetto di grandi manifestazioni per rivendicare i loro diritti.

    In definitiva, il pensiero antropocentrico ci fa accettare supinamente uno squilibrio evidente che persiste da migliaia di anni: l’idea che gli altri animali possano essere usati, sfruttati, abusati.

    Eppure coabitiamo con altre forme di vita su uno stesso pianeta. Con altri esseri senzienti che provano gioia e dolore e non hanno la possibilità di scegliere il loro destino.

    La Natura è la nostra vera Madre, e tutti noi, animali umani e non, siamo figli della stessa Madre.

    Chi ama gli animali trova intollerabile la loro sofferenza, ma a volte ci si sente impotenti davanti al grande lavoro che c’è da fare per venire in loro aiuto.

    Occorre pertanto fare un salto di mentalità. Occorre operare alla sensibilizzazione sul diritto alla vita e alla dignità degli animali in quanto persone, al fine che la sofferenza degli animali diventi evidente e intollerabile al pari di quella umana. In una parola: antispecismo.

    Solo quando tutti gli animali verranno considerati a tutti gli effetti individui proprio come noi, anch’essi figli di Madre Terra, con il diritto di abitare con noi su questo pianeta, con il diritto di essere liberi e felici, allora la situazione cambierà.

    Rosalba Nattero, giornalista, musicista, scrittrice e speaker radiotelevisiva, è presidente dell’Associazione SOS Gaia e vice presidente della Ecospirituality Foundation, ONG in Stato consultativo con le Nazioni Unite.

    L’unicum dei viventi nella storia del pensiero umano

    Enrico Moriconi - Christiana Soccini

    Un elemento fondamentale nel rapporto tra i viventi animati è la condivisione o meno di una origine comune; in un certo momento, dopo la separazione evolutiva, gli esseri umani non potevano non vedere che gli altri animali erano più vicini rispetto alle cose inanimate; ciò ha posto più o meno direttamente, e in tempi molto dilatati, il problema sul concetto di vicinanza/lontananza tra l’uomo e gli animali. Significative sono le parole che Michael Pollan [1] riporta di John Berger [2] " l’enigma degli animali, il loro essere al tempo stesso così uguali e così diversi da noi, è stato fin dalle origini uno dei misteri cruciali della vita umana… l’umanità vede se medesima come qualcosa che emerge dall’animalità, senza essere certa di averla trascesa del tutto. L’animale ci viene dietro molto da vicino, per cui noi avvertiamo misteriose affinità con esso . Pollan, da parte sua, afferma che la perdita di contatto intimo con le altre specie, e in particolare la perdita di momenti in cui ci si guarda negli occhi, ci ha lasciato una grande confusione circa la nostra relazione con loro (gli animali ndr). Il contatto visivo, sempre un po’ inquietante, ci ricorda chiaramente giorno per giorno che gli animali sono molto simili e molto diversi da noi, in modo fondamentale, nei loro occhi scorgiamo qualcosa di indubbiamente familiare (dolore, paura, coraggio) e qualcosa di irrimediabilmente altro (che appunto non sappiamo definire). Un tempo su questa dicotomia si potevano porre le basi di una relazione in cui l’uomo era in grado di render omaggio a un animale e mangiarlo senza infingimenti. Ma tutto ciò è quasi completamente scomparso: oggi o facciamo finta di niente o diventiamo vegetariani ".

    È facile dire, considerando quanto avviene nel mondo, che la maggior parte della popolazione mondiale fa finta di niente però, contestualmente, vi è una continua evoluzione della questione che mantiene centrale l’argomento della vicinanza-lontananza; rispetto a come ci si pone nasce la modalità con cui si interagisce con gli animali. Direttamente collegata è la riflessione sulla sensibilità dolorosa degli animali: se sono simili a noi, proveranno le stesse sensazioni dolorose di fronte ai danni inferti? Dalla risposta discende l’atteggiamento che si assume nei confronti degli animali; infatti l’esperienza del dolore negli animali, nella maggior parte dei casi, è conseguenza delle azioni, attività umane per cui, a seconda della sensibilità individuale, si dovrà accettare o rifiutare che il nostro operato imponga ricadute negative ad altri esseri viventi. Ognuno, individualmente, si darà la risposta che più è consona alla sua visione, così si può variare dall’avere una maggiore comprensione della sofferenza altrui oppure una sua sottovalutazione fino a giungere alla totale rimozione.

    Molto presto nella storia umana si è assistito alla presa di coscienza del problema, si può dire che l’argomento sia emerso in periodo storico, mentre a livello preistorico erano preminenti altre tematiche. I graffiti, testimonianze di quel tempo, raffigurano uomini e animali, dove non sembra dubbio che questi siano simboli di forza anche interpretabili come rappresentazione delle paure consce o inconsce di fronte ad esseri con cui la competizione era molto forte. Gli animali sono spesso di dimensioni più ragguardevoli di quelle umane, a testimonianza di un timore per la possanza fisica dell’altro e indirettamente diventano una glorificazione di chi osava lanciare la sfida avendo a disposizione solamente una tecnologia abbastanza rudimentale, secondo il nostro metro di giudizio; frecce e lance richiedevano un approccio ben più rischioso di quello odierno. Dai graffiti non emerge, qualsiasi interpretazione se ne voglia dare, un senso di vicinanza e così pure non si evince pietà per la sorte altrui. Nell’insieme la visione è di forte contrapposizione tra due mondi che si sfidano per la supremazia.

    D’altronde con l’acquisizione di una prima rudimentale tecnica gli uomini hanno potuto misurarsi sul piano fisico con gli altri viventi, dovendo invece, in precedenza, soltanto averne timore e se ne tenevano lontani, cibandosene solo quando li rinvenivano già morti.

    Sul rapporto con gli animali, le prime testimonianze di riflessioni di stampo etico si trovano nelle teorie religiose e si può, anche forse un poco rigidamente, fare una distinzione tra le religioni monoteiste e quelle naturaliste. Queste dimostravano, nelle pitture rupestri nei riti sciamanici, nelle danze tribali sopravvissuti sino ad oggi, il rispetto, generalizzato e prevalente, portato dagli umani verso gli altri animali anche in occasione di cacce e uccisioni a scopo di sopravvivenza o nella esaltazione dei caratteri ferini quale rappresentazione di innocenza e, quindi, incarnazione del divino. Perciò tali religioni sono dette naturaliste. Fra di esse si distinguono le animiste e, fra queste, l’induista, la quale si presenta diversificata al suo interno in varianti attinenti alla figura adorata. Nell’induismo sei su dieci incarnazioni del dio Vishnu, personificazione del brahaman a-corporeo, sono animali (avatara), due sono Rama e Krisna, mentre la nona incarnazione – penultima prima della venuta di una decima definitiva figura, Kalki – è il Buddha. Nella fede induista, ogni spirito che deve espiare una colpa abita un corpo. Uccidere un animale significa interrompere il processo naturale di espiazione dei peccati di uno spirito e il suo processo di liberazione dalla corporeità, quindi, macchiarsi di una colpa contravvenendo allo scopo della vita materiale che è, appunto, l’espiazione della colpa. Perciò l’induismo impone l’astensione dal mangiar animali e, in alcuni filoni arcaici sopravvissuti, anche di ucciderne involontariamente. Non mancano però, in un paradosso non solo induista, i sacrifici cruenti con animali, ad esclusione delle bovine, immolati alle divinità o i tabù alimentari dalle diverse varianti le cui ragioni sono, al solito, di origine socio-geografica.

    Le tre religioni monoteiste storicamente nascono con uno dei primi (il primo?) testi scritti: la Bibbia. La Bibbia testimonia ugualmente un privilegio degli esseri umani, la possibilità, negata agli altri viventi, di essere loro a dettare e tramandare le regole di comportamento verso gli altri esseri, di decidere per tutti, di essere gli arbitri consapevoli del destino altrui.

    Il salto dalla preistoria ai documenti scritti – qual è la Bibbia – introduce anche, significativamente, le prime considerazioni sulle conseguenze per gli animali. Solo, però, con il trascorrere del tempo l’argomento del dolore verrà associato alla visione dell’altro, e così, da allora, seppure in forme non sempre eclatanti, il dubbio che l’altro essere vivesse la prova del dolore come l’umanità è una costante nelle testimonianze sul rapporto dell’uomo con gli animali.

    Nella Bibbia, secondo alcune interpretazioni, si potrebbero trovare i primi segni di una visione dialettica del rapporto con gli altri animali. Non dimenticando che il testo biblico riveste significato particolare solo per le civiltà cresciute nel Bacino del Mediterraneo discendenti e formatesi nell’ambito dapprima della religione ebraica e, a seguire, di quella cristiana e islamica, che in quell’ambito sono nate, pure è importante che in esso si leggano posizioni pietistiche nei confronti di animali non umani maltrattati, spesso assimilati agli schiavi nel medesimo ingrato destino. Atteggiamento forse minoritario e proprio delle èlite colte e agiate ma sempre presente nella storia e in netta contrapposizione con quello che invece oggettivava gli animali al servizio degli umani. La possibilità che nel testo biblico siano presenti le prime testimonianze di una riflessione sulla qualità dei rapporti tra le specie, nell’ambito di una perdurante visione di superiorità umana, come noto, si riassume in pochi versetti molto analizzati nel corso del tempo.

    In Ecclesiaste 3:18-21 si leggono parole che già prefigurano una vicinanza tra i viventi animati, poiché " la sorte dei figli degli uomini è la sorte delle bestie; come muore l’uno così muore l’alta; hanno tutti un medesimo soffio, e l’uomo non ha superiorità di sorta sulla bestia; poiché è tutto vanità e ancora chi sa se il soffio dell’uomo sale in alto, e se il soffio della bestia scende in basso nella terra? . Caratteristicamente, perché il dubbio sul rapporto perdura da sempre su questi argomenti, in altre parti la distinzione è netta poiché si ribadisce che solo gli uomini sono stati creati a immagine di Dio" cioè si istituisce un solco insuperabile tra gli esseri viventi.

    Si passò così da una posizione egualitaria, dettata dalla similare collocazione ecologica con le altre specie, ad una impostazione gerarchica che lasciò spazio alla riflessione e all’assegnazione di senso – giusto o ingiusto, reale o immaginario – anche nei rapporti fra specie. I due diversi approcci sono stati individuati in Genesi (9.2-3) " Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche ed in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere. Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo e in un passo dei Proverbi (12,10), l’uomo giusto ha cura della vita dei suoi animali ".

    La cura della vita degli animali lascia adito a diverse ipotesi interpretative, potrebbe essere semplicemente un passaggio di tipo economico: in un mondo in cui il bestiame era equiparato alla moneta sonante, prendersene cura significava anche tutelare i propri affari. La formula utilizzata però non elimina il dubbio che vi fosse una idea di condivisione del valore in sé della vita dell’altro, cioè una visione di una qualche vicinanza con l’altro vivente.

    Nell’ambito del pensiero cristiano il filone caritatevole anche verso le altre specie animali è andato ingrossandosi influenzato anch’esso, obtorto collo , dalla cogitazione scientifica e dalle scoperte che essa ha svelato. Così, senza dimenticare Francesco d’Assisi antesignano di chi oggi, organizzato e sovente patrocinato dalle istituzioni, sposta gli animali dalle strade affinché non vengano schiacciati dalle automobili, assistiamo ad una sempre più cospicua pubblicistica di fede, divulgativa o e specializzata indistintamente, che analizza la qualità dei rapporti fra la divinità, l’uomo e agli altri animali [3] . Lo stesso per quanto riguarda l’islamismo [4] e il giudaismo [5] , [6] , [7] .

    La questione del dolore negli animali, anche nella teologia cristiana, si è ben presto legata al mangiar carne, poiché era inevitabile la riflessione sulla necessità dell’uccisione dell’animale affinché diventasse cibo. Nei primi secoli dalla comparsa del cristianesimo molte furono le correnti interne che giunsero alla conclusione che, data la tuttavia incontestata capacità di provare dolore da parte degli animali, vista l’origine divina di tale capacità e vista l’assenza in essi di peccato da espiare, l’uomo dovesse loro il massimo rispetto. Pertanto, niente sacrifici animali e vegetarismo. Fu il Concilio di Braga della fine del VI secolo d.C. a sancire l’apostasia di qualunque cristiano che predicasse e praticasse tali credenze.

    Certo è che l’uguaglianza fra animali, umani e non, anche davanti al dio cristiano avrebbe determinato quanto meno la fine delle gerarchie ecclesiastiche e dell’ordine costituito, liberando quindi anche gli schiavi dalle catene e le donne dalla sottomissione al maschio.

    Dopo la Bibbia sono stati tramandati i testi greci e latini nei quali non sembrano presenti tracce di letture del testo biblico, però anche loro presentano talora una visione di vicinanza e partecipazione umana alla figura animale, anche se erano impregnati di una visione utilitaristico-gerarchica delle cose, per cui gli animali sono perché di utilità per l’uomo. Ciò nonostante, la filosofia greca si è caratterizzata per la sua speculazione sui diritti – delle donne, degli animali, degli schiavi, degli uomini – fino a generare l’idea di società democratica.

    Filosofi come Pitagora, Porfirio o Plutarco si interrogarono sul cibarsi di animali, astenendovisi, arrivando ad incarnare e dare il nome alla scelta di vita vegetariana. Fino al XIX secolo, infatti, pitagorico era il termine con cui venivano indicati coloro che intraprendevano la scelta vegetariana. Pitagora raccomandava di non avvicinarsi mai a cacciatori e macellai perché infestati dai demoni del sangue " Tanto più gli uomini massacrano gli animali e tanto più si uccideranno l’un l’altro, perciò colui che sparge i semi della morte e della sofferenza non può cogliere gioia ed amore " [8] . Non si può non sottolineare come compaia, forse una delle prime volte, il concetto della sofferenza degli animali legato al tipo di rapporto stabilito. L’uccisione degli animali è qui condannata non solo come esempio negativo per il comportamento tra umani ma proprio perché riconosciuta come causa di sofferenza anche per gli stessi non umani.

    Plutarco da Cheronea è il primo fra tutti i filosofi che scrissero sulla questione degli animali le cui opere in merito ci siano giunte per intero. Tra le oltre duecento opere giunteci tre rappresentano la più alta difesa degli animali riscontrabile nel mondo antico: De sollertia animalium, Bruta animalia ratione uti, De esu carnum oratio I e II. Per Plutarco la sensibilità non può esistere assolutamente senza almeno un minimo di intelletto: " Ogni creatura dotata di sensi è intelligente poiché naturalmente sentiamo con l’intelletto ". Da notare la sottolineatura dell’importanza dell’intelletto, che, come vedremo, rimarrà attuale fino ai giorni nostri in collegamento con gli approfondimenti sulla sofferenza animale [9] .

    Nella sua orazione a favore del non cibarsi carne non può fare a meno, significativamente, di considerare il problema della sofferenza: " Per un pezzetto di carne togliamo il sole, la luce, il tempo della vita a un’anima che per nascita e natura ne ha diritto. I gridi che emettono, poi, ci sembrano suoni inarticolati, non preghiere, suppliche, apologie… " [10] .

    Ed è con Anassimandro, VII sec. a.C., che troviamo testimoniata per la prima volta l’ipotesi evoluzionistica dei viventi, e gli uomini dai pesci, da un concetto primordiale comune ( ápeiron ).

    Fatti salvi i tentativi revisionisti anche recenti tesi a ri-collocare la specie Homo sapiens al vertice di una piramide qualitativa basata sulla pregiudiziale somiglianza corporea e spirituale degli uomini alla divinità, l’idea di una filogenesi dei corpi dei viventi viene accettata e si radica nei secoli.

    Una fratellanza, una pari dignità fra le specie, invece, non troverà mai, fino al Settecento inoltrato, facile attecchimento. Complice, qualche secolo dopo i presocratici, lo stoicismo. Secondo gli stoici, sebbene non rinnegassero il mondo come superorganismo, in quanto a dignità gli esseri viventi si inseriscono in una classica visione antropocentrista.

    La civiltà greca ha, infatti, fornito un supporto teorico fortissimo alle posizioni di sfruttamento degli animali tramite gli scritti di Aristotele: " Le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo, quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti, almeno per la maggior parte, perché se ne nutra e se ne serva per gli altri bisogni, ne tragga vesti e altri arnesi. Se dunque la natura niente fa né imperfetto né invano, di necessità è per l’uomo che la natura li ha fatti, tutti quanti " [11] . Aristotele immaginava l’esistenza di un’anima animale, caratterizzata da movimenti autonomi nello spazio e da sensazioni come, per esempio, il piacere e il dolore. E quindi ammetteva la sofferenza negli animali, ma evidentemente considerava superiore il diritto umano di usare gli animali.

    Suo allievo, Teofrasto o Tirtamo, si distingue dal maestro ricorrendo ad una speculazione sugli esseri viventi che lo colloca fra i primi epistemologi della storia. Il suo ragionamento prende spunto dalle evidenze scientifiche conseguenti ad una attenta osservazione dell’ambiente e dalle analogie funzionali e morfologiche che legano in un unicum tutti i viventi, mettendo in discussione qualsiasi principio teleologico, e scagliandosi contro i riti sacrificali ritenuti tardi e nati nell’ingiustizia.

    Vero che anche nella Roma imperiale le classi colte esprimevano una forte avversione per i truculenti giochi del circo, fors’anche perché venute in contatto con gli scritti greci portati in dote dalla cultura d’origine degli istitutori cui era affidata l’educazione dei giovani. Ma sarà alla fine dell’Impero romano che Teodosio, nel IV sec. d.C., sancirà il divieto di praticare sacrifici animali nelle occasioni religiose.

    È difficile immaginare che il mettere fine ai sacrifici animali non andasse anche nel senso di risparmiare la prova del dolore agli animali.

    Lo studio degli autori latini molto spesso si concentra sui contenuti più conosciuti e autori come Tito Lucrezio Caro sono letti senza approfondire aspetti particolari che possono aprire una luce diversa sul rapporto tra le creature viventi.

    Nel De Rerum Natura si è elogiata la visione naturalistica, maestosa del vivente che si dice discendente dalla filosofia epicurea e proprio in questa descrizione ampia del mondo del tempo si trovano inseriti frammenti che parlano della visione degli animali. Ad esempio merita una considerazione un frammento particolare: " Davanti ai templi magnifici dei numi, presso gli altari\ brucianti incenso, sgozzato cade talora il vitello\ versando fuori del petto un caldo fiotto di sangue:\ ma per i pascoli verdi, priva di lui, vagolando \ ravvisa in terra la madre l’orme stampate dal piede\ bifido, mentre all’intorno scruta con gli occhi ogni luogo, \ se possa scorgervi il figlio perduto, ed empie, fermandosi, de’ suoi lamenti la selva frondosa, e spesso ritorna,\ trafitta da nostalgia del suo giovenco, alla stalla: \né i salci teneri e l’erbe che la rugiada ravviva,\ e i noti fiumi che cadono dall’alte rive le possono \ ricrear l’animo e togliere la subitanea ambascia:\ e non la vista nei lieti pascoli d’altri vitelli \ la può rivolgere ad altro e sollevar d’ambascia: \sino a tal punto essa cerca un che di proprio e di noto ".

    Si può leggere il brano come la descrizione della realtà naturale ma vi si può scorgere anche qualcosa in più. La descrizione del vitello morto può essere vista non solo come la semplice descrizione dell’atto del sacrificio ma anche come la partecipazione dello scrittore alla vicenda della morte dell’animale, un atteggiamento di pietà verso di lui, lettura che potrebbe trovare conferma nelle parole usate per raccontare l’atteggiamento della madre che va cercando il proprio figlio perduto qualcosa di più della narrazione della realtà ma la partecipazione di Lucrezio alla ricerca effettuata dalla madre, la comprensione dello stato d’animo della bovina che è colpita dal dolore della perdita e che non si risolleva d’animo per la visione del solito ambiente che conosce in quanto è alla ricerca di un qualcosa che ha perso. È assolutamente rilevante che Lucrezio non esiti a parlare di dolore della madre per la perdita del figlio, un dolore che nasce non da un danno fisico ricevuto ma da una privazione, un atteggiamento che non doveva essere molto comune all’epoca; anche se fosse semplicemente un pensiero poetico, non dimenticando il contesto da cui è tratto il brano, pure dimostra la capacità di leggere una vicenda reale con uno sguardo vicino alla sensibilità verso gli animali e pertanto non sembrerebbe fuori luogo attribuire a Lucrezio una visione almeno in parte empatica verso il dolore della madre.

    Sempre nel mondo letterario latino meritano un’analisi i versi di Virgilio, 367-375 delle Bucoliche: " Per tutto il cielo intanto\ continua a nevicare:\ muore il gregge \ e sepolti dalla neve stanno immobili grandi corpi di buoi; \serrati in branchi intorpiditi sotto questo peso,\ dei cervi sporge solo la punta delle corna.\ Così gli Sciti non li cacciano\ Aizzandogli contro i cani o con le reti \ o impaurendoli con penne rosse,\ ma da vicino li colpiscono con l’ascia,\ mentre col petto forzano la neve che li opprime,\ e quando urlano straziati, \li uccidono; … ".

    Anche in questo caso si può scorgere qualcosa in più della semplice descrizione, una comprensione, una compartecipazione quasi al dolore in quanto l’autore descrive la difficoltà se non le pena fisica degli animali sotto il peso della neve – e del freddo occorre aggiungere – e subito ci narra di come questi animali in difficoltà siano uccisi mentre urlano straziati. E forse si può vedere pure un atto quasi vile da parte degli umani che non affrontano animali nel pieno della loro vitalità ma mentre sono fiaccati e abbattuti dalle avversità.

    Certo non si tratta di prese di posizione chiare ma sono testimonianze, forse anche piccole ma significative, di una visione degli animali che si avvicina all’empatia per il loro dolore.

    Porfirio, di cui si ricorda, tra le altre sue idee, la posizione a favore del vegetarismo, oltre cinque secoli dopo Aristotele, profondo conoscitore delle scritture sacre ai cristiani tanto da ricevere le lodi di Agostino, verrà accusato di eresia e maledetto dall’imperatore Costantino poiché anticristiano. L’editto contro Porfirio prevedeva anche l’uccisione di chi fosse scoperto in possesso di sue opere.

    Nella lunga storia della Chiesa cattolica episodi importanti sono le vicende delle eresie e, a questo proposito, non si deve dimenticare come una delle più feroci repressioni fu quella dei catari, annientati uno ad uno nell’ultimo rifugio di Montsegur nel quattordicesimo secolo che esprimevano posizioni fideistiche tra le più intransigenti. Nella loro ricerca della purezza primigenia nel rifarsi al dettato biblico originario tra le altre pericolose teorie che diffondevano, la povertà individuale e della chiesa ad esempio, vi era anche quella del non mangiare carne e anche in questo caso una delle finalità era proprio in non indurre sofferenza negli animali.

    Passando i secoli, la voce di Leonardo da Vinci si è espressa sul tema anche per le sue note simpatie vero il mondo animale, conseguenza dei suoi studi scientifici e della sua attenta capacità di osservazione ( nda, Primum vivere deinde philosophari dichiarava Aristotele: la condizione del filosofo è l’essere totalmente contemplativo e non attore della vita ). Egli sosteneva che, a differenza delle piante, gli animali fossero sensibili al dolore perché capaci di movimento e che, quindi, non voleva provocar loro sofferenza uccidendoli per cibarsene "l a natura ha ordinato la doglia nell’anime vegetative col moto per conservazione delli strumenti, i quali pe’ l moto si potrebbero diminuire e guastare. L’anime vegetative sanza moto non hanno a percotere né contra sé posti obietti, onde la doglia non è necessaria nelle piante, onde rompendole non sentano dolore come quelle delli animali " [12] . In altre parole, secondo Leonardo gli animali svilupperebbero sensibilità al dolore perché ciò conferirebbe loro un vantaggio selettivo, evitando di ferirsi quando si muovono.

    Ancora ai giorni nostri le riflessioni sul dolore di Leonardo da Vinci sono attuali.

    Le posizioni di superiorità umana hanno sempre avuto il sostegno della teoria, e con l’Illuminismo si è alzata forte la voce di Cartesio che ha influenzato, e ancora influenza, il rapporto con gli altri animali. La sua teoria è importante perché, pur contestandolo, mette al centro del problema proprio il dolore degli animali; non potendolo ignorare sceglie di annullarlo con una finezza teorica: gli animali non hanno ragione e quindi sono automi e pertanto i suoni che emettono quando sono colpiti da un danno fisico non sono segnali di dolore bensì rumori emessi da macchine che non funzionano bene. Pur potendosi contestare la visione cartesiana, è doveroso riconoscere l’importanza di aver considerato centrale il dolore dell’animale.

    Se già da tempo, come i ricordati Plutarco, Pitagora, Porfirio e Leonardo da Vinci, si era evidenziato il punto del dolore degli altri viventi, probabilmente si deve riconoscere a Cartesio il ruolo di averlo messo come elemento su cui in seguito la ricerca filosofica non poteva esimersi dal riflettere. È anche per questo che oggi rimane tuttavia importante l’interrogativo preliminare all’analisi ovvero gli animali soffrono sia fisicamente sia psicologicamente?

    Una prima questione da prendere in considerazione è ben sintetizzata da un’affermazione del filosofo Lockwood, quando, adottando il principio di precauzione, sostiene che se noi assumiamo che gli animali possano provare paura e dolore e ci comportiamo di conseguenza, anche nel caso in cui sbagliassimo non causeremmo sofferenza; invece, il contrario non è vero: infatti se assumiamo che gli animali non hanno la capacità di provare paura e dolore e ci comportiamo di conseguenza, se l’assunto è errato abbiamo un’alta probabilità di provocare sofferenza.

    La questione è ben illustrata dal filosofo Bentham il quale, nel 1789, così scriveva: " Verrà forse il giorno in cui il resto della creazione animale potrebbe acquisire quei diritti che non avrebbe potuto togliere loro se non con la mano di un tiranno. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è una ragione per abbandonare senza rimedio un essere umano al capriccio di un torturatore. Un giorno si riconoscerà forse che il numero delle gambe la villosità della pelle o la terminazione dell’osso sacro sono ragioni altrettanto insufficienti per abbandonare alla stessa sorte un essere senziente. Su quale altra base si dovrebbe tracciare la linea invalicabile? Su quella della facoltà della ragione o, forse, di quella del discorso? Ma un cavallo o un cane adulti sono, senza paragone, esseri più razionali, oltre che più accessibili al discorso, di un bambino di un giorno, di una settimana, o anche di un mese.

    Ma anche supponendo che non fosse così, che importanza avrebbe? La domanda non è: possono ragionare?possono parlare? Ma: possono sentire?" (il dolore ndr.) [13] .

    Anche nei rapporti interumani la sofferenza è stata un mezzo con cui si sono costruiti rapporti sociali. Il dolore può esser provato ma anche inferto, può essere condiviso oppure può essere utilizzato come monito, come, allo stesso modo oggi, si ricorre alla pena di morte per punire i reati più gravi con l’obiettivo di indurre gli individui ad evitare l’adozione di comportamenti ritenuti moralmente illeciti dalla comunità.

    Proprio perché il dolore è un mezzo per la costruzione dei rapporti sociali, la sua accettazione e la sua negazione riferita a gruppi o a singole persone è servita nel tempo a costruire anche classi nella società.

    In un suo libro, Masson [14] scrive: " È sempre stato un conforto per il gruppo dominante supporre che chi si trova in posizioni inferiori non soffra o non senta il dolore in modo altrettanto intenso, o che non soffra in generale, per poter o maltrattare o sfruttare impunemente e senza senso di colpa. Nella storia del pregiudizio è degna di nota l’asserzione che le classi inferiori e le altre razze siano relativamente insensibili.

    Similmente, fino agli anni Ottanta del nostro secolo, gli interventi chirurgici sui neonati umani venivano eseguiti normalmente con rilassanti muscolari ma senza anestesia, nella convinzione tradizionale che i neonati non sentano dolore. Si pensava, senza avere alcuna prova, che il loro sistema nervoso fosse immaturo. La nozione che i neonati non sentano dolore è contraddetta direttamente dalle loro grida e può essere considerata solo un mito scientifico. Eppure essa è stata considerata un dogma della medicina umana, e la sua falsità è stata riconosciuta solo recentemente nella scia di studi che hanno dimostrato che i bambini che non ricevono anestetici impiegano più tempo a guarire da interventi chirurgici.

    Prevenzioni simili si sono estese all’esistenza di emozioni nei poveri, negli

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