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Miti e storie leggendarie degli animali
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E-book467 pagine5 ore

Miti e storie leggendarie degli animali

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Racconti incredibili e curiosità di creature reali e fantastiche

Gli animali sono da sempre presenti nei miti e nelle leggende perché sono per noi indispensabili. Sono metafore viventi delle nostre angosce, paure, speranze e di tutto ciò che non riusciamo a esprimere in altro modo. In questo libro sono raccolte storie originali – talvolta mai tradotte prima in italiano – che mostrano un mondo apparentemente fantastico e ingenuo, ma che è collegato ad antichi riti, credenze e religioni delle più varie culture del mondo. Il lettore scoprirà, per esempio, come un simpatico maialino possa diventare un essere mitologico che aiuterà sant’Antonio, novello Prometeo, a donare il fuoco agli uomini; come un placido orso che mangia mirtilli nella foresta sia in realtà un assatanato dongiovanni che in seguito darà vita al più romantico gorilla King Kong. Ancora, scoprirà che i miti e le leggende degli animali sono creazioni tutte umane per tentare di rispondere all’eterna domanda sulle nostre origini: ma “noi”, discendiamo davvero da “loro”? 

Miti e leggende di animali che abitano il mare, il cielo e la terra

Tra le storie più insolite
• Il leviathan 
• La gola della balena
• La nascita dell’orca 
• Il dio luna e i suoi cani
• Il serpente delle sette teste
• La nascita dell’Orsa Maggiore
• Mal di luna
• I giorni della merla 

Claudio Corvino
È uno studioso i cui interessi spaziano dall’antropologia alla storia. Tra i suoi libri: Storia e leggende di Babbo Natale e della Befana (con E. Petoia); Lo sguardo del lupo; Il libro nero delle streghe; Maometto. Le radici dell’Islam per capire la nostra storia (con L. Capezzone); Orso. Biografia di un animale dalla Preistoria allo sciamanesimo. Scrive su vari quotidiani e riviste e cura la rubrica Un antropologo nel Medioevo per il mensile «Medioevo». Per la Newton Compton ha pubblicato Tradizioni popolari di Napoli e Miti e storie leggendarie degli animali.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2019
ISBN9788822731241
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    Anteprima del libro

    Miti e storie leggendarie degli animali - Claudio Corvino

    Gli animali del mare

    L’insondabile mare è quanto di più lontano ci sia dalla terra abitata dagli uomini. Per un umano l’oceano può diventare un incubo asfittico dove né tatto, né gusto, né udito potranno dargli una mano a orientarsi o a sopravvivere. In mare gli occhi bruciano e l’olfatto è transitoriamente soppresso.

    Quell’enorme distesa liquida, inoltre, per una grossa fetta di popolazione terrestre è la tomba del sole e quindi la principale responsabile del buio e della temuta notte. Da qui a pensarlo come un mondo dei morti il passo è breve. «Se si dovesse assomigliare a qualcosa il mondo dei morti», scrive Maurizio Bettini, «bisognerebbe assomigliarlo al mare. Come il mare l’oltretomba è presente, ma come le profondità degli abissi è ignoto, impercorribile ai vivi. È così che esso finisce per costruirsi come una proiezione del mondo di qua, specchio che rimanda immagini ambigue e di volta in volta – a seconda delle culture, delle credenze o anche dei semplici stati d’animo – cangianti»².

    Inoltre, a pochi metri di profondità, la luce scompare e strane ombre minacciose cominciano a danzare in movimenti a volte improvvisi, a volte lenti ma inquietanti. A cinque metri, anche un piccolo tonno può mettere angoscia. Per questo «è terribile morire tra le onde», come scriveva Esiodo, perché il mare è un abisso inabitabile.

    È il regno dei pesci, di coloro che non hanno zampe e vanno veloci, inafferrabili come fantasmi. Non meravigli che il mito abbia costruito in questo oscuro mondo figure mostruose o ammalianti come sirene, belle ma pur sempre pericolose. Animali che ingoiano ogni cosa, primi tra tutti gli uomini; talmente grandi da apparire isole, isole-balene che subdolamente attraggono naufraghi e marinai per portarli lontano, in altri mondi. Non meravigli, ancora, che roride divinità siano assise sul fondo dell’abisso e da lì scelgano gli uomini e le donne da attrarre annegandoli, oppure offrano animali a beneficio dei pescatori che non si siano macchiati di colpe, come raccontano tante leggende dei popoli del Nord.

    Se esiste un mar dei Caraibi dove si narrano storie – lo vedremo – è solo perché i marinari hanno avuto il coraggio di superare un interdetto mar delle Tenebre, quella fascia oscura perennemente coperta da nubi e nebbia che s’incontra prima dell’equatore. Cristoforo Colombo volle oltrepassarla con le sue navi, cariche di uomini e cose, ma anche di storie e leggende.

    Tradizioni orali che negli ultimi anni, grazie anche ai social network, ritornano in auge più che mai, accompagnate dai documenti iconici di YouTube: strane amicizie tra bambini e delfini o tra balene e delfini; foche che si abbracciano teneramente quando non lascivamente, come forse già facevano le sirene di Omero; murene che fanno le fusa come gatte.

    immagine

    Pesci di diverse sorti, incisione tratta da Historia de gentibus septentrionalibus (1555).

    Metafore e doppi del mondo dei bipedi, gli abitanti del mare sono immaginati come raddoppiamenti di quelli della terra: pesci-tordi, pesci-merlo, ma anche il pesce-gatto o il pesce-cane.

    Nell’impossibilità di porre sulla sua superficie una qualsiasi pietra miliare, il mare più che luogo geografico diviene spazio mentale, una sorta di enciclopedia che accoglie mitologie legate all’alterità, alla morte, all’aldilà: anche se qui non riportate perché non riguardano gli animali, il mare è solcato da straordinarie storie di vascelli-fantasma come la gigantesca Merry Dun of Dover, dall’albero maestro così alto che, si racconta, una volta un ragazzo che vi salì ne ridiscese con i capelli bianchi. Oppure navi come la Rothramhach, destinata a navigare fino alla fine del mondo o la Naglfar, fatta con le unghie dei morti e perennemente in costruzione.

    In questo mondo oscuro e affascinante vedremo svolgersi le storie dei suoi abitanti, innanzitutto le balene, vere regine del mare.

    Perché l’acqua del mare è salata

    In realtà la seguente leggenda, conosciuta come L’acqua del mare, non parla direttamente di animali, ma è un racconto eziologico appartenente al gruppo di fiabe in cui il protagonista ottiene un oggetto magico in grado di cambiargli la vita, come nella più nota Tavolino, apparecchiati!

    Ci è sembrata adatta per introdurre le storie che riguardano gli abitanti del mare.

    Una volta, tanto tanto tempo fa, vivevano due fratelli, uno ricco e l’altro povero. Un giorno, era la vigilia di Natale, quello povero non aveva che poche briciole di carne e di pane nella dispensa, così decise di andare dal fratello a chiedergli, nel nome di Dio, di regalargli qualcosa per festeggiare almeno il cenone di Natale.

    Non era la prima volta che il fratello ricco doveva aiutare quello povero e potete immaginare che non fu molto felice di rivederlo, comunque però gli disse: «Se tu farai ciò che ti chiedo, ti darò un intero pezzo di pancetta».

    Così il poverello, riconoscente, disse che avrebbe fatto qualunque cosa.

    «Bene», disse il fratello, «eccoti la pancetta. E ora vai dritto dritto all’inferno».

    «Ciò che è detto, è detto», disse l’altro prendendo la carne e andando via.

    Camminò per tutto il giorno, fino al tramonto. Fino a che non vide una luce brillare.

    «Forse sarà qui il luogo che cerco», si disse l’uomo. Così guardò intorno, e la prima cosa che vide fu, davanti a una capanna, un uomo molto, molto vecchio con una lunga barba bianca, intento a far legna per il fuoco di Natale.

    «Buon pomeriggio», fece il viandante.

    «A te. Che fai in giro a quest’ora?», fece il vecchio.

    «Oh, sto andando all’inferno, se solo sapessi la strada», rispose il pover’uomo.

    «Be’, non ci sei lontano: questo è l’inferno», fece il vecchio. «Quando ci sarai dentro, quelli di lì faranno di tutto per comprare la tua carne, visto che all’inferno scarseggia un po’. Ma fa’ attenzione, non cederla se non in cambio del macinino che è dietro la porta. Quando sarai uscito, ti insegnerò come usarlo: è buono per produrre qualsiasi cosa».

    immagine

    Moglie e marito a tavola, in un’incisione ottocentesca.

    Così l’uomo con la pancetta ringraziò l’altro per i consigli e picchiò con forza alla porta dell’inferno. Una volta entrato, si rese conto che tutto era come gli aveva detto il vecchio e tutti i diavoli, più o meno importanti, gli sciamavano intorno come formiche intorno a un formicaio, facendo offerte sempre più alte per acquistare il pezzo di pancetta.

    «Bene», disse l’uomo, «la mia vecchia mi odierebbe se non le portassi questa carne per il cenone di Natale ma, visto che ci avete messo tutti il pensiero, ve lo cederò in cambio del macinino che è dietro quella porta laggiù».

    In un primo momento il diavolo più importante non voleva saperne di quel baratto, e mercanteggiava e tirava sul prezzo con l’uomo, ma alla fine cedette e decise di separarsi dal suo macinino.

    Quando l’uomo riuscì nel cortile dov’era prima, chiese al vecchio taglialegna istruzioni su come maneggiarlo. Dopo che ebbe imparato tutto ciò che c’era da imparare, ringraziò tanto il vecchio e scappò a casa il più velocemente possibile, giungendo fuori la porta appena prima che l’orologio scoccasse i dodici rintocchi della mezzanotte della vigilia di Natale.

    «Dove cavolo sei stato?», gli chiese la vecchia, «sono stata qui ore ad aspettarti senza neanche due legnetti da mettere sotto la minestra di Natale».

    «Oh!», disse l’uomo. «Non sono riuscito a venire prima perché ho dovuto fare molta strada, prima per una cosa, poi per un’altra. Ma ora vedrai cosa ho portato».

    Così mise il macinino sulla tavola e gli ordinò innanzitutto di macinare delle candele, quindi una tovaglia, e poi carne, birra e così via fino a che non ebbero ogni cosa utile per il cenone di Natale. Non aveva che da ordinare, ed ecco che il macinino gli macinava ciò che desiderava. La vecchia cominciò a benedire la sua buona stella e gli chiese dove avesse preso quel meraviglioso oggetto, ma l’uomo non volle dirglielo.

    «Tutto sta nel dove l’ho preso: il macinino è buono e l’energia che lo aziona non finisce mai. Questo è quanto devi sapere».

    Così macinò carne e da bere e ogni altro ben di Dio: tanta roba che sarebbe bastata fino alla fine dei Dodici Giorni. Così al terzo giorno dopo Natale diede una grande festa a casa sua, invitando tutti i suoi amici.

    Così, quando il suo ricco fratello vide quel ben di Dio in tavola e il resto conservato nella dispensa, ne fu geloso perché non sopportava che il fratello avesse tutta quella roba.

    «Era solo la vigilia di Natale», disse agli astanti, «quando venne da me pregandomi di dargli qualcosa da mangiare, e ora dà una festa quasi fosse un conte o un re». Allora si rivolse al fratello e gli disse: «Ma dove, per i diavoli dell’inferno, hai preso tutto questo ben di Dio?»

    «Da dietro la porta», rispose il padrone del macinino che non voleva rivelare il suo segreto. Ma nel pomeriggio tardo, dopo aver bevuto un goccio di troppo, non riuscì più a tenerselo per sé e andò a prendere il macinino, dicendo: «Ecco qui, guardate ciò che mi ha reso così ricco», e mentre diceva ciò faceva produrre al macinino ogni sorta di ricchezza. Quando lo vide il fratello, decise che doveva essere suo a ogni costo e così, dopo una lunga contrattazione, riuscì ad aggiudicarselo. Lo pagò trecento dollari, ma il fratello riuscì a ottenere di tenerselo ancora fino alla seguente raccolta di fieno. Fino ad allora, pensò, avrebbe fatto produrre al macinino così tanta carne e roba da bere, che gli sarebbe bastata per anni.

    Così potete immaginare che il macinino non ebbe certo il tempo di arrugginirsi per il tanto lavoro e, quando giunse il tempo del raccolto, il fratello ricco se lo prese, anche se l’altro ebbe cura di non insegnargli come maneggiarlo. Era sera quando il fratello ricco portò il macinino a casa, e la mattina dopo disse alla moglie di andare nel campo di fieno a lavorare mentre i falciatori tagliavano l’erba, e lui sarebbe rimasto a casa a preparare la cena. Così quando si avvicinò il momento, mise il macinino sul tavolo della cucina e gli fece: «Macina aringhe e brodo, e macinali buoni e in fretta». Così iniziò a macinare aringhe e brodo; prima riempì i piatti, poi tutte le tinozze e così via, finché il pavimento della cucina non ne fu quasi coperto. Poi l’uomo girò e rigirò il macinino per fermarlo, ma quello invece continuò a macinare e in poco tempo il brodo aumentò così tanto che l’uomo a momenti annegava. Così l’uomo spalancò la porta della cucina e corse nel salotto, ma non ci volle molto che il macinino riempisse anche questa stanza e fu solo a rischio della sua vita che l’uomo riuscì a tenersi alla maniglia della porta della cucina nel fiume di brodo. Così aprì la porta e corse fuori fin sulla strada con il fiume di aringhe e brodo alle calcagna che scorreva come una cascata su tutta la tenuta. Ora la moglie, che era nel campo a rivoltare il fieno, pensò che fosse ora di cena, e così si disse: «Bene! Sebbene il padrone non ci chiami, noi andremo a casa lo stesso. Forse ha trovato troppo difficile far bollire il brodo e sarà grato di avere il mio aiuto».

    Anche gli uomini ne ebbero abbastanza di lavorare, e si incamminarono lentamente verso casa ma, non appena cominciarono a salire la collina, videro venire giù un mare di aringhe, brodo e pane che scorrevano, spumeggiavano e precipitavano come un fiume in piena con il loro padrone davanti, mentre tentava disperatamente di salvarsi. Quando giunse loro vicino, gridò: «Volesse il cielo che ognuno di voi avesse cento bocche! Ma state attenti a non annegare nel brodo». Continuò a correre come inseguito dal diavolo in persona fino alla casa del fratello. Lo implorò, in nome di Dio, di riprendersi immediatamente il macinino altrimenti, disse, «l’intera parrocchia sarà letteralmente ingoiata dalle aringhe e dal brodo». Ma il fratello non voleva saperne nulla, a meno che non gli avesse dato altri trecento dollari.

    Così il fratello povero ebbe sia il danaro che il macinino, e con questo mise su una fattoria molto più bella di quella di quello ricco, e la ricoprì tutta con piastre d’oro. Siccome la fattoria si trovava vicino al mare, il suo luccichio arrivava fino all’orizzonte. Tutti coloro che veleggiavano in quel tratto di mare si fermavano per andare a far visita al riccone con la casa tutta d’oro, ma soprattutto per poter vedere il fantastico macinino, la cui fama si era diffusa in ogni dove.

    Così, un giorno, un capitano venne a vedere il macinino e la prima cosa che chiese era se quell’oggetto magico poteva produrre anche del sale. «Macina sale!», disse il suo legittimo proprietario, e poi rivolgendosi al marinaio: «Può fare ogni cosa». Quando il comandante ebbe ascoltato ciò, disse che doveva avere quel macinino a ogni costo, perché se lo avesse avuto si sarebbe liberato finalmente di tutti quei viaggi per i mari in tempesta solo per qualche carico di sale.

    In un primo momento il proprietario non voleva saperne di separarsi dal macinino, ma il capitano lo pregò e pregò così tanto che alla fine glielo diede, in cambio di molte migliaia di dollari.

    Non appena il marinaio ebbe il macinino tra le mani, si allontanò in tutta fretta, per paura che l’uomo cambiasse idea, senza pensare di chiedergli maggiori ragguagli. Così si imbarcò e partì.

    Dopo un po’ di tempo che navigava, portò il macinino sul ponte della nave e disse: «Macina sale, e fallo bene e in fretta». Il macinino cominciò a produrre sale come se fosse acqua e quando la nave ne fu colma, il capitano avrebbe voluto fermarlo, ma non ci riuscì, qualunque cosa facesse. Nel frattempo il macinino continuava e fece tanto di quel sale che la nave affondò.

    Così, alla fine, anche il macinino finì in fondo al mare, da dove ancor oggi continua a produrre sale senza posa. E questa è la ragione per cui il mare è salato³.

    Perché i pesci non hanno le zampe?

    La seguente storia, di provenienza romena, vorrebbe spiegare perché i pesci fanno la fine che fanno: grigliati e mangiati. Secondo un meccanismo comune a tutte le latitudini del mondo, gli uomini scaricano la colpa delle loro azioni su altri o sugli stessi animali: non sono gli umani che pescano, uccidono e mangiano i pesci, ma sono questi ultimi che l’hanno voluto illo tempore, facendo una richiesta sbagliata al Signore che li ha creati.

    immagine

    Pesci appesi alle fiancate delle navi con grossi uncini, in un’incisione tratta da Historia de gentibus septentrionalibus (1555).

    Quando Dio ebbe creato tutti gli animali, diede loro la capacità di camminare e mettersi così in salvo dai pericoli.

    A un certo punto giunsero i pesci e Dio chiese loro cosa avrebbero voluto. Costoro risposero: «Se possiamo scegliere, preferiremmo avere sette ali, così voleremmo molto più velocemente di ogni altro animale e nessuno riuscirebbe a catturarci. Ma se fossimo catturati, ci piacerebbe morire sulla griglia con gli occhi aperti».

    Dio scosse la testa a questa folle richiesta, perché sapeva bene che l’uomo avrebbe inventato amo e lenza e che quelle ali non li avrebbero aiutati per niente.

    Così i pesci vengono catturati con la bocca aperta e accettano la loro punizione senza dire una parola. Inoltre muoiono sulla griglia con gli occhi aperti⁴.

    Takánâluk Arnâluk, la Madre degli animali marini

    Secondo la mitologia inuit un tempo la luce sulla terra non esisteva, e in questa oscurità vigeva una grande comunanza e promiscuità tra gli esseri viventi: gli uomini potevano diventare donne e gli animali esseri umani, con la stessa lingua e le stesse abitudini. Differivano soltanto per alcune pratiche o per dei tratti fisici o psicologici: un uomo che un tempo era stato orso, per esempio, conservava il suo smodato amore per il grasso, oppure aveva canini più lunghi del normale.

    In questo universo transgender e transpecifico, anche i matrimoni tra uomini e animali erano possibili, ma anche allora le unioni erano abbastanza fragili.

    Come tutti i popoli che basano la loro esistenza sulla caccia o sulla pesca, anche gli inuit avevano un’attenzione straordinaria verso gli animali, soprattutto quelli marini. A sovrintendere alla buona riuscita della pesca e soprattutto la presenza o assenza degli animali, era una divinità conosciuta come Takánâluk Arnâluk o Sedna, la Madre degli animali. Ella abitava sul fondo del mare insieme a balene, trichechi e agli altri pesci, in una casa custodita dai cani di mare, le foche, oppure, secondo altre versioni, da un grosso cane che un tempo fu suo marito. È un animale ferocissimo che non lascia passare nessuno. Solo uno sciamano coraggioso e intrepido potrebbe riuscire ad attraversarne la soglia.

    Quando la selvaggina manca o scarseggia, gli inuit credono sia per il fatto che Takánâluk è arrabbiata o, meglio, paralizzata dalla puzza di impurità che esala dagli uomini che infrangono i tabù. Questa impurità viene immaginata come una sorta di vapore denso che va a rapprendersi sui suoi capelli, arruffandoli e facendoli ricadere sugli occhi e sul viso, impedendole così di vedere e di respirare: non può scostarli perché, come vedremo nella leggenda seguente, Takánâluk non ha le dita delle mani.

    C’era una volta una ragazzina che non voleva prendere marito: nessuno sembrava abbastanza giusto. Così il padre finì con l’infuriarsi e le scagliò una maledizione: «Che tu possa essere del mio cane!».

    Un pomeriggio, mentre stavano andando a riposare, si presentò un uomo molto strano. Nessuno l’aveva mai visto. Aveva denti di cane che gli pendevano sul petto come amuleti. L’uomo giacque con lei e la prese in moglie: era il Padre dei cani in forma umana, e così la maledizione si era avverata. Ma quando la ragazza divenne incinta, suo padre la portò su una piccola isola non troppo lontana. Era l’isola di Qiquertârjuk, vicino a Iglulik. Ma il cane li seguì a nuoto e vi si stabilì anche lui. Là era solito nuotare fino al villaggio in cerca di carne, che trovava in una sorta di basto del tipo di quelli utilizzati dai cani quando trasportavano carichi in estate. Così la ragazza e il cane vissero insieme.

    Ma venne il momento in cui lei doveva partorire, e così diede alla luce un’intera cucciolata: alcuni erano cani, altri esseri umani. I cani erano in maggioranza, cinque, per la precisione. Vissero tutti insieme nella piccola isola: la ragazza, il cane e la loro prole.

    A questo punto il padre della ragazza si sentì molto in colpa verso sua figlia, perché avrebbe voluto non aver mai inviato quella maledizione, e così un giorno, mentre il cane era partito a nuoto per procacciare la carne, mise pietre e sabbia sul fondo del carico e coprì il tutto con della carne, in modo tale che il cane non si accorgesse di nulla. Ma non appena cominciò a nuotare, il carico pesantissimo lo trascinò sul fondo, facendolo annegare. La ragazza divenne furiosa per ciò che aveva fatto suo padre e così disse ai suoi cani: «Quando vostro nonno verrà qui, ditegli di voler leccare il sangue dal suo kayak e fatelo a pezzi».

    immagine

    Incisione tratta da Historia de gentibus septentrionalibus (1555), raffigurante vari tipi di cani.

    Il nonno giunse come al solito portando della carne e i cuccioli, dicendo di voler leccare il sangue dal kayak, lo fecero a pezzi: ma il vecchio riuscì a salvarsi lo stesso, raggiungendo a nuoto la costa. Dopo quella volta però non osò mai più uscire in kayak.

    Da allora la ragazza e i suoi figli soffrirono spesso la fame, così ella decise di mandar via i suoi bambini. Li adagiò in uno stivale da neve e vi alzò tre canne come alberi dicendo: «Sa°rqutik� äpsin’ik sanavaguma°rpuse», «Voi sarete abili nel costruire armi». E così presero il mare: si dice che l’uomo bianco discenda da questa cucciolata di cani-bambini.

    Gli altri suoi figli, quelli che avevano forma umana, la donna li mise sull’alAq, il pezzo di cuoio che va sotto la suola dello stivale. Costoro andarono verso la terraferma e diedero origine, si dice, a tutti gli itqili’t, i Chipewyan.

    Una volta congedati i suoi figli, la ragazza tornò a casa dei suoi genitori e ricominciò a vivere con loro.

    Un giorno, mentre il padre era fuori a caccia, si avvicinò al villaggio un kayak e l’uomo che lo guidava gridò: «Fate venire qui la ragazza che non vuole sposarsi!». Sta parlando di me, suppongo, pensò lei. Così prese il suo ikpiArjuk, la borsa da cucito di membrana di rene di tricheco e andò dallo straniero sul kayak. Sembrava essere un uomo molto alto, da seduto, e aveva degli occhiali che gli coprivano gli occhi: «Siedi qui», le disse. Lei si accomodò a poppa del kayak e lui cominciò a pagaiare.

    Quando furono lontani dalla riva ormeggiò il kayak a un banco di ghiaccio e, saltando fuori dall’imbarcazione, si levò gli occhiali da neve e disse: «Guarda i miei occhiali, ah, ah, ah; guarda il mio sedile, ah, ah, ah!». Così, solo ora, la ragazza vide che gli occhi dell’uomo erano rossi e brutti e che in realtà era un uomo gracilissimo. Le era sembrato alto nel kayak perché era alto il sedile, non lui. La ragazza ne fu così contrariata che scoppiò in un pianto dirotto, mentre l’uomo si limitò a ridere: «Ah, ah, ah!» e quindi ricominciò a remare.

    L’uomo che l’aveva portata via era un qAqugluk, un uccello delle tempeste (Hydrobates pelagicus) in forma umana. Pagaiò fino a che non giunsero a casa sua, dove condusse la ragazza in un piccola tenda carina e molto confortevole all’interno, fatta di pelli di giovani foche.

    La ragazza visse con l’uomo e nacque loro anche un figlio.

    Il padre intanto era a lutto per la figlia e insieme alla moglie si imbarcò per andare a cercarla. Giunse a casa della figlia, la prese e la portò via, approfittando del fatto che il marito fosse a caccia. Ma quando questi tornò e scoprì che la donna era stata rapita, prese nuovamente la forma di uccello delle tempeste e li inseguì. In questa forma, non gli fu difficile trovare l’imbarcazione dei fuggitivi. Cominciò allora a girarvi intorno, gridando: «Lasciami solo guardare quelle belle mani che mi appartengono».

    Diceva così perché la ragazza era completamente nascosta da pelli al centro dell’imbarcazione. Ma il padre della ragazza, in modo molto arrogante, rispose: «Come può un essere che è alto solo perché è seduto su di un alto sgabello, un essere la cui faccia deve essere coperta da occhiali, come può un tale essere avere delle dolci e piccole mani tutte per lui?».

    A queste parole Uccello delle Tempeste si infuriò e volò sopra l’imbarcazione battendo a più non posso le ali, fino a che le onde si alzarono. Allora Uccello delle Tempeste gridò: «Le sue mani! Soltanto quelle care piccole mani che mi appartengono, fammele vedere».

    Ma al padre della ragazza non gli importava nulla di quelle grida e così l’uccello volò ancora più furiosamente intorno all’imbarcazione e planando su di essa con le ali distese provocò una tale tempesta che l’imbarcazione quasi si rovesciò.

    A quel punto il padre della ragazza cominciò a essere impaurito e gettò la figlia in acqua, sì che il marito se la riprendesse. Ma lei si aggrappò al bordo dell’imbarcazione e, siccome non mollava, il padre le tagliò di netto le prime falangi delle dita, che caddero in mare. Allora apparvero le foche, tutt’intorno la barca: le sue falangi erano diventate foche. Ma la ragazza si aggrappò nuovamente alla barca con i monconi delle sue dita e di nuovo il padre la colpì, tagliandole le altre falangi. Non appena caddero in acqua, in superficie apparvero le foche barbate, tutt’intorno la barca. Ma la ragazza vi si aggrappò ancora con i moncherini delle mani. E il padre la colpì ancora, per paura che la barca si rovesciasse, visto che continuava ad entrare acqua da entrambi i lati. Così anche le ultime falangi della ragazza caddero in mare, e improvvisamente apparvero trichechi tutt’intorno: le ultime falangi della ragazza avevano creato i trichechi. Ma la ragazza non poté più aggrapparsi e si inabissò nel mare profondo, e divenne uno spirito, che noi chiamiamo Takánâluk Arnâluk⁵.

    Inuk e giganti

    Ai tempi del mito o del sogno gli inuit non conoscevano la morte, limitandosi di tanto in tanto a ringiovanire. Ma così facendo si moltiplicarono al punto che la loro terra, in realtà un’isola, cominciò a dondolare per l’eccessivo peso, rischiando di ribaltarsi. Un’anziana allora, utilizzando la sua magia, invocò la guerra e la morte sulla terra, affinché diminuisse il peso degli umani. Da quel momento la terra cessò di essere un paradiso e di supplire direttamente ai bisogni degli esseri umani, le donne cominciarono a procreare e gli animali divennero il loro cibo: non si ebbe più la transessualità o il passaggio da un genere all’altro e gli uomini e le donne cominciarono a unirsi in matrimonio e a cacciare gli animali. L’umanità perse per sempre quella fluidità e indifferenziazione primigenia in cambio della possibilità di continuare a esistere.

    Le forme di vita divennero specifiche e stabili, come stabili rimasero anche le differenze di grandezza tra i vari esseri mitologici, divisi in nani, inugagullio, e in giganti, inukpao. Al centro di questa scala c’era l’uomo normale, l’inuk.

    Lo squilibrio provocato dalla differenza di scala era però compensato da due proprietà che possedevano coloro che occupavano le scale inferiori: la possibilità di ingrandirsi che avevano i nani, e l’intelligenza degli umani. Non sempre infatti alla misura corrispondeva un’adeguata intelligenza e i giganti non erano proprio delle volpi.

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    La lavorazione della balena dopo la sua uccisione, in un’incisione tratta da Historia de gentibus septentrionalibus (1555).

    Un giorno due inuit erano intenti a cacciare la balena artica⁶> sul loro kayak, quando videro un gigante che camminava nel mare, poggiando saldamente i piedi sul fondo. Anch’egli cacciava la balena artica ma per lui era il piccolo scorpione di mare. Il gigante era così alto che l’acqua gli arrivava alla vita. Improvvisamente, pensando di vedere la testa di uno scorpione di mare (cioè una balena) uscire dal mare, gli assestò un formidabile colpo di mazza, dopodiché però cadde svenuto in acqua: aveva colpito il glande del suo pene in erezione che era affiorato dall’acqua⁷.

    Il Leviathan

    Gli uomini temono il mare, da sempre. In un

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